«Dime porca che me piase de più»
Itinerario – dedicato a Lorenzo Parolin, lui sa il perché – sul cinema del regista Tinto Brass di Fabrizio (Astrofilosofo) Melodia
seguito da alcune perplessità di Dibbì
«Tinto Brass si serve della fantascienza per imbastire una satira di costume. Il suo obiettivo punta sui vizi segreti della provincia italiana del Nord Est ricco e conservatore. Preti e contadini, nobiluomini e nobildonne, rappresentanti della legge e scemi del villaggio, costituiscono le diverse sfaccettature di una borghesia campagnola e cittadina gradita al potere fin quando si mantiene in silenzio, ma inaccettabile quando imprudentemente lascia scoprire una identità corrotta o anticonformista. All’uscita, il film non riscosse molto successo e oggi, più che per i contenuti, viene ricordato per la presenza di un cast eccezionale dominato dal mattatore Sordi che interpreta con maestria i quattro ruoli»: così la scheda su «Il disco volante» in «Fantafilm» a cura di Bruno Lattanzi e Fabio De Angelis).
Tinto Brass è da poco diventato ottuagenario, spegnendo le candeline il 26 marzo scorso. Dopo un’emorragia cerebrale che aveva fatto presagire il peggio, eccolo ripresentarsi alle scene, annunciando un nuovo film ad alto tasso erotico con protagonista la sua nuova musa, Caterina Varzi.
Chi lo dava per “astro ormai in fase morente” e “vecio rincoionìo” ha dovuto ampiamente ricredersi, come d’altronde sono ormai abituati a fare da anni i suoi detrattori e i più ottusi censori del suo cinema carnascialesco e gioioso, oltre che altamente pungente nei riguardi dei vizi e delle corruzioni italiane.
Nato a Milano, da una famiglia friulana di lontane origini austriache, si laureò in giurisprudenza a Padova nel 1957, ma decise di dedicarsi alla sua passione per il cinema, trasferendosi a Parigi, dove fu impiegato per due anni come archivista alla Cinémathèque, venendo a contatto con il clima dell’allora nascente Nouvelle Vague, e ritornando in Italia come aiuto regista di Alberto Cavalcanti.
Già assistente alla regia per Roberto Rossellini e Joris Ivens, Tinto Brass esordì alla regia con il lungometraggio «In capo al mondo» (1964), feroce satira politico sociale, molto invisa alla censura del tempo, che gli impose di rigirarlo completamente. Tinto Brass, per tutta risposta, ne cambiò solo il titolo in «Chi lavora è perduto!», inasprendo le polemiche e mostrando già il volto duro e beffardo che mai lo avrebbe abbandonato.
Finalmente si arriva al 1964, quando Tinto Brass volle cimentarsi con un genere al tempo prettamente statunitense e anglosassone, la fantascienza.
Realizzò la sua opera come una fiaba fantascientifica e con un cast d’eccezione, con Alberto Sordi nel quadruplice ruolo del parroco Don Giuseppe, prete ubriaco, il brigadiere un po’ tonto, il conte gay e il Marsicano, piccolo borghese meschino.
Fanno la loro comparsa anche Silvana Mangano e Monica Vitti, per la prima volta in un ruolo brillante e alla quale Brass fa pronunciare una frase che spesso ricorrerà nella cinematografia successiva del regista: «Dime porca che me piase de più».
Il film racconta, con un taglio prima documentaristico poi da commedia all’italiana, l’arrivo di un gruppo di alieni in un paesino del profondo Veneto: un’indagine dei carabinieri metterà alla luce una follia latente diffusa in tutti gli abitanti che poco ha a che fare con gli alieni.
I temi cari a Tinto Brass ritornano dunque prepotentemente, mettendo alla berlina i tanti vizi e le ben poche virtù di un popolo arricchitosi troppo in fretta e dalla mentalità conservatrice e meschina.
