Distruggere gli spazi pubblici.
Bologna da città progressista a città neoliberista.
di Mauro Boarelli (*)
Tutto è accelerato in questo periodo a Bologna.
La presentazione di nuovi progetti urbanistici sì è fatta frenetica, i cantieri avanzano (e qualche volta, inaspettatamente, arretrano). E anche l’attacco verso chi si oppone alle politiche urbanistiche del Comune ha cambiato segno: in un paio di occasioni è intervenuta la polizia a farsene carico, con i manganelli.
Per cercare di capire facciamo un passo indietro, e iniziamo con una fotografia.
1. CAMUFFARE LA PARTECIPAZIONE
Se qualche lettrice o lettore pensa che questa immagine ritragga qualche fredda panchina e due fioriere con una vegetazione in parte rinsecchita, dovrà ricredersi.
Un pannello esplicativo ci informa, infatti, che questa installazione è una “infrastruttura verde”. Cosa vuol dire?
Si tratta – ci spiega ancora il pannello – di un “elemento decisivo nel ripensare la crescita urbana”, “un termine globale che descrive una rete di elementi funzionali che integrano fattori e processi ecologici e antropogenici, per sostenere comunità ed ecosistemi sani”.
Questa “infrastruttura verde” in particolare, collocata nel quartiere popolare della Bolognina all’incrocio tra via Serra e via Di Vincenzo, è frutto di un “patto di collaborazione” – uno degli strumenti di partecipazione promossi dal comune di Bologna – ed è focalizzato “sulla infrastrutturazione dei cosiddetti luoghi di vita e di identificazione dei cittadini, [e] intende creare un nuovo spazio urbano aperto, risultante di un sistema integrato strada-giardino-piazza [il giardino è rappresentato dalle fioriere, la piazza è l’incrocio tra le due strade, nda], da intendersi non come un’unità isolata, bensì come parte vitale del paesaggio urbano con un proprio insieme specifico di funzioni”.
Non è uno scherzo.
Inaugurato dal sindaco con una cerimonia pubblica e stampa al seguito nel dicembre 2021, simboleggia perfettamente lo spirito della partecipazione “alla bolognese”.
La città pullula di micro-interventi in cui la popolazione del luogo è chiamata a occuparsi della “rigenerazione” di piccole aree, senza la possibilità di interrogarsi sulla connessione tra quello specifico intervento e l’area circostante, né di partire da un’analisi dei bisogni di chi abita o lavora nella zona o nel quartiere.
Nessuna possibilità di avere una visuale più ampia sul disegno urbanistico della città, né di alzare lo sguardo sulle grandi opere, imposte alla città senza informazione né discussione pubblica. La “partecipazione” è frammentata in mille rivoli, privata di conoscenza e potere, avvolta nelle nebbie di una neolingua adoperata per incantare e fuorviare.
A volte chi la usa ne perde il controllo, finendo – come in questo caso – con lo svelare ciò che quel linguaggio è chiamato a occultare: chi, leggendo il pannello e guardandosi intorno, non ha la sensazione di essere preso in giro?
Le contraddizioni implicite nei meccanismi di partecipazione inventati dal Comune si fanno più stridenti quando si passa alle grandi opere pubbliche che stanno mutando il volto della città.
In primo luogo c’è il Passante, l’allargamento a 16/18 corsie della lingua di asfalto che attraversa Bologna lungo cui scorrono parallele l’autostrada e la tangenziale. Un progetto devastante dal punto di vista ambientale che – senza alcun senso del ridicolo – le forze politiche che fanno parte della maggioranza hanno ribattezzato affettuosamente “passante green” o “passante di nuova generazione”, mentre il sindaco lo ha entusiasticamente definito “simbolo della transizione ecologica”.
Questa euforia deriva dall’introduzione di alcune misure di “mitigazione” che avrebbero il potere taumaturgico di trasformare un’opera altamente inquinante (secondo Autostrade per l’Italia comporterà un incremento del traffico stimato in venticinquemila automobili in più al giorno – per un totale di sessantacinque milioni di veicoli all’anno – e un aumento del dieci per cento del tasso di incidenza sul totale dell’inquinamento prodotto dal traffico veicolare) in un’opera che – addirittura – abbasserà il volume di emissioni rispetto alla situazione attuale.
Il fatto che le evidenze scientifiche smentiscano queste affermazioni non sfiora gli amministratori locali, che continuano imperterriti per la loro strada.
Nel momento in cui questa scelta fu imposta, venne allestito un “confronto pubblico” che si rivelò come un vero e proprio processo di manipolazione finalizzato a orientare i partecipanti verso il consenso a un’opera la cui realizzazione non doveva essere messa in discussione. Il cerchio si è chiuso nelle scorse settimane con la sterilizzazione di un processo di partecipazione nuovo di zecca: l’Assemblea cittadina, inserita con grande enfasi nello Statuto comunale.
