Diritti umani: quale spazio per le donne e i migranti?
di Monica Buffagni
Introduzione: una filosofia di vita e di storia
La conoscenza è la base di ogni conquista, è la forza di ogni scoperta, è l’intreccio tra razionale ed emotivo che percorre la storia dell’umanità. A maggior ragione, lo è quando si intenda affrontare una tematica così complessa e controversa quale quella relativa ai diritti umani.
Da quale punto di vista, dunque, da quale angolo di sensibilità ragionata e motivata è possibile e, ancor più, opportuno, ragionare sul tema?
Chi appartiene al genere umano, proprio in virtù di tale involontaria appartenenza, possiede dei diritti, che, però, per essere davvero tali, devono essere riconosciuti.
Probabilmente, da sempre l’uomo, fin dall’antichità, ha sentito in sé la necessità di difendere se stesso e quelli accanto a lui attraverso un codice condiviso che conferisse valore alla propria esistenza umana, ma è certo che, in tempi moderni, ciò viene ratificato con l’adozione della Dichiarazione universale dei diritti umani (Dudu), nel 1948 da parte delle Nazioni Unite.
Appare evidente come tutto quanto precede questo momento, a partire dalla devastazione prodotta dalla Seconda Guerra Mondiale, con lo sterminio degli Ebrei, le torture, le morti, il travalicare ogni confine morale, etico abbia condotto la riflessione filosofica e storica alla formulazione della Dudu, la cui redazione è stata affidata alla Commissione dei Diritti umani.
Ricordo che tale Dichiarazione non è uno strumento giuridicamente vincolante, ma possiede sicuramente un forte ruolo morale, che ha permesso di dare vita, in seguito alla sua pubblicazione, a numerosi trattati, sia nazionali che internazionali.
Nodo centrale, manifesto di intenti, cuore vivo del lavoro, resta senza dubbio l’articolo 1, in cui si sottolinea la necessità di salvaguardare i diritti fondamentali e la dignità di ciascun individuo, senza distinzione di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione.
Nel momento in cui si riconosce all’individuo un valore indipendente dalle sue caratteristiche, si sancisce l’imperativo morale di tutelare e garantire i suoi diritti a prescindere dal contesto in cui si trova, culturale, religioso o di altro tipo; è un superamento conclamato delle tradizioni occidentali e una apertura verso una transculturalità da definire, da scoprire, da conquistare.
Mi soffermo su quelli che sono i cardini della Dudu, sottolineando la valenza oserei dire eversiva, rivoluzionaria, che ancora una volta la lingua, declinata sia pure nelle sue svariate sfumature e versioni, possiede e riesce ad infondere nell’amalgama alchemico di una semplice parola.
Quali, dunque, le parole-chiave che suggellano e colorano la Dichiarazione?
DIGNITA’ – LIBERTA’ – UGUAGLIANZA – FRATELLANZA
Superando le immediate suggestioni di una lontana, ma non certo irrilevante, Rivoluzione settecentesca di una Francia ponte e tramite di storia tra antica e moderna, lasciamo che la forza delle parole afferri i concetti fondanti di una visione di vita e di una scelta universale: mentre la dignità sostiene i valori condivisi da tutte le persone, oltre le differenze di etnia, religione, sesso o altro, la libertà individuale e la sicurezza personale vengono dichiarate e stabilizzate. Una partecipazione politica e pubblica di ogni individuo viene resa possibile tramite l’uguaglianza e i diritti sociali, economici, culturali sono riconosciuti tramite l’aggancio alla fratellanza.
Come non ricordare qui la figura del filosofo francese Jacques Maritain, che ha partecipato in prima persona alla stesura iniziale della Dichiarazione in questione e ha contribuito ad una fondazione filosofica del concetto di diritti umani?
