Dio è dalla nostra parte

articoli, video e canzoni di Carlo Rovelli, Donatella Di Cesare, Bob Dylan, Francesco Masala, Barbara Spinelli, Lucio Caracciolo, Matteo Saudino, Simone Siliani, Alessandro Ghebreigziabiher, Alessandro Orsini, Benedetta Piola Caselli, Peter Bloom, Andrea Zhok, Enrico Galavotti, Sergio Cararo, Enrico Euli, Domenico Gallo, Bernie Sanders, Luciana Castellina, Alessandro Dal Lago, Marinella Correggia, Maria Chiara Franceschelli, Vincenzo Costa, Giulio Marcon, Alessandro Messina, Antonio Mazzeo, Andrea Staid, Guido Viale

 

Quello che è successo, secondo me – Francesco Masala

 

Proviamo a immaginare un incontro di pugilato, la noble art, la chiama qualcuno, una guerra in quindici battaglie nella quale esistono delle regole (Muhammad Alì, splendido disertore, è stato un pugile immenso).

Le guerre guerreggiate non sono un arte così nobile (e agli assassini in divisa, e senza, gli arbitri, se non si possono comprare, non sono mai piaciuti, Dag Hammarskjold lo potrebbe testimoniare).

La guerra Russia-Ucraina è come un incontro di boxe clandestina, preparato per anni da chi organizza queste schifezze, fra un pugile-paese peso massimo e un pugile-paesecon una categoria di peso inferiore. La Russia da anni avvisava, nel deserto, che non avrebbe voluto combattere la guerra, che aveva delle richieste, più o meno legittime, che andavano discusse nelle sedi competenti.

Ma i boss degli incontri clandestini, senza regole, se non quelle, tenute nascoste, degli organizzatori stessi, avevano deciso da anni questa guerra, facendo sparire, o comprando, gli arbitri possibili, che per tempo avrebbero potuto risolvere ed evitare i problemi alla base della possibile guerra.

E quando i boss decidono qualcosa quello si fa, la guerra era stata decisa, addirittura gli organizzatori avevano stabiliti la data d’inizio.

Si capisce che quando l’incontro di boxe clandestina inizia quasi tutti danno la colpa a chi tira il primo colpo, soprattutto se è più grosso, e se poi la stampa (embedded) si concentra sulla povere vittime (il sangue fa crescere l’audience, si sa) è fatta, la colpa è di chi tira il primo colpo, gli organizzatori hanno raggiunto il loro obiettivo.

Nessuno si chiede più il perché e il come, chi lo fa è un nemico, viene sbeffeggiato ed emarginato, in tanti sensi, il tempo (sempre troppo tardi) dirà se chi fa domande è nemico della verità o della menzogna.

Vista da vicinissimo, foto, filmati, testimonianze e lunghe file della povera gente che scappa, sembra che la guerra sia tutta qui, tutto quello che è nascosto è invisibile e indicibile.

Gli organizzatori si sfregano le mani, morte e distruzione non li disturbano, anzi, è il loro pane quotidiano, Dio è dalla nostra parte, dicono, Bob Dylan* ce l’aveva detto e cantato.

 

 

 

 

scrive Carlo Rovelli

In molti mi dicono di stare zitto perché sono solo un fisico e non un politico o un esperto di politica internazionale. Io invece vorrei che parlassero tutti su questioni come la scelta fra la pace o la guerra, fra costruire armi oppure ospedali: che siano fisici o storici, o panettieri, o maestri di scuola. Sono convinto che la maggioranza delle gente non la voglia la guerra, e non voglia avere più armi. La maggioranza della gente vuole tranquillità, pace. Vuole che i soldi pubblici siano spesi per ospedali e scuole, non per strumenti di morte. Perché lasciar decidere ai fabbricanti di armi, che riempiono i giornali e i politici di soldi? Agli “esperti di politica internazionale”, che da sempre non fanno che portarci da una guerra all’altra: Ucraina, Yemen, Afghanistan, Syria, Libia, Iraq, e via via, in una striscia ininterrotta di centinaia di migliaia di cadaveri e di città distrutte, iniziate da altri, iniziate da noi, nate da escalation, io un po’ di più, tu un po’ di più, ma tu mi hai fatto questo, ma prima tu mi avevi fatto questo, e adesso te la faccio vedere io… e non bisogna mai cedere al nemico. Per il bene degli Ucraini, per il bene dei russi del Dombas, per il bene dei Kossovari, per il bene dei poveri libici nelle grinfie di Geddhafi, per il bene dei poveri siriani nelle grinfie di Assad, per il bene delle bambine Afghane, e per il bene di tutti costoro ne muoiono innumerevoli e demoliamo le loro città. Tutte guerre nate dall’agitare sempre lo spauracchio della paura. Ma ve lo ricordate? L’ISIS distruggerà l’Europa. Saddam Hussein ha armi di distruzioni di massa. I Serbi stermineranno il Kossovo. Osama Bid Laden da solo demolirà la civiltà. Il cattivo di turno è sempre il mostro orrendo, di cui dobbiamo tutti tremare di paura. Adesso di nuovo. Tremate, tremate, già si vedono le ombre dei cavalli dei feroci Cosacchi che pascolano in piazza San Pietro. Paura, paura. Comperate più armi, vengano signori e signore, guardate che belle armi, tutte scintillanti e in vendita! Prezzi scontatissimi! Sono armamenti verdi, ecologici, biodegradabili. Poi, più armi ci sono, più facciamo la guerra, ovviamente. Più ci insultiamo, ci sfidiamo, ci minacciamo l’un l’altro, ci accusiamo l’un l’altro di nefandezze (generalmente tutte vere), più finiamo per farci la guerra, ovviamente. E siccome i cattivi sono per definizione sempre gli altri, gli aggressori sono sempre gli altri, lo facciamo persino con un grande senso di superiorità morale. E se nel nostro paese la massima autorità morale a cui il paese solitamente si inchina, il Papa, arriva a dire che “si vergogna” per l’aumento degli armamenti, bhè questa volta lasciamolo dire, che ne capisce lui di politica e morale? Non è mica un “esperto di politica internazionale”. Se il Segretario Generale delle Nazioni Unite si sgola per dire di abbassare i toni invece di alzarli, per dire multilateralismo invece che dominio di una parte sull’atra, lasciamolo dire, che ne capisce lui di politica? Non è mica un “esperto di politica internazionale”, è solo il Segretario Generale delle Nazioni Unite. Cari politici, perché per una volta non provate ad ascoltare la gente? In fondo poi alla gente chiedete voti. La maggioranza degli italiani non vuole guerra, non vuole più armi, non vuole gettare fuoco sul fuoco. Nonostante la belligeranza e la bellicosità di tanto giornalismo. Nonostante gli urli “aiuto, armiamoci, arrivano i Cosacchi a pascolare i cavalli in Piazza San Pietro”, nonostante l’isteria, la maggioranza degli italiani non vuole più armi. Perché? Perché è ragionevole, e vuole solo vivere in pace. Non alimentare la guerra con la guerra. Come la maggioranza degli ukraini, dei russi e dei cinesi. Ma anche a loro raccontano che sono in pericolo, e che bisogna andare a difendere dei poveretti attaccati. Cerchiamo di non essere sciocchi: la Russia non attaccherà mai paesi nell’alleanza Nato, che è enormemente più potente dell’esercito russo. È la paura che genera aggressività. Rileggetevi tutti l’inizio di Mein Kampf di Hitler. È interamente giocato sulla paura “armiamoci e diventiamo forti, altrimenti ci stritoleranno”. Sembra tanti articoli recenti. Sappiamo come è andata a finire. La paura genera mostri. Se il XXI secolo si nutre di paura, sarà come il XX secolo: 70 milioni di morti ammazzati, per nulla.

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scrive Vincenzo Costa

 

I toni usati da Biden sono eccessivi, troppo acuti, troppo esasperati per essere interpretati come messaggi, o anche come minacce. Risuona in essi qualcosa di personale, di rancoroso, ma anche una paura che il presidente non riesce a trattenere. Una paura sulla sua persona, sembra quasi.

E forse ci dice qualcosa, costretti come siamo a muoverci in un labirinto di segni ambigui, di interpretazioni, di simulacri.

Forse stiamo sbagliando in un eccesso di geopolitica, e anche limes sta sbracando oramai. nella storia non ci sono solo forze oggettive.

Pensiamo che gli ucraini siano eterodiretti dagli americani. E questo è certo vero.

Ma se tenessero per le palle non gli USA ma Biden?

Se avessero un potere di ricatto sulla sua persona? Beh, significherebbe che il rischio che stiamo correndo è altissimo

Un regime change è possibile, in effetti, anche negli usa

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IL SUICIDIO DELL’EUROPA – Donatella Di Cesare

 

La parola Occidente, in questi giorni così spesso evocata, ha un significato articolato nelle diverse epoche. Non indica un sistema di valori, una forma politica, un modo di vivere. Occidente è l’orizzonte a cui guardavano i greci: la costa italiana, il continente europeo, una futura epoca nella storia del mondo. Nel periodo tra le due guerre mondiali i filosofi hanno pensato il destino dell’Occidente non come un tramonto, bensì come un passaggio: nel buio della notte europea non c’era solo morte e distruzione, ma anche la possibilità di salvezza. L’Occidente era l’Europa, l’Europa era l’Occidente. In questa prospettiva, che oggi – con un giusto accento critico – si direbbe eurocentrica, ciò che era oltre l’Atlantico, Inghilterra compresa, non era occidentale. Dopo il 1945 il baricentro della storia passa dal continente europeo a quello americano. Anche la parola Occidente cambia significato designando l’american way of life, lo stile di vita americano e tutto ciò che, tra valori e disvalori, porta con sé. L’Europa si uniforma – più o meno a malincuore. Se non altro per non perdere il nesso con l’Occidente di cui è stata sempre il cardine.