Altre pellicole seguiranno, portando il regista a staccarsi sempre più dal cinema “serioso”, come era solito definire le pellicole del cinema buonista e perbenista, assolutamente innocuo per il regime di censura, per approdare all’erotismo e all’eversività.
Qui vorrei solo brevemente ricordare pellicole dove il sesso e il suo particolare rapporto con il potere e con il denaro diventano tema centrale come «Salon Kitty» (1975) impregnato di atmosfere che ricordano quelle di Luchino Visconti e Liliana Cavani, e la ricostruzione storica di «Io, Caligola» (1979). La propensione per il grottesco contraddistingue «Action» (1980), beffarda e autobiografica riflessione sul rapporto che lega arte e pornografia. Tinto Brass approderà poi al successo con opere quali «La chiave» (1983, con Stefania Sandrelli, tratto dal romanzo dello scrittore giapponese Tanizaki Jun’ichirō) spostandosi poi gradatamente verso una trattazione sempre più disinvolta dei tabù dell’erotismo. Questa pellicola, che ebbe un buon successo di pubblico e di critica, fece entrare Tinto Brass nell’olimpo di tale genere cinematografico, rendendo però molto controversa la sua figura specialmente tra le femministe (che gli rimproveravano di considerare le donne come oggetti) e le classi sociali più tradizionaliste.
Puntualmente accompagnati da un alone di scandalo escono infatti «Miranda» (1985, con Serena Grandi, rivisitazione de «La locandiera» di Carlo Goldoni) e «Capriccio» (1987) con Francesca Dellera. Per terminare, ricordo il più esplicito e godereccio «Paprika» (1991, che lancia la brava Debora Caprioglio) e «Così fan tutte» (1992, con l’esordiente Claudia Koll). Le piccanti discussioni e le roventi polemiche che i suoi lungometraggi suscitano contribuiranno a rendere famose le sue attrici protagoniste.
Tornano dalle parti di quel vecchio «disco volante» sicuramente non viene alcun dubbio nel pensare ai poveri alieni giunti nello stivale come ben poco propensi a piani d’invasione o di socializzazione. Dopo i primi scontri con la nostra razza, devono aver immediatamente ripreso il volo, cancellando qualsiasi riferimento a questo viaggio, tranne bollare la via lattea come luogo fortemente pericoloso, dal quale girare alla larga. Tinto Brass denuncia con le armi che gli sono più congeniali e che gli consentono una libertà espressiva fuori da schemi precostituiti, con buona pace della Cultura Ufficiale.
Genere ben poco considerato da noi, la fantascienza con il regista veneto compie i suoi primi timidi passi; da lì a poco altri cineasti avrebbero seguito l’esempio, fra tutti vorrei citare Ubaldo Ragona, Mario Bava e Antonio Margheriti, che avrebbero affiancato alla loro produzione di genere, opere di fantascienza di tutto rispetto, pur se condannate e vituperate da critica e censura.
Purtroppo la fantascienza su suolo italiano sembra essere un genere di nicchia, relegato ad ambiti fuori dai circuiti seri. A questo si aggiunge, persino fra gli appassionati di questa nicchia un certo snobismo. Fruttero e Lucentini, curatori fra l’altro di molte antologie di fantascienza presso Einaudi, ebbero modo di asserire che immaginarsi un disco volante in fase d’atterraggio presso la piazza centrale di Lucca o in altri paesi delle provincie italiane era risibile, la fantascienza per sua stessa natura può essere umoristica ma non “far ridere”, con i toni involontari della commedia povera italiana. Tinto Brass dimostrò con i fatti che ciò non solo era possibile, ma che nulla l’Italia ha da invidiare alla fantascienza anglosassone dei puristi canonici.
Un esempio che anche Brass in più di un’intervista ha auspicato si trasmetta alle nuove generazioni, in modo che la fantascienza cinematografica e narrativa italiana possa trovare la sua giusta strada in un Paese ormai ridotto in ginocchio dalla crisi economica e con la mentalità conservatrice che sembra impedire qualunque rilancio verso il nuovo.