Attraversando la maggior parte del XX secolo, Maritain si conquista uno spazio nella teoria contemporanea dei diritti umani, forgiandola, poi, nella sua applicazione pratica. I valori fondanti della sua visione filosofica, la razionalità e la libertà, si fondono nella angolazione, metafisica e storica insieme, con la quale si compie l’essere umano; la dimensione spirituale dell’uomo si coniuga e convive con quella fisica, conducendo al naturale approdo verso i diritti umani. L’assoluto trascendente che costituisce il fondamento di ogni cosa, il finalismo presente in natura si rispecchiano nei diritti umani, nel momento in cui ogni uomo possiede in sé ciò che gli occorre per arrivare a questo fine ultimo. Tale rimando alla filosofia scolastica medievale e moderna viene sorpassato e problematizzato, quando si pensi ai diritti come fondati su una logica induttiva, e non più deduttiva. La legge naturale o “legge non scritta”, base dei diritti umani, secondo la filosofia di Maritain, è interna all’uomo, che deve dirigere la sua volontà verso il bene, il fine ultimo di ciò che è umano.
Nel 1966, i vari Stati riuniti per codificare ulteriormente i diritti umani, per conciliare le diverse esigenze, decidono di adottare due diversi Patti, entrati in vigore nel 1976: il Patto internazionale sui diritti civili e politici e il Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali. Pur riconoscendo entrambi il diritto di autodeterminazione dei popoli e rifiutando qualsiasi forma di discriminazione, essi tutelano diritti di diversa natura e li applicano e proteggono in diversa maniera, come si intuisce facilmente dai nomi imposti ai due Patti.
La stessa storia dell’umanità ci ricorda e dimostra come il concetto di diritti umani si sia evoluto e modificato nel tempo, come se si fossero verificate diverse “generazioni”, o categorie.
Riprendendo l’inevitabile rimando alla Rivoluzione francese del 1789, appare evidente come la “Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino“, da essa scaturita costituisca un primo passaggio, una prima riflessione sui diritti civili e politici che separano e proteggono l’individuo e la sua autonomia personale dallo Stato, consentendogli di partecipare allo snodarsi delle attività comuni. La libertà di stampa, di opinione ed espressione che ancora oggi si riflettono su queste pagine, l’uguaglianza di fronte alla legge, base del diritto, il diritto stesso alla sicurezza personale sono facce dei diritti civili. Quelli politici vertono sulla gestione del potere, soprattutto della pubblica amministrazione; pensiamo ai diritti alla vita, al giusto processo, alla proprietà, allo svolgimento di libere elezioni… tutti temi ripresi dalla Dudu e dai Patti, come anche l’abolizione dei lavori forzati, della schiavitù, della tortura e di qualsiasi forma di sfruttamento.
Possiamo considerare un secondo passaggio evolutivo quello relativo ai temi affrontati dai Patti, cioè i diritti sociali, economici e culturali, quali il diritto al lavoro, alla associazione, all’educazione, all’assistenza sociale; assistiamo qui ad un superamento del divieto di ingerenza dello Stato, per approdare all’incentivazione di un intervento attivo dello Stato stesso, che permetta ad ogni cittadino di godere di uguali diritti ed opportunità.
Di recente, sono i diritti umani definibili come di terza generazione, riguardanti la collettività e la solidarietà sociale, a svilupparsi e a costituire un passaggio storico fondamentale. La protezione di questi diritti si estende a categorie vulnerabili, come le donne, i bambini, i rifugiati e i migranti, le popolazioni indigene, le persone LGBTQI+.
Sono qui forti ed evidenti i diritti alla pace, allo sviluppo, alla assistenza umanitaria, alla protezione dell’ambiente. Oltre il singolo individuo, la tutela sostiene la collettività e impone un intervento anche sui diritti di primo passaggio, nel momento in cui essi fossero travalicati e danneggiassero una categoria fragile.
Sono numerose le Convenzioni internazionali che proteggono tali diritti recenti; mi piace ricordarne alcune, che sono di mio frequente rimando e uso per i miei interessi professionali e di scrittura, quali “Convenzione internazionale sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale“ del 1965, seguita dalla “Convenzione internazionale sulla protezione dei diritti dei lavoratori migranti e dei membri delle loro famiglie”(1990), sui temi dell’intercultura, oppure la “Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza” del 1989 e la relativa riflessione sui bambini migranti e sull’educazione , così come la “Convenzione delle Nazioni Unite sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne” del 1979.
Successivamente, proprio in seguito a queste prese di posizione a favore dei molteplici diritti dell’uomo, sono nati strumenti regionali di tutela, con la costituzione di corti competenti anche a ricevere ricorsi individuali. La “Corte europea dei diritti dell’uomo” nasce nel 1959, seguita dieci anni dopo, grazie alla Convenzione americana dei diritti umani, successiva a quella europea, nasce, dunque, la “Corte interamericana dei diritti umani”. Nel 1981, si forma la “Corte africana dei diritti dell’uomo e dei popoli”, che si basa sulla relativa Carta africana ed, infine, nel 2004 appare la “Carta araba dei diritti dell’uomo”, adottata dalla Lega degli Stati arabi.