Quel che avviene in questi gravissimi giorni, dietro il millantato nuovo scontro di civiltà, è un’autocancellazione dell’Europa, che rinuncia a se stessa, alla propria memoria, ai propri compiti. Il 2022 segna l’ulteriore, definitivo spostamento, l’apertura di una faglia nella storia del vecchio continente. L’Europa tace, sovrastata dai tamburi di guerra dell’Occidente atlantico, a cui sembra del tutto abdicare. L’algida figura di Ursula von der Leyen, questa singolare, inquietante comparsa, che spunta di tanto in tanto per annunciare “nuove sanzioni alla Russia”, compendia bene in sé un’Europa cerea e spenta, incapace di far fronte a una crisi annunciata. Possibile che dal 2014 non si sia operato per evitare il peggio? Possibile che tra dicembre e febbraio non esistesse un margine per impedire l’invasione? Possibile vietarsi l’autorità di mediare per la pace? Si tratta di una vera e propria catena di errori politici imperdonabili, di cui i cittadini europei dovranno nel futuro prossimo chiedere conto a chi ora ha ruoli decisionali. Come se non bastasse, il silenzio fatale dell’Europa è squarciato dalle sguaiate provocazioni di Boris Johnson, il promotore della Brexit, e dalle temerarie parole di John Biden, forse uno dei peggiori presidenti americani.

Il suicidio dell’Europa è sotto gli occhi di tutti. Ed è ciò che ci angoscia e ci preoccupa. Perché riguarda il futuro nostro e quello delle nuove generazioni. D’un tratto non si parla più di Next Generation Eu – nessun cenno a educazione, cultura, ricerca. All’ordine del giorno sono solo le armi. C’è chi applaude a questo, inneggiando a una fantomatica “compattezza” dell’Europa. Quale compattezza? Quella di un’Europa bellicistica, armi un pugno? Per di più ogni paese per sé, con la Germania in testa? Non è questa certo l’Europa a cui aspiravamo. In molti abbiamo confidato nelle capacità dell’Unione, che aveva resistito alle spinte delle destre sovraniste e che sembrava uscire dalla pandemia più consapevole e soprattutto più solidale. Mai avremmo immaginato questa deriva.

La faglia che si è aperta nel vecchio continente, in cui rischia di precipitare il sogno degli europeisti, è anche la rottura del legame che i due paesi storicamente più significativi, la Germania e l’Italia, hanno intessuto con la Russia. Chi si accontenta di ripetere il refrain “c’è un aggressore e un aggredito”, ciò che tutti riconosciamo, non si interroga sulle cause e non guarda agli effetti di questa guerra. C’è una Russia europea oltre che europeista. Nella sua storia la Russia è stata sempre combattuta tra la tentazione di avvicinarsi al modello occidentale e il desiderio di volgersi invece a est con una ostinata slavofilia, testimoniata, peraltro, nell’opera di Dostoevskij. Durante la Rivoluzione bolscevica prevalse l’apertura per via dell’internazionalismo. Se Stalin cambiò rotta, la fine dell’impero sovietico segnò il vero punto di svolta. In quella situazione caotica andò emergendo la corrente nazionalistica che aveva covato sotto la cenere. Putin è il portato sia di questo nazionalismo, fomentato anche dal pensatore dei sovranisti Aleksandr Gel’evič Dugin, sia di una frustrata occidentalizzazione. Ma a chi gioverà una Russia isolata, ripiegata su di sé, rinviata a orizzonti asiatici?

In un’immagine suggestiva che ricorre in Nietzsche, in Valéry, in Derrida, l’Europa appare un piccolo promontorio, un capo, una penisola del continente asiatico. Nessuno ha mai potuto stabilire dove sia il suo confine a est. Ma certo ha sempre avuto il ruolo di testa, di cervello di un grande corpo. È stata il lume, la perla preziosa. Ci chiediamo dove sia finita.

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scrive Barbara Spinelli

Circola un numero talmente spropositato di menzogne, sulla guerra in Ucraina, che pare di assistere a un contagio virale. I ragionamenti freddi (o realisti) vengono sistematicamente inondati da passioni bellicose e molto calde.

L’onda travolge le ricostruzioni del conflitto, e anche i fatti elencati dagli esperti militari.

Perché ripercorrere la storia dei rapporti russo-ucraini, o ricordare le tante guerre Nato, quando il dualismo teologico-politico è così favolosamente chiaro: lì il Male, qui il Bene – lì Satana, qui arcangeli in tute mimetiche – lì il “dittatore sanguinario” e “criminale guerra” (epiteti escogitati da Biden), qui i combattenti della civiltà.

In genere si replica che in guerra è sempre così: propaganda e controverità imperversano in tutti i campi –si ripete – e già è una prima menzogna perché gli italiani e l’UE non sono in guerra, non vogliono andarci e potrebbero dunque concedersi il lusso di analisi più vicine alla realtà, meno interessate al proselitismo bellico, tendenti più all’asciutto che all’umido…

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I deserti tossici delle guerre – Marinella Correggia

 

In tema di guerre e ambiente il pensiero va subito al rischio di apocalisse nucleare e ai 50 milioni di litri di Agente Orange, defoliante irrorato dagli Usa in Vietnam che distrusse oltre un milione di ettari di foresta e la vita di decine di migliaia di civili, nati con gravissimi problemi. L’Unione internazionale per la conservazione della natura parlò di «ecocidio». Ma vale la pena soffermarsi sull’impatto delle guerre condotte anche dall’Italia negli ultimi 30 anni. Faceva osservare Mike Berners-Lee, direttore di Small World Consulting e autore del saggio The Carbon Footprint of Everything: «I costi umani diretti delle guerre sono così tragici che pensare agli impatti ambientali e climatici pare quasi frivolo o insolente. Ma le moderne forze armate e le loro operazioni belliche sono voraci divoratrici di energia ed emettendo carbonio riscaldano il clima, condannando gli umani anche odopo la fase della guerra».

LA STORIA DOVREBBE COMMEMORARE ogni anno a marzo l’avvio di ben 4 guerre aeree di aggressione, condotte negli ultimi decenni da membri della Nato e alleati mediorientali, aggredendo interi popoli. Altro che «rondine che deve tornare da un lungo esilio» (Gianni Rodari, 21 marzo). Il 24 marzo 1999 e fino al 10 giugno la Nato sgancia bombe sulla Rfy-Serbia (operazione Forza determinata, nobilitata in guerra umanitaria a protezione dei civili). Il 20 marzo 2003, Bush-Blair e alleati assortiti avviano la campagna di bombardamenti sull’Iraq (operazione Iraqi Freedom, contro le inesistenti armi di distruzione di massa irachene) per poi occuparlo fino al 2011.

IL 19 MARZO 2011, I MEMBRI DELLA NATO colgono al volo la decisione Onu di istituire una no-fly zone e per sette mesi fanno da forza aerea ai ribelli libici (è l’operazione Protettore unificato, in nome della cosiddetta Responsabilità di proteggere – R2P). Il 25 marzo 2016, la ricca coalizione di petromonarchi guidata dai Saud aggredisce (nell’operazione Tempesta decisiva) il già poverissimo Yemen; la guerra che continua è sfociata nella peggiore tragedia umanitaria dei nostri tempi.

MA NON SOLO MARZO E’ IL MESE delle guerre. Nella notte fra il 16 e il 17 gennaio 1991, la coalizione internazionale di 35 paesi (occidentali più petromonarchie e altri Stati arabi) a nome dell’Onu inizia a colpire l’Iraq (è lo spartiacque «operazione di polizia internazionale», più nota come Tempesta nel deserto) poi procede con l’operazione di terra; la vittoria dei 35 è il 28 febbraio, ma l’embargo mondiale al paese prosegue fino al 2003 e alle nuove bombe. Il 7 ottobre 2001, Usa e tanti alleati partono a bombardare l’Afghanistan (operazione Enduring Freedom o Guerra al terrorismo); dopo varie fasi, si è in un certo senso conclusa nel 2021. Va avanti da dieci anni, inoltre, la guerra per procura in Siria.

LE NOSTRE BOMBE SI SONO AVVALSE della regola del doppio standard. La propaganda di guerra ha ammantato di belle ragioni gli interventi nascondendo sotto il tappeto le inaccettabili conseguenze. Milioni di vittime fra morti, amputati, feriti. Distruzione di infrastrutture civili essenziali. Intere popolazioni sfollate. Diffusione del terrorismo, dall’appoggio Usa ai mujaidin afghani negli anni 1980 – Vijay Prasad nel suo libro War against Planet parlò di McJihad – fino all’azione in Libia grazie alla quale da 10 anni il terrorismo provoca lutti ed emergenze umanitarie nell’Africa susahariana. Impoverimento drastico. E poi distruzione ambientale, inquinamento, emissioni climalteranti.

IL NESSO FRA PACE E FUORIUSCITA dai combustibili fossili, quest’anno nella giornata d’azione per il clima del 25 marzo sarà posto – per via dell’Ucraina e delle manovre europee in materia di transizione ecologica – ma troppo a lungo non è stata considerata, dai governi artefici dei conflitti e dai loro stessi popoli, la ricaduta ecologica e dunque umana sia degli interventi militari a casa d’altri che del complesso militar-industriale che li fomenta. Si pensi al clima: come spiegava lo studio Demilitarization for Deep Decarbonization dell’International Peace Bureau (Ipb), il raggiungimento dell’obiettivo primario di zero emissioni è impossibile senza dismettere la produzione e l’uso di energivori sistemi d’arma e pletorici eserciti, e soprattutto senza dire addio agli interventi bellici veri e propri. Un carrarmato e un cacciabombardiere fanno guerra anche al clima (si parla di carbon bootprint: impronta climatica degli scarponi militari).

EPPURE ECO E PAX NON SI SONO ancora fusi, malgrado numerosi studi. Come Pentagon Fuel Use, Climate Change, and the Costs of War che analizza il consumo di carburante nelle guerre Usa «antiterrorismo» post-11 settembre: dal 2011 al 2017 la stima al ribasso, per il solo consumo di combustibile, arriva all’emissione di 1,2 miliardi tonnellate di gas serra (CO2 equivalente). Anche quando non muove guerre, il complesso riassumibile nel Pentagono con la sua ragnatela di mezzi, uomini, edifici e basi militari è il primo consumatore istituzionale di energia al mondo. Si pensi poi alla produzione di armi (fatte per essere usate) e al suo zaino ecologico e climatico.

QUANTO VIENE DISTRUTTO IN GUERRA va poi ricostruito (se si trova il denaro). Infrastrutture, case, servizi; rimetterli in piedi comporta un grande consumo di materiali ed energia, in genere non messo nel conto dei costi ambientali delle guerre. Un esempio: produrre una tonnellata di cemento comporta l’emissione di un peso equivalente di anidride carbonica. E in Siria si calcola che per la ricostruzione occorreranno 50 milioni di tonnellate di questo materiale. Ma i rischi ambientali non finiscono qui.