LE PERPLESSITA’ DI DIBBI’
Apprezzo molto il Fabrizio «fantafilosofo» di tanti martedì in blog e quello più occasionale del sabato (racconti) o delle «scor-date». Come è logico, ogni tanto ho qualche disaccordo con lui. Non per questo sto a fare il puntiglioso con note o commenti, men che meno penso a censurare il Fabrizio-pensiero. Stavolta invece… sento il bisogno di intervenire Appena l’ho letto ho avvisato il nostro Faber che se lo lasciava così avrei inserito una nota del tipo: «da quel poco che ho visto dei suoi film, da un paio di interviste a Brass che ho sentito o letto, a me pare che sia un cinema trucido e offensivo verso le donne, senza l’eros e l’humor che ci vedi tu».
Provo ad articolare meglio il discorso partendo dallo spunto iniziale, «Il disco volante»: non l’ho visto ma stando a Morando Morandini – se avessi una Bibbia per il cinema sarebbero le sue recensioni – è «un’operetta satirica e morale con messaggio incorporato»; giudizio critico due asterischi e mezzo e visto che il massimo è 5… siamo a mezza strada. Ho invece visto «La chiave», tratto da un romanzo di Junichiro Tanizaki, e mi è sembrato un filmaccio: anche Morandini la pensa così (un asterisco e mezzo) e infatti scrive: «con dolorosa premeditazione il regista ha ingaglioffito storia e personaggi, non intendendo che, trascinandoli nel grottesco, li svuota». Giudizi severissimi da Morandini anche su «Così fan tutte», «Capriccio», «Paprika» eccetera. Mi pare opportuno precisare che Morandini non è – né credo di esserlo io – un bacchettone moralista: evidentemente ha un’altra idea delle gioie che il cinema e l’eros possono dare. Tanto per capirsi Morandini dà un giudizio estremamente positivo del film «Ecco l’impero dei sensi», nonostante in Italia ne giri un’edizione mutilata, e certo siamo indubitabilmente dalle parti del sesso estremo.
E’ assai diffusa invece la valutazione positiva del primo film di Brass, «Chi lavora è perduto» (io non l’ho visto); e Morandini concorda: «film impegnato di veneta bizzarria libertaria che, tra scompensi e cadute di gusto, ha scatto, estro e qualche pagina di forza sconsolata, a mezza strada tra Rossellini e Godard». Le cadute di gusto evidentemente son diventate valanga e hanno soffocato l’estro. Soprattutto a me pare che Brass abbia cercato solo facili incassi, facendo un cinema “di sesso” in una logica sempre maschiocentrica – dunque di successo – ma fingendo di sfidare chissà quali tabù.
«Opinioni interessanti però, scusa Dibbì» – potrebbe obiettare Fabrizio e/o altre/i – «la stai facendo lunga». Forse e me ne scuso. Ci tenevo non solo a spiegare il disaccordo ma anche a segnalare che dalle parti della sessualità è necessario tentare di esser chiari visto che siamo sempre più stritolati fra la mercificazione di un erotismo senza gioia e a esclusivo godimento maschile da una parte e dall’altra fra le censure, le paure e i paraocchi che soprattutto le grandi religioni, patriarcali nel midollo, vorrebbero imporre a tutte/i. Per quel che intendo, Brass è sempre stato nel primo polo ma ovviamente criticarlo non significa stare con i censori. Nelle periferie francesi c’è un movimento di donne che si chiama «Nè puttane né sottomesse»: stiamo parlando anche di questo mi sembra. (db)
Ehm mi avvalgo, vista la lunghezza dell’obiezione, di una piccola sospensione del procedimento, in modo che la difesa abbia la possibilità di raccogliere e vagliare le prove per il contro interrogatorio, in vista dell’arringa finale.
Giudice Morandini, vero?
Eccomi qui,
vostro onore, signori della giuria.
I testimoni sono stati ascoltati e le prove visionate da questa celeste corte.