Molto ampia rimane, però, la riflessione legata alle ripetute violazioni dei diritti umani, temperate dalla Dudu e dai Trattati, che almeno possono chiedere e attirare attenzione sulla situazione.
DIRITTI DEI POPOLI: una riflessione
Quanto ho affrontato sul concetto di diritti umani, mi conduce al passaggio successivo: l’uomo è animale sociale, si raggruppa in gruppi, in popoli e porta con sé i propri diritti di appartenente all’umanità. Allo stesso tempo, si differenzia nelle categorie che, insieme, compongono l’umanità tutta.
Non è qui possibile analizzare ogni spicchio, dunque, mi soffermerò sui popoli, senza alcuna pretesa di esaurire i molteplici spunti. Se penso al Tribunale permanente dei popoli, che da più di 40 anni opera avendo come fondamento il diritto internazionale vigente e la Dichiarazione universale dei diritti dei popoli, comunemente conosciuta come Carta di Algeri e fondata dall’italiano Lelio Basso, viene immediato il riferimento alla Sessione sulla violazione dei diritti delle persone migranti e rifugiate, la nr 45, che va dal 2017 al 2019.
Il 7 e 8 luglio del 2017 si apre a Barcellona la Sessione di apertura, con un atto di Accusa generale, presentato da una estesa rete di organizzazioni e movimenti europei, attivi nel contesto della migrazione; le udienze proseguiranno il 18/20 dicembre a Palermo, poi a Parigi nel 4/5 gennaio del 2018 e, ancora, con altre udienze sempre nel 2018, una di nuovo a Barcellona tra giugno e luglio, una seconda a Londra il 3/4 novembre, con Dichiarazioni del Tribunale, della Segreteria generale del TPP, con la Decisione del TPP. L’Atto conclusivo, infine, si svolge nel Parlamento Europeo a Bruxelles il 9 aprile 2019, con la produzione del Documento finale del TPP.
Scorrendo tale documento, si trova la decisa affermazione di come il popolo dei rifugiati e migranti è oggetto e vittima di violazioni gravissime e sistematiche dei diritti fondamentali, dalla vita alla salute, lavoro e dignità; allo stesso modo, il diritto alla migrazione, riconosciuto da sempre come costitutivo della storia dei popoli, viene negato ed è un prodotto della globalizzazione intesa come modello di sviluppo basato su strategie economiche, ambientali, di sicurezza e di guerre diffuse (affronto tali tematiche anche nel mio saggio “Diversa come te “-ed. Kanaga).
Il punto 2 esamina gli accertamenti e le decisioni delle singole, sopra citate, sessioni e si sofferma su alcune note a mio parere essenziali ad una riflessione seria.
Subito si specifica che lo “ius migrandi” è spesso negato a chi si sposta dal Sud al Nord del mondo; in sostanza, vengono ostacolati il diritto di muoversi liberamente, sancito dall’art.12.2 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, e il diritto al lavoro, previsto nell’art.6 del Patto internazionale relativo ai diritti economici e sociali e culturali. Intensa è l’affermazione che “migrare è un atto esistenziale e politico”.
Non ci sono profonde differenze territoriali, nelle violazioni di tali diritti, si assomigliano, pur contemplando specificità ovvie, così ritroviamo attività configuranti violazioni ai diritti umani sia negli interventi delle forze libiche, sia di quelle turche, come in zone francesi, italiane, nelle varie frontiere europee.
Allo stesso modo, il rifiuto della libertà di circolazione priva i migranti di un altro diritto: quello di non essere detenuto arbitrariamente.
Sottolineo che il Documento enuncia chiaramente che le donne giocano un ruolo importante nelle lotte dei cittadini marginalizzati, quali i migranti (nel paragrafo successivo di darà spazio alle donne in relazione ai diritti).