NON DIMENTICHIAMO I VELENI DELLE BASI militari. Ben Cramer nel suo libro Guerre et paix…. et écologie ricorda che la base Usa di Vieques in Portorico, chiusa per referendum popolare nel 2001, è ancora un territorio da bonificare dai numerosi inquinanti. E gli abitanti della base Usa di Okinawa in Giappone ne denunciano quotidianamente da decenni l’impatto. Come avviene in Italia, con la ragnatela d strutture militari dotate anche di bombe nucleari.

L’USO DI SOSTANZE MICIDIALI è stato ammesso più volte. Nella devastante guerra del Golfo nel 1991, mentre le immagini dei pozzi incendiati e lo sversamento di petrolio fecero il giro del mondo, molto meno si seppe dell’uso da parte statunitense di missili con uranio impoverito, poi replicato dalla Nato in Bosnia, nei raid del 1994 e del 1995, e nella guerra alla Serbia nel 1999, con malattie sia fra i militari sia fra i civili («sindrome del Golfo» e «dei Balcani»). A Falluja nel 2004 le truppe di terra Usa fecero invece ricorso a un parente del napalm, il fosforo bianco.

LA NATO IN SERBIA RIVENDICÒ tranquillamente di aver bombardato («per ragioni tattiche e strategiche») l’enorme complesso industriale di Pancevo: raffineria, petrolchimico e fabbrica di azotati. La portata in termini sanitari e ambientali non è mai stata verificata. Come riferiva anni fa l’Osservatorio Balcani e Caucaso, secondo le stime del Programma delle Nazioni unite per l’ambiente, erano state rilasciate nell’ambiente 2100 tonnellate di dicloroetilene, 250 tonnellate di ammoniaca, 460 tonnellate di cloruro di vinile monomero, ma anche cloro, ossidi di zolfo e di azoto. Oltre a 8 tonnellate di mercurio confluite nel Tamiš, affluente del Danubio.

DISTRUZIONE DI ALBERI E RACCOLTI: ora il Programma alimentare mondiale (Wfp) si inquieta perché il 29% del commercio mondiale di grano proviene dalla Federazione russa e dall’Ucraina, ma pochi a Occidente si sono curati di milioni di alberi di pistacchio e viti morti in Afghanistan, vittime dell’abbandono o del taglio, nelle condizioni estreme di 40 anni di conflitto. In Siria l’Isis – figlio infernale della guerra – ha rivendicato la distruzione dei campi di grano nel Nord e il rogo degli uliveti e agrumeti sulla costa. E questo mentre sotto la pressione bellica si perdeva il recupero in corso di antichi semi e di metodi colturali più sostenibili. Anche l’acqua poi è un’arma di guerra e la Turchia, nostro alleato, la usa da tempo. L’Eufrate nei paesi a valle è quasi allo stremo. E quale impatto ambientale avrà, in Sahel, la partenza di chi fugge dal terrorismo lasciando dietro di sé i campi?

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LE IMPENETRABILI NEBBIE DELLA GUERRA E QUELLE OSCURE DELLA PACE – Alessandro Dal Lago

 

In ogni conflitto si sprigiona la “nebbia della guerra”, il polverone impenetrabile che si leva dal terreno. Per orientarsi, bisogna ricordare che le guerre tra imperi grandi e piccoli, in ascesa o decadenti – perché di questo si tratta oggi – seguono una logica autonoma, al tempo stesso spaziale e temporale.

Spaziale: ogni impero tenderà a crearsi una zona di influenza ai confini che lo protegga dall’analogo movimento del vicino o competitore e ne attutisca le minacce strategiche e tattiche. Così, l’aggressività nazionalista della Russia di Putin è del tutto speculare a quella della Nato, soprattutto nei membri più recenti, come i paesi baltici e tutti gli ex membri del Patto di Varsavia, a cominciare dalla Polonia, entrati poi nella Nato, e ovviamente per la crisi dell’Ucraina. Temporale: ogni impero o parte di impero, attuale o potenziale, cercherà nel passato motivazioni e giustificazioni del proprio comportamento spaziale.

È del tutto ozioso stabilire se la rivolta di piazza Maidan a Kiev nel 2014 fosse spontanea o in larga parte promossa e sostenuta da forze esterne (probabilmente, era entrambe le cose). Sta di fatto che rappresenta la base ideologica, emotiva e politica a cui entrambi i competitori attingeranno per giustificare la propria azione e motivare gli attori sul terreno (combattenti, politici ecc.). Ogni impero reale o potenziale dispone della memoria di questo complesso di motivazioni. La memoria stabilisce le condizioni di adesione a una parte o all’altra al conflitto: il revanscismo russo è del tutto speculare al timore realistico, degli stati baltici e dell’Europa orientale, che la Russia voglia ricostituire a spese loro la parte occidentale del proprio impero.

Le guerre vengono combattute in base a pianificazioni strategiche e calcoli tattici per definizione sbagliati. La storia non ha mai offerto esempi di conflitti armati che si siano conclusi in base ai piani iniziali. Ciò vale per l’invasione napoleonica della Russia, lo scoppio della prima guerra mondiale, i piani di conquista di Hitler, la guerra del Vietnam e così via. La “nebbia della guerra” viene preceduta dalla “nebbia della pace” o, se vogliamo, la “guerra in atto” segue la “guerra potenziale”, per definizione foriera di errori di valutazione. Il conflitto in Ucraina ci offre un chiaro esempio di sovrapposizione di errori speculari.

La Nato non si aspettava, sino all’estate del 2021, che la Russia accumulasse il proprio risentimento armato e si preparasse all’invasione. D’altra parte, Putin – con un’opinione pubblica in parte ostile a una guerra contro una popolazione sorella – non si aspettava che la propria armata, due terzi circa di quella disponibile all’intervento, si impantanasse in un conflitto con un’Ucraina largamente ostile.

Quanto all’Ucraina l’ingenuità del presidente Zelenskyi e il cinismo delle autorità della Nato e dell’Unione europea (in varie gradazioni) sono clamorosi. Dopo aver impostato, a partire da piazza Maidan la propria azione come filo-occidentale e filo-Nato, con la cacciata di Yanukovic, oggi il governo ucraino è disposto a rinunciare all’Alleanza e probabilmente a riconoscere le repubbliche separatiste russofone e la Crimea. Una valutazione delle forze in campo tre settimane fa avrebbe facilmente fatto prevedere questo esito. Il cinismo occidentale emerge non solo nell’incessante soffiare sul fuoco della propaganda, ma nell’aver fatto credere all’Ucraina che la Nato l’avrebbe sostenuta contro Putin, a parte l’effettiva fornitura di armi leggere, missili antiaerei e sistemi elettronici.

La richiesta incessante da parte di Zelenskyi di una no-fly zone, che non verrà mai attuata, esprime pateticamente il sovrapporsi di ingenuità dell’uno e cinismo degli altri. Né Biden, né le autorità dell’Alleanza atlatntica si spingeranno mai ad avviare una sequenza di azioni e reazioni che potrebbe scatenare un conflitto generale, anche se non nucleare.
Così Putin, tatticamente sconfitto, sta vincendo sul piano strategico. A che prezzo? Per cominciare, a quello della visibile erosione di parte del suo potere politico ed economico. Il default finanziario incombente lo costringe a legarsi alla Cina, che, come unico mercato di sbocco per le materie prime russe, assoggetterà l’economia di Mosca.

E soprattutto a spese della sofferenza di migliaia di civili e militari ucraini e ragazzi russi mandati a morire nella steppa – e di milioni di profughi ucraini, donne e bambini costretti a lasciare il proprio paese bombardato.

Scrivo queste parole, deliberatamente lontane dalla facile emotività oggi dilagante, con il cuore oppresso da una sensazione di impotenza e fatalità. Sotto le logiche più o meno automatiche degli imperi ribollono le illusioni delle popolazioni, le ideologie, le proiezioni fantastiche in orizzonti spaziali e temporali, il dolore e la sofferenza vera che non verranno rimarginati se non dal tempo, ma senza alcuna garanzia che la cecità strategica e la forza delle armi dispiegata non comportino alla fine disastri inimmaginabili.

C’erano alternative? Risponderò con un apologo storico, che trovo in Counterpunch una rivista della sinistra americana specializzata in analisi politiche interne e internazionali. Quando i nazisti invasero Danimarca e Norvegia nel 1940, si trovarono di fronte a due reazioni diverse. La combattiva Norvegia scelse di resistere, sostenuta da Inghilterra e Francia, fu occupata dopo un breve conflitto e il suo governo andò in esilio. La disarmata Danimarca scelse la resistenza passiva – accettò la sconfitta – e cercò di coesistere con il regime nazista. Il re girava con la stella gialla sul petto e i nazisti non sapevano come comportarsi.

Nel 1943, nel corso di una notte, pescatori e diportisti danesi riuscirono a trasportare in Svezia gli ebrei di Danimarca attraverso l’ Øresund, beffando Hitler. Un’azione diversamente eroica, che esprime la nobiltà di quella società nordica. Resistere con le armi o accettare una sconfitta oggi che potrebbe portare a una vittoria domani: ecco una scelta tra due strategie che non possiamo chiedere al dittatore revanscista Putin, ma a chi lo contrasta in nome dei valori democratici. Qualche leader Nato avrebbe dovuto suggerirla a Zelenskyi, se solo entrambi avessero un minimo di cultura storica.