Devo dire che un giudizio per sentito dire, basato sull’analisi (buona, per carità) dell’autorevole (si fa per dire) Morandini, non ha molto valore, al pari di sentire che qualcuno ha detto che qualcun altro ha sentito che qualcun altro ha conosciuto un tizio che aveva la prova certa dell’esistenza del mostro di Loch Ness.
L’imputato è qui davanti a noi, egli va visionato, va giudicato, questo è sicuro, poichè è impossibile per l’essere umano sospendere la facoltà di giudizio, la capacità del pensiero.
Ora siamo qui a giudicare l’operato di Tinto Brass. Beh, signori della giuria, penso che per esso valga di certo il metro del “E’ bello ciò che piace in modo disinteressato”, cito ampiamente dal caso della “Critica della facoltà di giudizio” che il filosofo Immanuel Kant ha cosi gentilmente lasciato a noi, del potere giudiziario.
In effetti, è vero.
Tinto Brass non ha mai negato, anche in modo provocatorio, di far soldi con il culo, le tette e la fica delle donne.
A sua difesa ha sempre portato un argomento che è in se provocatorio e normale per il nostro costume.
Tale argomento si riassume nel semplice dato di fatto che nella nostra società la reificazione del corpo femminile è un dato di fatto, e come tale viene analizzato dal maestro Brass con piglio oserei dire documentaristico.
La sua poetica è direttamente connessa al rapporto dialettico tra la merce e l’occhio che ne usufruisce.
Uno sguardo spesso divertito e carnevalesco, in pieno rispetto di quella cultura veneziana di cui Tinto Brass è intriso.
Una cultura che fece di Venezia la capitale del piacere, prima che la decadenza e l’oscurità la prendessero.
Venezia, città famosa per le storie torbide e sanguinose di suore lussuriose murate vive e di fanciulle la cui virtù non lascia spazio all’immaginazione, la Venezia dei fratelli Gozzi, di Ruzante e di Bembo, rivive potente nelle immagini di Tinto Brass.
Immagini scioccanti, perfette, talmente adatte che sconvolgono, puntano il tasto sull’esibizionismo della merce nuda, frattaglie di carne esposte dal macellaio e pronte per essere vendute.
Nel nostro quotidiano e nonostante durissime battaglie, la guerra è di fatto persa, questi film sono l’ultimo gioioso canto del cigno di un mondo che non fa mistero della divinità di Mercato e di Profitto.
Se giudicherete da buoni borghesi, come cantava De Andrè, lo condannerete a 5000 anni più le spese.
Ma se avrete la mente aperta, vedrete che analizzando la spazzatura del mondo, potrete comprendere dinamiche sepolte e terribili vizi incoffesati, che il maestro ha portato alla nostra attenzione, non senza qualche colpa.
Ho finito, vostro onore.
nessuna condanna, nessuna assoluzione (d’altronde non sono giudice o prete) ma RESTA il disaccordo
e fraternamente ridacchiando aggiungo che “da buon borghese” glielo dici al cugino della cognata del compare e “vostro onore” sarò lo zio del fratellastro di nonna Agata
a una prossima occasione
db
Sembrate Gianni e Pinotto.
Gianni lo conosco bene e la provocazione Brass se l’è meritata (sennò il blog navigava troppo tranquillo). Pinotto doveva venire a Chioggia ma s’è dato.