Nel punto 3, l’Europa, con la sua U.E., le Costituzioni, le Carte, culla di storia e di migrazioni –da sempre, la storia umana è stata caratterizzata da migrazioni, spesso in passato occasioni e cause di guerre e conflitti sanguinosi-viene invitata ad una maggiore, concreta apertura ai diritti dei migranti, per superare e impedire tragedie continue, quali le morti di 6 persone al giorno nel Mediterraneo nel 2018, come ci ricorda l’Alto commissario dell’UNHCR.
Il punto 4, infine, verte sulle conclusioni e raccomandazioni del TPP, che sappiamo non essere principalmente penale, ma di promozione di categorie e pratiche innovative di diritto. Fondamentalmente, esse si riassumono in un invito per la UE e i suoi Stati membri ad assumersi la responsabilità di cambiare le politiche economiche e la normativa in materia di asilo e di migrazione, superando le logiche di alcuni tipi di Trattato e accordi internazionali in forma semplificata con Paesi terzi, quali , ad esempio, Turchia, Libia, Sudan, Niger.
Risulta fondamentale e nucleo centrale del lavoro, l’aver costituito un luogo di ascolto del popolo dei migranti e dei loro familiari, dando loro identità, visibilità e riconoscimento, in un’ottica di rispetto del diritto alla memoria, alla verità , allo stesso lutto, che può e deve caratterizzare la civiltà umana.
Riprendo in mano la Carta di Algeri, che abbiamo visto essere la base e il riferimento dei lavori del Tribunale Permanente dei Popoli: essa viene proclamata il 4 luglio -proprio nei giorni in cui scrivo, quasi un invito al ricordo, nonché rimando alla Dichiarazione di Filadelfia, con la quale le tredici colonie inglesi dell’America del nord proclamarono il il loro diritto alla libertà e indipendenza dalla Corona britannica- 1976, nell’omonima città, all’interno della Conferenza di Algeri, promossa dalla Fondazione internazionale Lelio Basso, noto giurista ed intellettuale, per il diritto e la liberazione dei popoli, insieme alla Lega internazionale per i diritti e la liberazione dei popoli.
Alle sue spalle, il trentennale percorso della decolonizzazione seguito al secondo dopoguerra e i cambiamenti sociali e politici intercorsi, che virano verso una diversa coscienza dei diritti umani.
Le Nazioni Unite nascono nel 1945, l’Assemblea dell’Onu parla l’anno successivo di “principi di Norimberga”, la Dichiarazione universale dei diritti umani, come già ricordato, è approvata nel 1948… si riflette sulla pace, sulla autodeterminazione dei popoli. L’ordinamento cambia, e nel 1966 nasce un tribunale di opinione, detto Tribunale Russell, o “Tribunale internazionale contro i crimini di guerra”, fondato, appunto da Bertrand Russell, Jean Paul Sartre e lo stesso Basso, che originò anche il “Tribunale Russell II sull’America Latina”, di vita breve -solo due anni dal ’74 al ’76-, ma di vasto fermento. Arriviamo, così, alla Conferenza di Algeri, che darà vita alla Carta, sottoscritta da oltre 80 personalità della politica e della cultura di tutto il mondo.
Essa è formata da 30 articoli, enumerati sulla convinzione che “il rispetto effettivo dei diritti dell’uomo implica il rispetto dei diritti dei popoli”.
Quali, dunque, i principali diritti dei popoli?
Ogni sezione ce ne propone tra quelli fondanti, a partire dal diritto all’esistenza, alla autodeterminazione politica, all’utilizzo economico delle proprie risorse e al lavoro.
Molto interessante è la sezione IV dedicata al diritto alla cultura, in cui l’articolo 13 sottolinea che ogni popolo ha diritto di parlare la propria lingua, di preservare e sviluppare la propria cultura, contribuendo così all’arricchimento della cultura dell’umanità: una posizione interculturale e transculturale insieme, che apre un ampio discorso sull’educazione, l’istruzione, il ruolo della lingua e della cultura. ancora abbiamo accenni al diritto all’ambiente, oltre la globalizzazione selvaggia, alle minoranze, per approdare alle garanzie e alle sanzioni , che affida a tutti i membri della comunità internazionale il dovere di ristabilire i diritti fondamentali di un popolo, ove violati (art 30).