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Meno male che c’è il Papa a ricordare che la corsa al riarmo riporta indietro il mondo – Simone Siliani

 

Quella di papa Francesco è l’unica voce forte, coraggiosa e libera che si è levata contro la follia della guerra in corso in Ucraina. L’unica leadership morale e politica credibile, autorevole, coerente. Tutto il resto è grigio conformismo e resa culturale alla logica della guerra.
Una voce forte perché, pur nel tono mite da tango liso, chiama le cose col loro nome, senza giri di parole come si conviene nelle ore drammatiche: “… il problema di base è lo stesso: si continua a governare il mondo come uno “scacchiere”, dove i potenti studiano le mosse per estendere il predominio a danno degli altri”. Così ha detto papa Francesco. Nessuna concessione al “né, né”. L’unica parte da cui stare è quella degli innocenti civili e l’unica parte da avversare è quella dei potenti che ovunque usano il mondo per la loro fame di potere…

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La guerra è un’occasioneAlessandro Ghebreigziabiher

 

La guerra per molti è un’occasione irripetibile, più passa il tempo e altrettanto me ne convinco.
Perché la guerra è una grande occasione per chi la fa e non vedeva l’ora, questo è ovvio.
Altrettanto banalmente la guerra è un’occasione propizia anche per chi vive di essa e con i suoi profitti ci paga il mutuo della casa e dell’auto, ci manda i figli all’università e si gode pensioni dorate.
Perché altrimenti non si comprende a quale scopo ogni maledetto giorno, a prescindere se ci sia pace finta o reale guerra all’orizzonte, investa miliardi per costruire armamenti sempre più efficaci e al contempo per corrompere politici e istituzioni affinché si voltino dall’altra parte a turarsi il naso o sfacciatamente mettano la propria firma sulla bomba di turno.
Tuttavia, la guerra è un’occasione attraente anche per chi gode nel parlare solo di guerra, infarcendo i propri discorsi di obiettive strategie obiettivi strategici in quantità militare, più che industriale.
Perché altrimenti non è chiaro quale sia il motivo per avergli fatto sprecare ogni scampolo di giovinezza per apprendere le presunte profonde lezioni dei campi di battaglia della Storia.
La guerra, ovvero una in particolare, è una ghiotta occasione anche per tutti i quotidiani e i tg che non desiderano affatto affrontare tutte le altre di guerre e allora possono dire per un giorno o anche più: “Vedete? Non abbiamo timore di mettere da parte puttanate e gossip di partito per mandare in onda i capitoli orribili dell’attualità. L’importante è che nessun dito possa essere puntato contro di noi, anche solo sfiorando di striscio la nostra coscienza.” Ma che sia spettacolo di fiamme e morte con una torrenziale pioggia di clic impressionati…

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Il Tav è strategico per i Corridoi di Mobilità Militare Europei

 

E’ finalmente stampato e disponibile l’opuscolo sul Tav e i corridoi della mobilità militare europei richiamati in questi giorni anche nel documento del vertice straordinario dell’Unione Europea a Bruxelles.

L’accanimento giudiziario e poliziesco contro il movimento No Tav si spiega anche con la dimensione strategica e militare di questa grande opera che, ormai è chiaro, ha una funzione che va ben oltre quella del traffico di merci come dichiarato ufficialmente.

L’opuscolo contiene gli atti degli interventi ad una conferenza online tenutasi a luglio 2021 su questo aspetto della questione Tav.

Pubblichiamo la prefazione e l’indice dei contributi dell’opuscolo realizzato dal Movimento No Tav della cintura torinese…

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https://www.youtube.com/watch?v=6vajMTqFuyE

 

 

 

I giganti mondiali delle armi fanno miliardi grazie alla guerra – Peter Bloom

 

Le principali aziende produttrici di armamenti di tutto il mondo, comprese quelle russe, traggono enormi vantaggi dalla guerra. Quali sono e come stanno andando i loro affari da quando è cominciata l’invasione russa in Ucraina

L’invasione russa dell’Ucraina è stata ampiamente condannata per la sua ingiustificata aggressione. Ci sono legittimi timori di un revival dell’impero russo e perfino di una nuova guerra mondiale. Ma non altrettanto si parla di un settore, quello degli armamenti, che vale quasi cinquecento miliardi di dollari e che rifornisce entrambe le parti. Né dei notevoli profitti che questo farà grazie alla guerra.

Il conflitto ha già generato un notevole aumento delle spese militari. L’Ue ha annunciato di voler comprare e consegnare all’Ucraina armi per 450 milioni di euro. Gli Stati Uniti hanno invece promesso 350 milioni di dollari d’aiuti militari, che si aggiungono alle oltre novanta tonnellate di forniture militari, per un valore di 650 milioni di dollari, solo nel 2021.

Complessivamente, gli Stati Uniti e la Nato hanno inviato 17mila armi anticarro e duemila missili antiaerei Stinger, per esempio. Un gruppo di paesi – di cui fanno parte Regno Unito, Australia, Turchia e Canada – sta inoltre armando la resistenza ucraina.

Le opportunità della guerra

Si tratta di una vera e propria manna per le principali aziende nel mondo che producono armamenti. Per fare solo qualche esempio, la Raytheon produce i missili Stinger e, insieme alla Lockheed Martin, produce i missili anticarro Javelin che sono forniti da paesi come gli Stati Uniti e l’Estonia. Le azioni di entrambe le aziende statunitensi, la Lockheed e la Raytheon, sono cresciute dall’inizio dell’invasione, rispettivamente del 16 e del 3 per cento, mentre l’indice S&P500 in generale è calato dell’1 per cento.

Oltre a vendere armi ai belligeranti, le industrie del settore trarranno vantaggi dall’annunciato aumento delle spese militari in altri paesi

La BAE systems, la principale produttrice nel Regno Unito e in Europa, è cresciuta del 26 per cento. Delle cinque principali aziende del settore, solo la Boeing ha avuto un calo, dovuto tra le altre cose alla sua esposizione nel settore della produzione di aerei.

Alla vigilia del conflitto, le principali aziende d’armamenti occidentali si vantavano agli occhi degli investitori di una probabile crescita dei loro profitti. Gregory J. Hayes, amministratore delegato del gigante della difesa statunitense Raytheon, aveva dichiarato il 25 gennaio, durante una videoconferenza dedicata agli utili dell’azienda: “Basta guardare alla settimana scorsa, e all’attacco di droni negli Emirati Arabi Uniti… E naturalmente alle tensioni in Europa orientale e a quelle nel mare Cinese meridionale. Tutte queste cose stanno mettendo pressione sulle autorità locali, spingendole a spendere di più. Ho piena fiducia che ne trarremo un qualche beneficio economico”.

Già all’epoca si prevedeva che il settore degli armamenti sarebbe cresciuto del 7 per cento nel 2022. Il principale rischio per gli investitori, secondo le parole di Richard Aboulafia, amministratore delegato dell’azienda statunitense di consulenza militare AeroDynamic Advisory, è che “tutto questo si riveli un castello di carte russo e che la minaccia scompaia”…

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I segreti dei decreti armi – Benedetta Piola Caselli

 

Quanto ci costano le armi che mandiamo in Ucraina? E i profughi che fuggono dal conflitto? E’ una domanda che dobbiamo porci, soprattutto perché in questo momento è in discussione la conversione dei due D.L. che regolano la materia.

 

Ed è inutile evitare la domanda con considerazioni etiche come: “se c’è in ballo un principio, chissene frega dei soldi”, perché la domanda si ripropone, insistente, almeno per una questione di trasparenza.

Con una precisazione: qui non si parla dei costi indiretti – che pure sono notevolissimi – come quelli prodotti dall’aumento del prezzo del gas o del carburante, ma proprio di questi due elementi banali, concreti, immediatamente tangibili: armi e profughi.

Una volta chiari i dati, possiamo fare tutte le discussioni etiche del caso; prima, no.

Il problema è che, ad analizzare i testi normativi, saltano all’occhio degli elementi inquietanti.

Il primo è di ordine temporale ed è talmente macroscopico da fare venire i brividi: l’Ucraina è stata invasa il 24 febbraio, e il 25 febbraio l’ Italia ha emanato il primo provvedimento di emergenza aumentando la spesa militare destinata alla Nato.

Si tratta del D.L. n. 14 del 25/2/22 “Disposizioni urgenti sulla crisi in Ucraina” in cui si prevede che l’Italia sosterrà una spesa aggiuntiva di 86.129.645 euro in sei mesi per la partecipazione all’iniziativa Nato “Very High Readiness Joint Task Force”, cioè ad un’unità combattente capace di dislocarsi in qualsiasi parte del mondo in 2-3 giorni.

A questo si aggiungono 67.451.608 euro in un anno per la partecipazione alle operazioni di monitoraggio e la presenza di truppe in Lettonia, e 12.000.000 per l’equipaggiamento con dispositivi “non letali”.

La spesa è per lo più sostenuta con somme che erano destinate alla Cooperazione internazionale allo sviluppo.

Il testo si trova, ovviamente, in Gazzetta Ufficiale ed è di pronta consultazione per tutti.

A questo punto, delle due l’una: o abbiamo raggiunto un’efficienza amministrativa da far impallidire la Prussia bismarkiana, o la preparazione al conflitto si è preparata mentre l’opinione pubblica ne era completamente all’oscuro.

Infatti, oltre a notare che un’approvazione così rapida non la si è avuta neanche per la tragedia di Amatrice, che ci riguardava direttamente, si tratta di un decreto legge estremamente tecnico e con un impegno di spesa particolareggiato: cose che impongono attenzione, riflessione e scelte di policy importanti.

Sarebbe bene quindi che il Governo spiegasse che cosa è successo, specialmente per fugare il dubbio che le scelte nazionali siano mosse da decisioni diplomatiche segrete sottratte al controllo del Parlamento.

Il secondo decreto legge – quello su cui molto si è discusso pubblicamente- solleva ancora più problemi del primo.

Si tratta del D.L. n. 16 del 28/2/22 “Ulteriori misure urgenti per la crisi ucraina”, e riguarda tre punti: 1) autorizza l’Italia ad inviare materiale bellico in Ucraina, 2) prevede misure di emergenza per la crisi del gas, 3) amplia gli stanziamenti per l’accoglienza dei rifugiati.

Lasciata fuori la pur rilevantissima questione del gas, vediamo cosa dicono le altre due previsioni…

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Cecità – Andrea Zhok

 

La vera sfida in questa fase storica, se sei un occidentale moderatamente vigile, e a maggior ragione se sei italiano, è non soccombere alla depressione.

Già, perché chi riesce ancora a unire i puntini e a intuire almeno la forma generale di quello che ci sta succedendo, vede che siamo di fronte a qualcosa che ha la portata della caduta dell’impero romano. Il decentramento dell’impero americano ha ed avrà conseguenze non minori di quell’illustre precedente sulle sue province.

Il dato di partenza è che il mondo non è già più unipolare, come è stato dagli anni ’90, e non è neppure bipolare, come è stato dopo il 1945, ma sta divenendo sempre più chiaramente multipolare.

In questo contesto l’Occidente europeo vive una doppia tragedia, geopolitica e culturale.

Sul piano geopolitico si sta capendo sempre più chiaramente come l’Europa in tutte le sue versioni non si sia mai davvero allontanata dalla cuccia predispostale nel secondo dopoguerra dagli USA.