prima cosa bella la provocazione. seconda cosa. adoro il cinema spazzatura, la serie z, cerco sempre di seguire la casa produttrice Troma, splatter e sesso a go-go con una facile morale come è d’obbligo quando si oltrepassano le porte del buon gusto. Di Brass ho visto qualche film. Devo dire che le pellicole tipo Paprika mi hanno fatto solo addormentare. Di Caligola preferisco la versione più cruda di Jo D’Amato. Brass, mi pare, molto modestamente, non sia riuscito a superare il falso perbenismo Veneto dietro cui si nasconde una ferocia individualista estrema. Ha mostrato tette e culi ma senza dare fastidio. Salvo Salon Kitty, un capolavoro secondo me, meno intellettuale di Salò o Le 120 giornate di Sodoma ma per questo con la possibilità di raggiungere un pubblico più ampio, anche se sempre limitato. Comunque gli riconosco di essere antifascista e di aver provato a fare qualcosa di diverso nel cinema italiano senza scadere nella becerità della commedia italiana stile Lino Banfi che ora fa il nonno perbene in vecchiaia (io non lo lascerei vicino a una nipotina)
Vince, grazie davvero… purtroppo a Chioggia non sono riuscito a venire a causa dei morti cagnacci del mio capo che mi ha coperto di lavoro oltre l’orario consentito, con somme maledizioni del sottoscritto quando gli avevo chiesto di lasciarmi uscire prima…
🙁
comunque Gianni ha incontrato Frankenstein e ti assicuro che ne è uscito traumatizzato… 😀
rom vunner,
è bello trovare qualcuno di mente aperta come te… che ci piaccia o meno, a Tinto Brass spetta la palma di aver iniziato la fantascienza cinematografica in italia, dando senza sapere una risposta dura allo snobismo perbenistico borghese di Lucentini, in qualche modo reo di aver condannato l’Italia a non poter essere teatro di invasioni e altre tematiche fantascientifiche considerate appannaggio americano o perlomeno anglosassone.
Seconda considerazione, anch’io adoro il cinema di serie z (oltre ai tuoi citati, suggerisco timidamente la “RaroVideo”, un must assoluto), presto il buon Dibbuk gestore di questo spazio riceverà miei articoli sul cinema suddetto, a cominciare dall’attacco dei pomodori assassini… 😀
Grazie davvero e mi trovi pure abbastanza concorde con la considerazione di Salon Kitty e il capolavoro di Pasolini, anche se a Brass riconosco una maggiore padronanza tecnica e una diversità di contenuti e di finalità non paragonabili a “Le 120 giornate”. Ammiro e venero Pasolini ne “il vangelo secondo Matteo”, dove mette in scena un Cristo fortemente comunista e rivoluzionario, ben lontano dall’essere il figlio di Dio e più attinente all’immagine pervenuta dai vangeli apocrifi, oltre a una ricerca iconografica a dir poco maniacale.
La perfetta sintesi tra i due modi di essere, avviene nel favoloso “L’ultima tentazione di Cristo” di Martin Scorsese, film ingiustamente e volutamente dimenticato dopo il vespaio di polemiche sulla sessualità di Gesù e Maria Maddalena, ben prima di Dan Brown. Ma questo ci porterebbe fuori tema, ma l’agorà è cosi… si dialoga, senza tesi preconfezionate da sciorinare, la vera morte della filosofia… 😀
grazie a Fabrizio e a Rom Vunner,
dissento (soprattutto da Fabrizio). Un conto è dire «amo i film-spazzatura» e un altro, mi pare, definire «capolavori» e/o «sovversivi» i suddetti. Fra tanti film non visti… sono riuscito a vedere (ma purtroppo in edizione mutilata dalla censura) «L’ultima tentazione di Cristo» che in effetti è assai interessante. Se capita ne riparleremo; mi rendo ben conto che la raffigurazione di una sessualità gioiosa rischia di essere schiacciata sotto tenaglie d’acciaio: da una parte maschilismo-patriarcato magari in versioni “religiose” e dall’altro il mercato che vende tutto con la faccia tosta di chiamarla libertà.
Vi giro. Già che ci sono, una nota di Severo De Pignolis (uno dei due tipi, che come sapete, ospito sotto le mie ascelle): «Cari voi, segnalo che “Il disco volante” è del 1964 mentre l’interessante “Omicron” (di Ugo Gregoretti) – che evidentemente vi è sfuggito – è del 1963. Se usciamo dal cinema ma restiamo nella fantascienza ambientata in Italia ricordo solo che il geniale “Un marziano a Roma” di Ennio Flaiano è del 1960. Distinti saluti agli adulti e baci a pupe/i». E mi fermo qui (db)