DONNE E DIRITTI umani: facciamo il punto
Abbiamo incontrato nella Carta di Algeri espliciti riferimenti alla necessità di superare le discriminazioni, addirittura ai diritti delle minoranze nella sezione VI, alla centralità del ruolo femminile sia nella lotta contro le violazioni dei diritti, sia nella loro applicazione. Come, dunque, conciliare i diritti umani con quelli relativi al mondo femminile, superando una logica ghettizzante, che vuole le donne separate, anche nelle violazioni e nella applicazione conquistata dei propri diritti? Possiamo partire ricordando la festa dell’8 marzo, come simbolo del rapporto tra donne e diritti, passando attraverso una riflessione sulla situazione della violenza sulle donne in tempo di pandemia mondiale; possiamo ricordare le tante situazioni difficili tuttora esistenti nel mondo, a partire dal continente asiatico, per poi approdare, a ritroso, nella storia recente, ricordando il Tribunale delle Donne in Europa, svoltosi a Sarajevo nel 2015.
Si tratta indubbiamente di una carrellata non esaustiva sull’ampia panoramica di un così vasto argomento, ma vale a sottolineare il fermento, l’emozione e la logica del lungo percorso del mondo femminile, affiancato all’umanità intera nella lotta e nella conquista dei diritti dell’umanità.
I diritti delle donne sono ricordati e celebrati da oltre 100 anni nella Giornata internazionale della donna, il famoso 8 marzo, una data -simbolo che fa riferimento al giorno dell’incendio che distrusse la fabbrica Triangle a New York, insieme a più di cento donne e una ventina di uomini, nel lontano 1911.
In realtà, il disastro avvenne il 25 marzo di quell’anno ed è preceduto dalla proposta di istituzione di una giornata di celebrazione da parte di Clara Zetkin, capo dell’Ufficio delle donne del Partito socialdemocratico tedesco, nel 1910, che diede vita alla ricorrenza in Austria, Germania, Danimarca e Svizzera il 19 marzo 1911.
Prima ancora, il 28 febbraio 1909, nacque un Woman’s Day, anticipato un anno prima dalla marcia di 15.000 donne per le strade di New York, alla ricerca di un riconoscimento dei diritti civili, dal voto alle giuste retribuzioni.
La data attuale viene scelta dalle Nazioni Unite nel 1977; da quel momento sono numerose le iniziative di riflessione e attività. Mi piace qui ricordare il percorso sull’uso non sessista della lingua italiana (documento del 1987 di A.Sabatini) e il Manifesto di Venezia per la parità di genere nell’informazione del novembre 2017. Il punto della situazione all’8 marzo 2020 sulla parità di diritti e violazioni, però, ancora sottolinea quanto siano numerose queste ultime e può evidenziare novità, come ci suggerisce il report della Unione internazionale per la conservazione della natura, ong svizzera dotata dello status di osservatore dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite dal 1999. Il report evidenzia un legame tra la crisi climatica mondiale e l’aumento di violenza domestica, in particolare in alcune zone del mondo. La necessità di competere per accaparrarsi le risorse naturali sempre più scarse esaspera la violenza di genere, come sottolinea lo studio “Violenza di genere e legami ambientali: la violenza della disuguaglianza ”. Lo studio ha evidenziato il traffico di esseri umani nelle miniere illegali del Sud America, il lavoro minorile dell’industria della pesca illegale nel Sud est asiatico e lo sfruttamento sessuale legato al disboscamento illegale e commercio di carbone in alcune zone africane.
La violenza sulle donne vede vari soggetti attivi; la Convenzione di Istanbul del 2011 raccomanda un centro antiviolenza ogni 10 .000 abitanti, restando spesso voce inascoltata, Amnesty International nel suo report recente, pubblicato il 13 gennaio 2020, intitolato “Proteste e uso eccessivo della forza “ segnala che durante le manifestazioni in Cile si sono avute ben 1000 denunce per maltrattamenti e almeno 70 per violenza sessuale.
Nello stesso Cile -dice l’Istituto nazionale dei diritti umani- i casi di denunce per violenze si è quadruplicato rispetto agli ultimi 9 anni.
Se ritorniamo in Italia, il fenomeno del femminicidio è sempre più evidente: il dossier “Questo non è amore” del 25 novembre 2019 ci parla di 88 donne uccise, spesso da un amico o familiare, ogni giorno.