Gli europeisti, o almeno una parte di essi, si erano illusi che l’Europa (CEE, CE, UE) fosse nata come contraltare e polo alternativo agli USA, ma il perfetto allineamento degli “alleati” degli USA prima nella vicenda pandemica ed ora nel conflitto russo-ucraino ha mostrato a chi ne avesse ancora bisogno che l’Europa è e rimane sostanzialmente una colonia americana, tenuta a catena corta dal padrone.

Il fatto che in questo momento tutta l’Europa stia scavando la propria tomba economica opponendo pochissima o nulla resistenza alle spintarelle americane dice tutto quello serve per capire…

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Lettera al Presidente ZelenskyEnrico Galavotti

Signor Presidente Volodymyr Zelens’kyj, ormai siamo alla resa dei conti. Per non aver voluto riconoscere l’indipendenza alle due Repubbliche di Donetsk e Lugansk e il possesso della Crimea alla Russia, lei sta per perdere mezza Ucraina. E soprattutto farà perdere alla sua nazione lo sbocco al mare, poiché, dopo aver domato gli ultimi battaglioni nazionalisti e neonazisti rimasti a Mariupol’, è evidente che i russi occuperanno anche Odessa, collegando il Donbass con la Transnistria.

Non ci sarà nessuna guerra mondiale – come lei auspica, senza ritegno, sin dall’inizio della guerra –, perché in Europa ne abbiamo già avute due e sappiamo cosa vuol dire.

Se avesse accettato di denazificare il Paese e se avesse rinunciato a chiedere di entrare nella Nato, probabilmente Putin si sarebbe accontentato e avrebbe ritirato le altre richieste.

La Russia infatti ha il terrore dei missili nucleari della Nato e anche di una riedizione del nazismo, contro cui ha perduto la metà di tutti i morti nella seconda guerra mondiale.

Ora che gli ultimi neonazisti del suo Paese stanno per essere sconfitti, la consigliamo di rifugiarsi all’estero.

Faccia un governo in esilio, ma smetta di mandare in rovina il suo Paese e dia la possibilità ai civili, tenuti prigionieri dai neonazisti, di usare i corridoi umanitari.

Lei è già stato fin troppo fortunato a non avere come nemico gli americani, perché questi avrebbero bombardato a tappeto tutte le città, infischiandosene di chi sta sotto le loro bombe “intelligenti”. E di sicuro non le avrebbero permesso di tenere i suoi discorsi nei Parlamenti delle varie nazioni che la sostengono in maniera del tutto irresponsabile.

Pur di non farvi troppo male, i russi han già perso oltre 7.000 militari e quattro generali. Però la pazienza ha un limite. Si preoccupi piuttosto degli ultimi neonazisti che le sono rimasti. Loro si sentiranno traditi dalle promesse, fatte da lei, di una vittoria mirabolante a fianco della Nato. E per questa ragione, potrebbero essere disposti a fare qualunque cosa.

Forse non se ne è accorto, ma non sta girando un film di guerra. Esca dalla bolla e torni alla realtà. Faccia qualcosa di veramente utile all’umanità. Noi italiani ci limiteremo a guardare la serie televisiva “Servant of the people”, con lei come protagonista, sul canale “La7”.

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La Russia bastona il governo italiano. La reazione è da “Vispa Teresa” – Sergio Cararo

 

…Ma al di là delle cronache, visto che il governo Draghi ci sta trascinando in guerra e nella recessione economica, la questione merita qualche considerazione in più.

  1. In primo luogo dobbiamo chiederci – ma anche risponderci – se ormai siamo finiti in mano al governo della “Vispa Teresa”.
  2. Come potevano pensare Draghi, Di Maio, Guerini che le scelte di emettere le sanzioni e inviare armi contro la Russia sul fronte della guerra in Ucraina sarebbero rimaste senza conseguenze?
  3. Se il governo italiano ha un minimo di buonsenso, cosa aspetta a “destinare ad altre funzioni” o mettere la museruola al ministro degli Esteri Di Maio che sembra confondere la politica estera con il bar dello sport? Possibile che nessuno abbia spiegato a Di Maio che il suo ministero, in casi come questi, è uno dei più delicati e che l’uso ponderato delle parole e del linguaggio è decisivo nella diplomazia e nelle relazioni internazionali?
  4. Se un governo adotta sanzioni contro un altro governo, invia armi per combatterlo e i suoi ministri ne insultano sguaiatamente il presidente, perché mai sorprendersi se quello comincia a iscriverti tra i paesi “ostili” e non più tra gli “interlocutori”?

Infine, ma questa non è più una domanda, l’Italia nel XXI Secolo è già riuscita a dilapidare il suo patrimonio di credibilità e interlocuzione con il mondo arabo/mediterraneo accumulato nei quaranta anni precedenti (e con risultati importanti).

Oggi l’Italia viene percepita in un mondo fino a ieri ben disposto né più né meno che come una qualsiasi altra arrogante – ma più debole – potenza occidentale. Motivo per cui non è riuscita ad avere alcun ruolo neanche nella Libia che ha contribuito a destabilizzare con il tradimento del Trattato di amicizia e i bombardamenti nel 2011. Spedire soldati in giro in decine di missioni militari in Africa e Medio Orinte, non sta facendo affatto recuperare credibilità, al contrario.

Con una politica estera di totale allineamento all’Unione Europea e alla Nato, l’Italia non riesce neanche a comprendere che il mondo è cambiato, che il mondo è assai più vasto di Europa e Stati Uniti e che gli spazi di autonomia diplomatica giocati in passato si sono paurosamente assottigliati.

Invertendo questa tendenza all’insipienza e alla subalternità, si potrebbero ricostruire molte interlocuzioni nel mondo, e soprattutto se si guarda ad un mondo più vasto ma inevitabilmente diverso da quello occidentale.

Ma in tal caso il primo atto dovuto da fare è quello di rimuovere il ministro Di Maio da un ruolo così rilevante e sostituirlo anche con l’ultimo impiegato della Farnesina con dieci anni di servizio. Avrebbe maggiore senso di responsabilità e del proprio ruolo.

da qui

 

 

 

tra il dire e il fare c’è di mezzo il male – Enrico Euli

 

SI FA MA NON SI DICE

Negli ultimi tre decenni si dichiaravano ‘democratici e liberali’ e nel frattempo si legavano mani e piedi ai rifornimenti energetici del nuovo Zar.

Che cosa non si fa pur di evitare di fare scelte energetiche ecologiche e non centralizzate.

Negli ultimi tre decenni, dopo aver esaltato Gorbacev nella pars destruens come liberatore d’Oriente (a parole), gli abbiamo organizzato contro un bel golpe e l’abbiamo di fatto abbandonato e sostituito da quell’ubriacone di Eltsin e da quella spia di Putin.

Che cosa non si è fatto pur di evitare che la Russia entrasse nell’Unione Europea o almeno divenisse alleato del nostro continente.

Non sarebbe stato più intelligente, coerente ed innovativo che ibernare la Nato e restarci, come invece abbiamo fatto?

Negli ultimi tre decenni la Nato, anziché farsi fuori da sé, ha anzi scelto di espandersi ad est sino a circondare ed accerchiare il gigante russo.

Che cosa non si fa pur di obbedire agli Stati Uniti.

Nell’ultimo anno, il governo russo ha chiesto di tener conto delle sue esigenze e di ri-trattare la situazione di confine tra Europa e Russia. Risposte? Nessuna o, peggio ancora, negativa.

Nessuna negoziazione possibile.

Da qui, da questi tre passaggi, oggi sorge una guerra che definiamo d’aggressione.

Come se si trattasse di un raptus improvviso, una follia senza precedenti e motivazioni, una cattiveria gratuita ed insensata di un barbaro mostro.

Cosa non si fa pur di non vedere (anche) i propri torti.

 

SI DICE MA NON SI FA

Nel frattempo, Putin è isolato? Tutti qui dicono di sì, ma…

Non lo è da noi europei: continuiamo a succhiare gas e petrolio da mamma Gazprom.

Non lo è dai nostri cosiddetti alleati: Turchia e Israele fanno il doppio gioco e si fingono mediatori per salvaguardare solo i loro interessi; gli Emirati e i sauditi fanno il triplo gioco, come già accade da tempo con il terrorismo islamista.

Nel resto del mondo -come ha ratificato il voto all’Onu- metà della popolazione del pianeta (tra cui Cina, India, Sudafrica e vari paesi africani) si astiene e sta a guardare come andrà a finire.

In fondo, spera che perdiamo ancora.

Non saremmo noi, Occidente, ad essere isolati nel mondo?

Il mondo ci invidia, ci teme, ci imita, dipende da noi.

Ma ci odia.

Sì. Il resto del mondo dice di amarci, ma ci odia.

Ed attende, sotto sotto ma neanche troppo, un nostro ulteriore, catastrofico crac.

Afghanistan docet…

da qui

 

 

 

 

 

dentro l’imbrunire – Enrico Euli

 

E il mio maestro mi insegnò com’è difficile trovare l’alba dentro l’imbrunire…

(F. Battiato, Prospettiva Nevskij)

 

Mario Draghi, il suo governo dei migliori e tutti i governi europei sono passati con molta disinvoltura dal Green Pass al Donbass.

D’altra parte non ci voleva molta inventiva, né uno slancio di creatività particolarmente originale, per rispondere con la guerra alla guerra.

Ci siamo già esercitati ampiamente e con profitto già coi Neanderthal, proprio quando abbiamo iniziato -senza autoironia alcuna- a definirci Sapiens.

Quando Zelensky, parlando alle Camere riunite, si autoesalta esclamando che ‘il nostro popolo è diventato l’esercito’, pare dimenticarsi che -se questo è purtroppo divenuto vero- allora più il popolo-esercito resiste più sarà colpito, bombardato, massacrato, rastrellato, fatto prigioniero, deportato, reso ostaggio.

Non si può pensare che un popolo-esercito possa evitarsi di stare in guerra e -se più debole- di finire in trappola come dei topi (senza formaggio).

La guerra, da sempre-al di là dell’epica e dei trionfi- è questo.

Non è Putin ad essere cattivo, è la guerra ad esserlo, sempre.

Le guerre giuste non esistono. Anche la Chiesa -che ci credeva dai tempi del medioevo- ha smesso di star dietro a chi giustificava stermini e crociate al grido di ‘Gott mit uns’.

Ma il medioevo prossimo venturo prescrive invece di riarmarsi, paese per paese (con grande gioia di chi, anche tra i politici, fa i suoi veri guadagni con le armi (gli ex compagni comunisti e centrosinistri in prima fila: Pinotti, D’Alema, Guerini, De Gennaro, Renzi, Minniti…Non sarà per questi compagni di merenda che anche la molto sinistra Berlinguer ha scartato la mela marcia Orsini da Carta Bianca qualche giorno fa?).