Nel mondo, le voci femminili contro le limitazioni dei propri diritti viaggiano ovunque: dalla campagna contro l’obbligo del velo (obbligo sancito dalla rivoluzione islamica del 1979), lanciata nel 2014 dalla giornalista Nasrin Sotoudeh, residente oggi negli Stati Uniti e autrice di “il vento tra i miei capelli”, in cui racconta se stessa, dal villaggio natale sprofondato nell’Iran più chiuso e tradizionalista alla difesa dei diritti umani di oggi, esiliata dal 2009 e sostenuta anche da donne dell’Arabia Saudita e dell’Afghanistan, a Nasrin Sotoudeh, avvocatessa iraniana arrestata nel 2016 per gli stessi motivi , per la quale la stessa Amnesty si è mobilitata. Lana Hussein, da due anni parte attiva dell’Unità di protezione delle donne (Ypj), esercito femminile curdo, sottolinea che a fine dicembre 2019, dopo due mesi di offensiva turca nel Nordest della Siria, si moltiplicano le violenze contro le donne curde, che rappresentano il target numero 1 e sono ad alto rischio, nel mezzo del tragico conflitto.
Solo ad Afrin ci sono stati 40 omicidi di donne, 100 ferimenti, 60 stupri, 1000 rapimenti, tra cui 30 soldatesse, di cui 3 ancora nelle mani dei mercenari, che chiedono riscatti. Mentre Nadia Murad vince il Nobel per la pace nel 2018 insieme al medico della Repubblica democratica del Congo Nasrin Sotoudeh, sua cugina Lamiya Aji Bashar, yazida irachena, racconta le incredibili violenze a cui è stata sottoposta per oltre 20 mesi di prigionia; nell’agosto 2014 Daesh attaccò la regione del Synar, Iraq, massacrando grandi quantità di persone e catturandone altrettante, tra cui molte donne e bambini. Da allora, mentre Lamiya è riuscita a fuggire, il conflitto continua, spingendo numerosi yazidi all’esilio, come documenta un rapporto della Federazione internazionale per i diritti umani e della Kinyat Organization for documentation.
In Nepal, Action Aid, ong attiva da oltre dieci anni, cerca di eliminare la segregazione delle donne , creando gruppi di donne in diversi villaggi.
Queste pennellate intense e drammatiche, simili a frecce lanciate con forza e semplicità dirompente verso chi potrebbe e dovrebbe ascoltare, dipingono una situazione complessa e ancora ben lontana dall’obiettivo di una piena affermazione e applicazione dei diritti basilari dell’umanità femminile. Risulta, così, inevitabile ricordare il Tribunale delle Donne, il primo di questo tipo, che si è svolto a Sarajevo dal 7 al 10 maggio del 2015. Sono giunte partecipanti da ogni Paese della ex Jugoslavia , dalle nuove Repubbliche nate dallo smembramento dell’ex Jugoslavia, dalla Slovenia alla Macedonia, per denunciare, raccontare, riflettere, proporre. La guerra contro le donne, combattuta in queste zone, è stata raccontata e rivissuta, sul palco del Tribunale, come una drammatica rappresentazione teatrale, in cui interagiscono i personaggi, dalle testimoni, alle esperte, occupate a riportare nel contesto le storie, ai protagonisti, nello storico auditorium del Bosanki Kulturni Centar, nel centro di Sarajevo.
Per tre giorni, donne sopravvissute a violenze e sopraffazioni di ogni tipo si sono mescolate a studiose e teoriche, a pensatori e pubblico, ai giornalisti, che possono ascoltare, ma non registrare o fotografare, per garantire la sicurezza e il rispetto per le parole -ancora una volta, il potere della lingua, il suo ruolo attivo e rivoluzionario- delle donne coinvolte. Sono emerse le caratteristiche, peraltro comuni ad ogni forma di violazione dei diritti umani, che accomunano i racconti della violenza: la continuità, le conseguenze riportate, che permangono nella vita personale dell’individuo, ma anche in quella familiare e della comunità stessa, il tormento per la frequente impunità di chi ha imposto la violenza, la disperata necessità di ascolto, di considerazione, di giustizia in senso lato, dove il lato pratico si intreccia con il diritto al rispetto, alla comprensione, alla solidarietà -le voci di chi è stato vittima, che rinascono voci libere nella rete di sostegno di chi sta intorno.
Non a caso, Lepa Mladenovic, consulente del Centro contro la violenza sulle donne di Belgrado, ha sottolineato come l’ascolto in uno spazio sicuro sia un riconoscimento al dolore sofferto durante e dopo la guerra, sia una condivisione emotiva, oltre che una richiesta di giustizia. D’altronde, quanto della giustizia, in qualsiasi sua forma, per qualunque reato, supera il mero valore materiale, per avvolgersi e trovare senso nel riconoscimento della identità umana e del valore calpestato dell’offeso?
Il Tribunale, primo in Europa nel suo genere, nasce dall’incontro tra Corinne Kumar, attivista tunisina per i diritti umani, con alcune “colleghe” dei Balcani- siamo alla fine degli anni ’90 del secolo scorso, siamo durante un Tribunale delle Donne in Sud Africa. Da lì, comincia un lungo lavoro di ricerca, di contatti con chi ha subito e non ha mai potuto parlare, un percorso di vaste proporzioni che ha coinvolto 5000 persone, dagli accademici agli artisti, dalle donne indiane, con esperienze simili da cui trarre insegnamento, a giuristi impegnati a studiare nuovi modelli di giustizia, come quelli transizionali.
Il superamento della logica di chiusura, di silenzio, così come quella che consegna la trasmissione della storia ai soli saperi teorici ed accademici, ha portato a questo evento storico, che costituisce precedente.
Ricordo qui che il collegio giudicante del Tribunale, composto da scrittrici, attiviste per i diritti, pensatrici, si è occupato anche di quanto di solito un tribunale tradizionale trascura, ampliando il discorso, alla ricerca di sistemi e responsabilità più sottili e difficili da decifrare, o semplicemente da dichiarare al mondo.
E’ sicuramente una sfida attuale, quella di continuare a parlare di quanto è accaduto nella ex Jugoslavia, soprattutto alle nuove generazioni , evitandone l’oblio, così come lo è quella di confrontare e vivere la giustizia non tanto secondo un’ottica femminile, quanto piuttosto comprendere e accogliere la giustizia delle donne riconoscendone l’apporto e le sfumature all’ interno di un più ampio sistema.
La stessa Angela Calvo, presidente del CIRSDe (Centro di ricerca e studi di genere e delle donne dell’Università di Torino), nella sua introduzione al convegno “Bisogno di verità: il Tribunale delle donne, un approccio femminista alla giustizia” ci ricorda che questi Tribunali non si focalizzano sugli imputati, come da giustizia tradizionale, ma su chi ha sofferto, su coloro che hanno subito gravi ingiustizie e sui loro diritti violati. Allo stesso tempo-dicono Duska e Eva, testimoni al Tribunale di Sarajevo- “ quello che dicono le donne dovrebbe essere incluso nel sistema educativo”. Ci aiuta a tenere sempre presente che deve esistere un collante tra approccio teorico e il quotidiano ,un superamento e allargamento tra quanto si teorizza e quanto si vive nella realtà, femminile in questo caso, oltre gli studi di genere, per atterrare e sconfiggere ogni forma di violenza, soprattutto quelle indirette, dalle mille nascoste sfumature.
Concludo ricordando le bambine e adolescenti vittime di tratta e sfruttamento, fenomeno presente anche in Italia, così come nel resto del mondo. Il “Rapporto sui minori vittime di tratta e sfruttamento in Italia” del 2018 di Save the children sottolinea la vastità e la drammaticità di queste violazioni, che coinvolgono anche bambini e adolescenti maschi ,di solito provenienti da Paesi in guerra, in povertà, dove la discriminazione e la disuguaglianza si accompagnano al mancato accesso all’istruzione. Appare evidente come la tratta sia una grave violazione dei diritti fondamentali, oltre che un crimine transnazionale ,che vende e acquista donne, uomini, ragazze e ragazzi per utilizzarli come schiavi, sia da punto di vista sessuale che lavorativo o di sostegno ad attività illegali ed economiche. Purtroppo, la domanda è in continua crescita e ciò alimenta la disgraziata offerta. Riflettiamo su questo: come far sì che la richiesta di sfruttamento umano ,in ogni campo, cali e porti ad un azzeramento dell’offerta, delle possibilità?
© Monica Buffagni. Tutti i diritti riservati. (Depositato presso Patamu Registry in data 2/7/20, numero 131547)