Il tanto sbandierato esercito comune verrà imposto come un’aggiunta complementare alla Nato e alle forze nazionali. Come l’Unione Europea non ha preso il posto degli stati, così la nuova forza militare non sostituirà quel che esiste, ma sarà solo un nuovo modo di giustificare ed aumentare le spese militari (attualmente valutate in circa 1000 miliardi di dollari l’anno: 250 per l’Europa e 700 per gli USA).

L’Italia da sola passerebbe da una ventina ad una quarantina di miliardi (due finanziarie).

Così come le aziende farmaceutiche hanno approfittato dei fondi pubblici per finanziarsi i vaccini, così ora l’industria bellica sta approfittando della situazione per indirizzare una parte ancora più consistente dei bilanci pubblici verso il riarmo.

E tutto questo sta avvenendo -di fatto e sostanzialmente- senza opposizione.

 

Per continuare a coprire e giustificare tutto questo, continuiamo intanto a dover ascoltare le solite solfe del moderno paleolitico, con le solite modalità di comunicazione, già sperimentate in tutte le guerre e, più di recente, nel conflitto ‘vax/no vax’:

  1. la squalifica discriminatoria: chi prende posizione antimilitariste è subito definito ‘filo-putiniano’,censurato e messo all’angolo come dissidente (mentre si esaltano come sempre i dissidenti altrui, peraltro solo a parole: intanto vengono lasciati a macerare in carcere (Navalny da loro, Assange da noi);

I sondaggi ora non valgono: il fatto che la maggioranza degli italiani sia contrario ad armare gli ucraini (e che ci fossero 350 parlamentari assenti davanti a Zelensky) viene fatto passare per un dettaglio, un’incomprensione o un incidente di percorso.

  1. le false alternative: o si armano gli ucraini o li si sta lasciando da soli. Come già scritto, esisterebbero molti altri modi migliori per aiutare gli ucraini.

Due sono i popoli aggrediti dal governo di Putin: quello ucraino e quello russo.

Noi dovremmo aiutare entrambi, interporci, fungere da mediatori tra loro.

Se volessimo davvero far finire la guerra, e non farla proseguire, l’unica cosa che non è da fare è proprio armare loro e riarmare noi.

Nel momento in cui scegliamo invece di armarli e riarmarci decidiamo che gli scontri proseguano, che crescano e si aggravino: sia in questa guerra (locale) che non finirà a breve, sia in quella (globale) che si sta (ri)definendo e che proseguirà per decenni;

  1. le false soluzioni: la comunità europea può salvarsi solo se si conferma e si rafforza come comunità euroatlantica. Ed invece, la storia passata dimostra (e quella presente e futura ancor di più lo fa e lo farà) che l’Europa può continuare ad esistere e ad avere un senso proprio, se e solo se si porrà al centro tra i due blocchi, fortemente autonoma e ben differente da entrambi i sistemi imperiali esistenti o prossimi venturi (Atlantisti e RussCindiani che siano, o altro ancora…). Solo così potremmo rappresentare un nuovo approdo per il fragile naviglio della storia umana.

Un’alba (lontana) dentro l’imbrunire (che ci attornia)…

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La guerra in Ucraina, i pacifisti, l’Europa – Luciana Castellina

 

Bisogna fermare l’invasione di Putin, costringerlo al cessate il fuoco, evitare che si ammazzino i ragazzi ucraini, fermare l’escalation del conflitto che è alimentata dall’invio di armi: si avvicina così il rischio di una terza guerra mondiale. Oggi non si possono più combattere ‘guerre giuste’, ha ragione Papa Francesco.
La diplomazia e la politica internazionale devono prendere il posto delle armi, ma l’Onu, l’Unione europea, il governo italiano hanno rinunciato in questi decenni a costruire uno spazio di sicurezza comune a est dell’Unione Europea e nel Mediterraneo.

L’Ucraina e tutta l’Europa pagano le conseguenze di questi errori, la pace va fatta prima che esplodano i conflitti. Che l’Unione europea non sia capace di prendere una posizione è francamente umiliante, altro che debolezza dei pacifisti: noi siamo più forti perché abbiamo una posizione ragionevole, quella di fermare le armi e trovare un accordo.
Ma è solo alla fine delle guerre che si riconoscono le ragioni del pacifismo e della nonviolenza…

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I pacifisti italiani e l’Ucraina – Giulio Marcon

 

I pacifisti, in Italia e altrove, hanno reagito subito all’invasione russa dell’Ucraina: milioni di persone nel mondo hanno partecipato a manifestazioni e proteste. Oltre la richiesta di fermare la guerra c’è l’idea che la sicurezza non si protegge con le armi, va costruito un ordine internazionale di pace.

 

L’aggressione della Russia in Ucraina non era inaspettata. Sono passati otto anni dagli accordi di Minsk del 2014 – poco più di una tregua, un blando cessate il fuoco – che hanno posto fine al precedente conflitto che ha visto la separazione dall’Ucraina della Crimea – annessa direttamente alla Russia – e delle regioni di Donetsk e Luhansk, resesi autonome da Kiev. E sono trascorsi almeno sei mesi dalle prime avvisaglie delle intenzioni di Mosca di normalizzare l’Ucraina. In tutto questo periodo la politica e la diplomazia internazionale sono state immobili: nessuna determinazione da parte dell’occidente e della Russia a ricercare una soluzione definitiva alla crisi, nessuna politica di prevenzione dei conflitti, nessuno spazio alle Nazioni Unite e all’Osce – l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa, che ha un suo Centro per la prevenzione e la risoluzione dei conflitti – per accompagnare le tensioni internazionali verso soluzioni pacifiche fondate sul compromesso e la mediazione.

L’assenza di politiche di prevenzione non vale solo per l’Ucraina, ma – come hanno denunciato i pacifisti – per (quasi) tutti i conflitti nel mondo. Prevale la logica del potere degli Stati, l’uso delle armi, la Realpolitik; manca una visione politica su come garantire la sicurezza comune, la determinazione a costruirla, gli strumenti adeguati all’obiettivo: quello di non far scoppiare le guerre.

L’invasione russa in Ucraina sembra ignorare la lezione più importante dell’assetto geopolitico del dopo guerra fredda: con la guerra non si vince. L’interventismo militare si è dimostrato ovunque fallimentare, non ha portato a una maggior sicurezza, a risultati politici significativi e stabili. E’ questo, da sempre, un argomento fondamentale dei pacifisti, tragicamente confermato in questi trent’anni. Non c’è pace e stabilità in Medio Oriente dopo le guerre d’Israele, dopo due guerre contro l’Iraq, dopo la distruzione della Siria. Non si sono assicurati all’Afghanistan democrazia e diritti umani dopo vent’anni di occupazione da parte degli Stati Uniti e degli alleati della Nato. Più vicino a noi, nei Balcani, non si è costruita la pace dopo l’intervento della Nato in Kosovo. La Bosnia è sempre a rischio di secessione.

Queste lezioni valgono anche per l’Ucraina. Pensare di fermare la guerra “vincendola”, inviando altre armi, significa soltanto prolungare la guerra, trasformare l’Ucraina in una sorta di Afghanistan ed esporre la popolazione ad altre sofferenze. L’occidente si lava ipocritamente la coscienza con l’invio delle armi, mentre continua a finanziare Putin acquistandogli il gas.

Dalla guerra in Ucraina si può uscire solo con una soluzione politica. E’ necessario un negoziato non solo tra russi e ucraini, ma che coinvolga anche Unione europea e Nazioni Unite…

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Sanzioni economiche e finanza privata: cosa va cambiato – Alessandro Messina

 

Le sanzioni economiche, sempre più utilizzate, possono avere un impatto ambivalente. Se utilizzate per un cambio di regime nella storia si sono quasi sempre rivelate inefficaci. Il possibile impatto sull’economia e la finanza russe potrebbe essere minore di quanto si crede.

 

Le dimensioni relative dell’economia russa

 

La Russia, o per meglio dire la Federazione russa, rappresenta l’undicesima economia del mondo, in termini di Prodotto interno lordo. A fine 2020, i suoi 144 milioni di abitanti producevano beni e servizi per circa 1.500 miliardi di dollari, contro i 1.900 dell’Italia, i 3.800 della Germania, i 5 mila del Giappone, i 15 mila della Cina e i 21 mila degli Stati Uniti (fonte: Oecd). L’economia russa è dimensionalmente sotto quelle francese, inglese, sud-coreana e indiana ma sopra quelle brasiliana, australiana, spagnola, messicana, indonesiana, olandese, iraniana, svizzera, turca, e così via.

L’indice di sviluppo umano misurato dalle Nazioni unite, che combina reddito pro-capite, speranza di vita e livello di alfabetizzazione, è per la Russia pari a 0,824, in crescita lenta ma costante da vent’anni (era 0,722 nel 2000), ponendo la federazione al 52-esimo posto nel mondo, molto dopo Usa, Giappone e tutti i paesi dell’Europa occidentale, vicino a stati come Montenegro, Romania e Kazakhstan, appena sopra Belarus, Turchia, Uruguay e Bulgaria, ma in posizione ben migliore di Cina e Brasile (dati al 2020, fonte: Undp).

L’indebitamento della Russia verso le altre economie ammonta a 470 miliardi di dollari, circa un terzo del Pil, per tre quarti in valuta estera, prevalentemente dollari, euro, sterline e renmimbi (dato a metà 2021, fonte: Banca mondiale). In termini assoluti, si tratta del 27-esimo stock di debito estero al mondo, in forte calo negli ultimi anni (era sopra i 700 miliardi nel 2014).

Anche i flussi finanziari dall’estero (investimenti diretti) sono in significativa discesa: erano 14 miliardi di dollari nel 2005, hanno toccato i 32 miliardi nel 2010, ora sono poco sotto i 10 miliardi. Le rimesse dall’estero di persone emigrate sono invece in crescita e pesano ormai per lo 0,66% del Pil (fonte: Unctad).

Le esportazioni pesano per il 28 per cento del Pil, e per la metà circa riguardano fonti energetiche: verso la Cina (48 miliardi di dollari nel 2020), l’Olanda (25), il Regno unito (23), la Germania (18) e poi le altre economie. Le importazioni ammontano al 21 per cento del Pil.

Pochi numeri per sintetizzare che la Russia è sì, un paese importante, per tanti aspetti nevralgico, ma comunque dalle dimensioni economiche non proporzionate al proprio peso geopolitico, che risulta assai maggiore per fattori diversi, quali la collocazione geografica, la storia e le dimensioni territoriali.

Sanzioni sì, sanzioni no?…

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Esercitazione militare nel Mediterraneo, mezzi e armi si avvicinano all’Ucraina – Antonio Mazzeo

Cacciabombardieri ed elicotteri da guerra di nove paesi aderenti alla NATO o suoi partner, alcune fregate lanciamissili, una portaerei a propulsione nucleare e finanche il drone killer protagonista dei raid e degli omicidi extragiudiziali ordinati da Washington in Afghanistan, Pakistan, Iraq, Libia e Somalia. Dal 27 marzo sino al 7 aprile saranno i protagonisti di una vasta esercitazione militare sui cieli della Grecia, Iniochos 22, una delle più grandi tra quelle mai effettuate nel Mediterraneo dopo la fine della Guerra fredda

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Quella Russia contro la guerra – Maria Chiara Franceschelli

 

L’opposizione alla guerra emerge anche in Russia, con 15 mila arresti alle manifestazioni, con prese di posizione di universitari, studenti, giornalisti, con il disagio per il peggiorare delle condizioni sociali. Ma il rigido controllo sulle organizzazioni sociali impedisce finora l’emergere di una sfida al potere di Putin.

 

Dal 24 febbraio a metà marzo, più di 15.000 persone sono state arrestate o fermate dalla polizia per via delle proteste contro la guerra in Ucraina, riporta OVD-info, un’organizzazione per la tutela dei diritti dei prigionieri politici. Non si tratta solo di manifestazioni di massa, ma anche di picchetti solitari. Non sono reperibili, invece, dati ufficiali sul numero di persone in protesta contro la guerra, perché le manifestazioni di questi giorni sono spontanee, leaderless. Non sono coordinate da formazioni politiche di opposizione, movimenti sociali, organizzazioni.

OVD-info riporta anche numerose testimonianze sulle violenze delle forze dell’ordine durante i fermi, gli arresti e le detenzioni dei manifestanti, così come sulle numerose irregolarità nei processi giudiziari. Percosse, violenze, insulti; minacce per costringere i fermati a firmare testimonianze false, che poi saranno utilizzate contro di loro in processi per direttissima senza avvocati, dopo detenzioni superiori a 24 ore senza acqua, cibo, un posto per dormire, nemmeno il cellulare per chiamare qualcuno.

Un sistema giudiziario distorto, basato su irregolarità sistematiche, al servizio di un apparato repressivo molto efficiente: due elementi fondamentali nel regime di Putin, che insieme riescono a soffocare le istanze di azione collettiva in risposta alla guerra avviata dalla Russia, e a spingere le persone a nascondere il proprio dissenso. Non sono i soli però: a impedire l’insorgere di mobilitazioni di massa vi è un apparato mediatico e propagandistico capillare ed efficiente, ma soprattutto vent’anni di politiche volte a limitare lo spazio di manovra della società civile…

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Il tempo della diserzione – Andrea Staid

 

C’è un aggressore, l’esercito russo. Ci sono interessi dei grandi capitali in gioco, da entrambe le parti. Coloro che ora patiscono i deliri di alcuni e i subdoli calcoli economici di altri, sono i popoli di Russia e Ucraina (e, forse presto, quelli di altre geografie vicine o lontane). Da zapatisti quali siamo, non sosteniamo l’uno o l’altro Stato, ma piuttosto coloro che lottano per la vita contro il sistema. Durante l’invasione multinazionale dell’Iraq (quasi 19 anni fa) guidata dall’esercito americano, ci furono mobilitazioni in tutto il mondo contro quella guerra. Nessuno sano di mente allora pensava che opporsi all’invasione fosse mettersi dalla parte di Saddam Hussein. Ora è una situazione simile, anche se non la stessa. Né Zelensky né Putin. Fermate la guerra…”

[Sesta Commissione dell’EZLN, in Messico]

 

Sono ormai diverse settimane che si parla di guerra, che si fa la guerra, che si subisce la guerra. Probabilmente per il tipo di lavoro che ho scelto di fare (l’antropologo) vivo costantemente la percezione di essere in guerra, essendo in contatto con tante donne e uomini che non vivono o non sono nati nella “fortezza Europa” e che sono in guerra o scappano da guerre che durano da anni.

Detto ciò, nelle ultime settimane la guerra è più presente nelle nostre vite, i media parlano solo di questo; le immagini tragiche e i gesti di solidarietà ci travolgono, e quindi come tutte/i anche io mi percepisco di più dentro questo conflitto.

Sono consapevole che lo Stato genera la guerra e di fatto se ne nutre, ne elabora l’ideologia, costruisce l’immagine del nemico e ne diffonde la rappresentazione; ora questo vale per la Russia e per l’Ucraina. In entrambi i casi c’è una costruzione simbolica dell’altro come il nemico assoluto, l’incarnazione del male, del barbaro che attenta le vite dei bravi cittadini. Il problema principale è che chi decide di entrare in guerra spesso non si preoccupa dei suoi effetti su chi la guerra non l’ha scelta; penso agli invasi, ma anche agli invasori, ai soldati semplici costretti a combattere qualcosa che spesso non capiscono.

La soggettività è respinta da chi stabilisce il conflitto, Putin e Zelensky nelle loro dichiarazioni desoggettivizzano il conflitto, ragionano senza pensare alle emozioni dell’individuo, alle scelte e alle possibilità che possono legittimamente portare a scegliere di non combattere in nessun fronte, pensando di non essere di proprietà di uno Stato nazione, ma di far parte di un mondo al di là delle appartenenze nazionali. Come giustamente scritto da “Non una di meno” nel comunicato per lo sciopero contro la guerra e per il disarmo dell’otto marzo “bisogna opporsi all’uso della forza militare, diretta e indiretta, da parte dell’Ue per la risoluzione di questo conflitto, perché sappiamo che questi interventi non hanno mai portato pace, ma solo altre violenze e devastazioni: lo abbiamo visto in Siria, in Afghanistan, in Iraq, in Libia. Il riarmo dei Paesi dell’Unione Europea segna una nuova fase politica di fronte alla quale non possiamo rimanere in silenzio. Ci opponiamo all’aumento delle spese belliche che tolgono finanziamenti e risorse al welfare, all’istruzione, al sistema sanitario e a tutti quei settori che sono usciti distrutti da questi anni di pandemia. Siamo con tuttx quellx che non si riconoscono e si oppongono alle alleanze belliche. Ci opponiamo con forza alla logica di un’accoglienza diversificata per i profughi, che respinge o accetta in base al colore della pelle e alla nazionalità di provenienza”.

Chi vive in un paese dove si combatte militarmente sa che la guerra è un atto totale che investe completamente tutte e tutti. Ovunque esso sia e qualunque cosa faccia è nella guerra. Quando è in corso una guerra niente e nessuno può restarne fuori: natura, animali, uomini, beni, apparato economico e tecnologico, modelli ideologici, tutto si dispone a servizio della guerrai.

Il modesto contributo che voglio portare con questo mio scritto è un elogio alla diserzione, totale e intransigente contro tutte le guerre. Sono convinto che, ora più che mai, sia fondamentale rilanciare l’etica e la lotta antimilitarista, partendo proprio da una critica alle “nostre” servitù militari, senza dimenticarci che le truppe dell’esercito italiano sono dislocate in decine di Paesi nel mondo, che il territorio che ci circonda è costellato di basi Nato, Usa, europee, italiane: abbiamo radar sulla testa, sottomarini nei nostri mari, fabbriche di armamenti, esercitazioni nei nostri paesi.

L’industria bellica italiana fornisce le proprie armi distruttive agli eserciti e alle polizie di tutto il mondo, ma non solo: negli ultimi anni l’esercito è anche nelle strade, nei quartieri considerati marginali o pericolosi, più per costruire un’immagine falsata di sicurezza che con reali attività repressive. La militarizzazione della nostra società implica politiche autoritarie e antisociali che coinvolgono le istituzioni su vari livelli, politici, economici e sociali, basti pensare alle enormi spese militari che impoveriscono tutta la popolazione.

Chi subisce più di tutti il militarismo è la popolazione civile, non solo durante la guerra, ma anche in periodi di “pace”, perché l’impatto ambientale delle basi militari, delle esercitazioni e delle aree a esse adibiteii è devastante; si distruggono interi ecosistemi, producendo un continuo danneggiamento dell’ambiente che aumenta in modo esponenziale quando gli eserciti si mettono in marcia per fare la guerra. In questi giorni in Ucraina non stanno morendo solo animali umani, ma animali di tutte le specie, foreste e territori escono dilaniati dalle azioni belliche e le conseguenze si continueranno a pagare per anni, soprattutto per chi tornerà a vivere in quei territori, e questo vale per vinti e vincitori.

Non voglio volutamente approfondire la situazione geopolitica di quest’ultima guerra che non mi vede parteggiare per nessuno, se non per i disertori di entrambe le nazioni, ma ci terrei a sottolineare che se da una parte siamo davanti a una sorta di guerra di posizione e colonizzazione dei territori da parte della Russia, dall’altra c’è l’Ucraina in preda al caos politico che chiede aiuto a una organizzazione militare insostenibile come la Nato.

La Nato, è importante ricordarlo, ha raddoppiato in termini geopolitici la sua presenza nel mondo dalla fine della guerra fredda; in pochi anni ha occupato militarmente territori con basi e infrastrutture, non solo in molti paesi dell’Europa centrale e orientale, ma anche il Medio Oriente vede la sua presenza in modo sempre più ingombrante.

Altra cosa sulla quale vorrei riflettere che sembra colpire la maggior parte dei giornalisti di tutto il mondo come fosse una grande novità è l’utilizzo da parte della Russia della catastrofe ambientale come risorsa bellica, soprattutto facendoci tremare con l’occupazione delle centrali nucleari. Purtroppo questa è una pratica tristemente nota e utilizzata da tutti i guerrafondai, in primis dalla Nato che proprio per vincere “rapidamente” una guerra, nel 1999 attaccò le industrie chimiche di Pancevo in Serbia per creare un danno ambientale totale e definitivo al nemico.

Deve essere chiaro: non ci sono eserciti giusti, non ci sono guerre buonePer questo dovremmo essere tutte e tutti disertori, perché la storia ci ha insegnato che la guerra la fanno i capi di stato, le classi padronali, i generali e la combattano e la pagano i civili, l’ambiente e tutti gli animali che ci vivono.

Essere contro la guerra per me significa essere contro il militarismo, che sia quello russo, francese, yankee, italiano o cinese non fa differenza. Sono antimilitarista, contro la guerra e quindi contro tutte le istituzioni militari, nessuna esclusa.

Trovo essenziale ribadire con forza che è importante lottare contro l’esaltazione e la diffusione dello spirito militaristico della Nato, della Russia, dell’Ucraina e di qualsiasi nazione e che la scelta di armare l’Ucraina sia grave, utile soltanto a chi fa affari sulla morte delle persone vendendo armi.

Siamo in un mondo dove si sceglie di parteggiare senza essere realmente informati, dobbiamo batterci contro il militarismo, il che significa lottare non solo contro una guerra vicina geograficamente, ma contro la gerarchia, l’autorità e a ogni forma di dominio e discriminazione.

Note

i Giuseppe Goffredo, I dolori della pace, poiesis editrice

ii https://aforas.noblogs.org/post/tag/quirra/

da qui

 

 

 

Chi sono i russi – Alessandro Ghebreigziabiher

 

C’era una volta il gioco delle parti.
L’eterna danza dei ruoli tipicamente umani, che sono molteplici e oltrepassano il tempo e lo spazio.
Eppure si ripetono ogni volta più simili a loro stessi e, per quelli maggiormente scontati, il giudizio della Storia con l’iniziale vincente, più che nobile, muta a seconda di chi legge od osserva.
Ora è il momento dei Russi, a queste occidentali latitudini.
Russi che bombardano, i Russi che invadono, i Russi che saccheggiano, i Russi che deportano, i Russi che stuprano e i Russi che uccidono.
In una parola i Russi sono i Cattivi della storia.
Lo sono da tempo e lo sono stati spesso nel secolo scorso, dal freddo di una guerra che non è ancora terminata al calore delle pagine dei romanzi come dei film.
Nondimeno, all’interno di ciascun capitolo dell’umano racconto, se per le ragioni sopra evocate il Russo potesse esser definito il personaggio, caricatura e caratterizzazione dello stesso, a uso consumo della trama da narrare più che della Storia in sé, be’, va detto che tale minacciosa e crudele maschera è stata indossata da molti nel passato e anche nel presente.
Diciamolo, in tanti sono stati e sono ancora oggi ugualmente Russi.
Senza andare troppo indietro, limitandoci al secolo scorso, elenco in ordine sparso e ricordo che noi per primi siamo stati Russi quando abbiamo deciso di invadere l’Eritrea, il Paese d’origine di mio padre, e poi in più occasioni la confinante/litigante Etiopia, per non parlar di Libia Albania.
Impossibile non citare i Tedeschi, ovviamente, i quali un’ottantina di anni addietro sono stati immensamente Russi.
E nell’arco del medesimo periodo gli Americani stelle a strisce hanno fatto i Russi con molti più Paesi di quanti ne hanno liberati durante la seconda guerra mondiale.
Vogliamo essere franchi sino in fondo? Perdonate la triviale facezia, ma il Paese di Macron ha agito più e più volte da Russo nel continente africano.
Mentre il Regno disUnito, il quale ora vive da separato in casa propria in seguito a una consultazione politica che ha gettato nella polvere ogni fondamento di progresso e modernità conquistata in altri ambiti, ha fatto la Russia a cominciare con le isole sorelle e affini ancora prima di interpretare tale spietato ruolo in buona parte del pianeta.
E cosa dire di Spagnoli Portoghesi? Mezzo continente paga ancora oggi lo scotto del loro essere stati Russi in modalità a dir poco terrificanti.
E dei Cinesi con tutto quel che non è cinese o non desideri esserlo? E degli Israeliani con tutto ciò che, con le buone o le cattive, prima o poi dovrà essere israeliano?
Per non parlare dell’infinità di occasioni in cui ancora oggi, in questo preciso istante, grazie alla vendita di armi, gli appoggi economici finanziaristrategici politici, siamo tutti Russi senza alcuna pietà. Ma con l’alibi più debole e maggiormente spregevole al mondo. Ovvero quello di chi finge di esserne all’oscuro, perché citati nel titolo ritratti con le mani  insanguinate nel bel mezzo del fermo immagine in primo piano, condannati e biasimati, i Russi sono gli altri.
Non noi.
Non più.
Ciò nonostante, a seconda di quanta lucida memoria e onesta consapevolezza risieda nella mente di chi osservi la crudeltà del racconto in diretta, la Storia va avanti e per nostra sfortuna si ripete.
Perché c’è sempre qualcuno pronto a interpretare il ruolo peggiore.
Con cui invaderedeportaresaccheggiarestuprare uccidere.
Credo che dovremmo aver imparato tutti, ovunque, a prevedere misfatti dei cattivi per salvare in tempo le prossime vittime.
Perché siamo stati entrambi, conosciamo la storia e sappiamo già come va a finire.

da qui

 

 

 

L’Ucraina e noi – Guido Viale

 

La Russia, cioè le forze armate della Repubblica Federale Russa, su ordine di Putin hanno aggredito l’Ucraina, ne hanno invaso buona parte del territorio, hanno bombardato infrastrutture, fabbriche e abitazioni, hanno ucciso diverse migliaia di ucraini, sia militari che civili, hanno costretto a fuggire dal paese più di due milioni di profughi e continuano nella loro avanzata.

L’Ucraina resiste e contrasta questa avanzata. Resistono le forze armate del paese e molti civili, prima riuniti in gruppi spontanei e per niente, o molto male armati – con la partecipazione di molte donne, persino nella preparazione di bottiglie molotov da opporre ai blindati russi – poi inquadrati, con la coscrizione obbligatoria per tutti gli uomini tra i 18 e 60 anni, nelle file delle forze armate. All’interno di esse sono state da tempo inserite, con un ruolo di primo piano nella guerra contro le contrapposte milizie del Donbass, che durava da otto anni, numerosi elementi di organizzazioni legate alla Nato e di chiaro orientamento nazista, come la cosiddetta Brigata Azov, responsabile anche delle sparatorie durante la rivolta di piazza Maidan (ma i nazisti sono da tempo largamente presenti anche nelle milizie avversarie del Donbass).

Non c’è alcun dubbio che l’aggressore sia l’esercito russo e che la resistenza armata dei combattenti ucraini sia una più che giustificata risposta a questa aggressione. Ma se le cose stanno così, perché non mandare armi al governo e ai combattenti ucraini che le chiedono? Perché mandare armi per rafforzare la resistenza è alternativo a qualsiasi tentativo di far cessare questa guerra con un negoziato. O si fa una cosa o si fa l’altra. E falso che una resistenza più forte, perché meglio armata, o più prolungata perché in grado di ritardare maggiormente l’avanzata russa, migliorerebbe la posizione dell’Ucraina in un negoziato. È vero il contrario. Molti non si chiedono quale potrebbe essere l’esito del conflitto, ma è lì che bisogna guardare: come e quando potrà cessare questa guerra?..

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Se la guerra annulla l’Europa – Domenico Gallo

 

…L’Europa ha bisogno che si ponga fine immediatamente alla guerra; gli Stati Uniti, invece, vogliono che la guerra continui (anche se per procura) per indebolire, fiaccare e isolare la Russia e mantenere tutta l’Europa strettamente nella loro sfera d’influenza. Il fatto che l’offensiva militare russa – secondo il Pentagono – si sarebbe impantanata per la notevole capacità di resistenza delle forze armate ucraine, rende concreta la tentazione per gli USA di uno scenario tipo Afganistan nel cuore dell’Europa e scoraggia ogni trattativa di pace. Ha osservato Barbara Spinelli: «Per l’Europa e l’Italia il proseguimento bellico è una sciagura, sia che Putin perda sia che vinca. Avranno un caos che durerà decenni ai confini orientali. E se l’Ucraina entra nell’Unione gli equilibri si sbilanceranno a Est ancor più di quanto già lo siano, da quando l’UE ha incorporato Paesi più interessati alla Nato che all’Europa (soprattutto Polonia e Baltici)» (Il Fatto Quotidiano, 21 marzo 2022). A dire il vero gli effetti negativi della guerra, come l’ondata dei profughi, si abbattono sull’Europa ma non hanno nessuna incidenza sugli Stati Uniti. La restrizione o l’interruzione dei rubinetti del gas della Russia danneggerà l’Europa ma avvantaggerà gli Stati Uniti, che potranno venderci il loro gas molto più costoso; le sanzioni commerciali alla Russia hanno un’immediata ricaduta negativa sull’economia degli Stati europei, ma costituiscono un’occasione di crescita per l’economia USA; il riarmo dell’Europa sarà un affare colossale per il complesso militare industriale americano, ma non gioverà ai sistemi di sicurezza sociale europei. Il prosieguo delle sanzioni dopo la guerra nuocerà all’Europa ma gioverà agli USA.

L’Europa che indossa l’elmetto e si infogna in una semiguerra con la Russia fino al punto da rischiare lo scontro diretto con una potenza nucleare ha deciso di sparire come potenza politica, annullandosi nella NATO. In questo modo si avvia inconsapevolmente sulla strada del suicidio, rinunciando a tutelare i bisogni e gli interessi fondamentali dei suoi cittadini.

Invece l’Europa, esigendo la fine immediata delle ostilità, dovrebbe aprire una trattativa con la Russia che preveda la costruzione nel medio termine di un sistema comune di sicurezza, indipendente dalle strategie Usa, fondato sulla riduzione reciproca e concordata degli armamenti e la normalizzazione delle relazioni commerciali e politiche, col ritiro delle sanzioni. In questo contesto dovrebbe essere garantita la neutralità dell’Ucraina e avviato un programma di investimenti per la ricostruzione post-bellica. Limitarsi a dire che «Putin non vuole la pace», come ha fatto Draghi, dopo il collegamento di Zelenski con il Parlamento italiano, è una dichiarazione di impotenza che riflette la drammatica assenza di iniziativa politica dell’Italia e dell’UE. Offrire soltanto minacce rispecchia la teologia politica della Nato, non i nostri interessi. Ma, quel che è più grave, non fa avanzare di un centimetro la causa della pace

da qui

 

 

* With God On Our Side – Bob Dylan

 

 

QUI il testo in italiano, nelle varie versioni

 

 

 

 

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