La prima sessione dell’Assemblea, come esito di una richiesta sostenuta per lungo tempo da Extinction Rebellion, è stata dedicata al clima. Inizia subito male: il regolamento adottato per l’Assemblea stabilisce che non può occuparsi di progetti già approvati. Una norma scritta apposta per evitare che si parli del Passante: l’Assemblea cittadina sul clima non deve affrontare la principale tra le opere che avranno un impatto negativo sul clima.
Ma anche nei percorsi più controllati c’è sempre qualcosa che può andare storto. Nelle sue proposte conclusive, infatti, l’Assemblea ha chiesto che venga realizzata la Valutazione di impatto sanitario (Vis) del Passante, esattamente la stessa proposta avanzata da tempo dai movimenti che si oppongono all’ampliamento. A questo punto che si fa? Si fa finta di accettarla, trasformandola in qualcos’altro.
Emblematico il passaggio di un’intervista a Emily Clancy, vicesindaca con delega all’ambiente, esponente di Coalizione civica, che alle ultime elezioni amministrative ha deciso di lasciare i banchi dell’opposizione occupati nel mandato precedente e di entrare nella maggioranza a guida Pd, abbandonando la sua posizione di netta opposizione al Passante per farsi promotrice della miracolistica politica delle “mitigazioni”.
A proposito delle conclusioni dell’Assemblea per il clima, quando la giornalista domanda se tutte le proposte verranno accettate, Clancy risponde: “Sostanzialmente sì. Sul Passante infatti realizzeremo una sorveglianza sanitaria proprio perché era stata chiesta la Vis” (Repubblica Bologna, 24 febbraio 2024).
In sostanza la Vis viene respinta, e il contorsionismo linguistico con il quale si cerca di affermare il contrario serve solo a dissimulare l’imbarazzo: ciò che viene concesso (la sorveglianza sanitaria) è una cosa completamente diversa, e perfettamente inutile rispetto alla necessità di valutare preventivamente l’impatto dell’opera sulla salute pubblica.
L’ostilità alla partecipazione reale emerge anche dall’iniziativa promossa da D(i)ritti alla città (DAC), una rete che si occupa degli spazi pubblici.
Al termine di un lungo processo di scrittura collettiva, nel giugno 2022 DAC ha presentato una delibera di iniziativa popolare, strumento di partecipazione previsto dallo Statuto comunale in base al quale cittadine e cittadini possono avanzare proposte direttamente al consiglio comunale, che è obbligato a discuterle pubblicamente e a metterle ai voti.
La delibera – che prospetta una serie di soluzioni per recuperare gli spazi pubblici dismessi e affidarli alla collettività anche attraverso forme innovative di gestione – è stata bloccata con pretestuose motivazioni procedurali, e viene tenuta ferma da due anni in modo del tutto arbitrario, senza neanche convocare i promotori (un passaggio reso obbligatorio dallo stesso regolamento comunale) e senza rispondere alla documentata contestazione del diniego burocratico, che evidentemente maschera una decisione politica.
In definitiva, nel corso degli ultimi anni l’amministrazione comunale ha messo in piedi un articolato sistema di “partecipazione” che sposta su un binario morto le idee e le iniziative che nascono in modo spontaneo nel tessuto sociale. La partecipazione disegnata dalle istituzioni è disciplinata, normalizzata, manipolata.
Una partecipazione senza potere utilizzata come strumento di costruzione del consenso intorno a un’amministrazione che è lontana dall’interesse pubblico e cerca di colmare questa distanza attraverso un’operazione di marketing.
L’operazione, ormai, mostra la corda.
La partecipazione alle elezioni è una spia di questo logoramento. In una città caratterizzata storicamente da un numero molto elevato di votanti, alle ultime elezioni amministrative l’asticella dell’affluenza si è fermata poco sopra il cinquantuno per cento, registrando il tasso di decremento maggiore rispetto alle grandi città dell’Emilia Romagna.
E il sindaco Matteo Lepore è stato designato con il voto di poco più del trenta per cento degli elettori, il dato peggiore rispetto a tutti i suoi predecessori eletti al primo turno. L’apparato mediatico costruito intorno alla retorica della partecipazione è potente, ma poggia sulle sabbie mobili.
2. PRIVATIZZARE GLI SPAZI PUBBLICI (E IL GOVERNO DELLA CITTÀ)
C’è un motivo preciso per il quale le iniziative “dal basso” sugli spazi pubblici devono essere ostacolate a tutti i costi: intorno alla partita dei beni dismessi si sta saldando una alleanza tra Comune e soggetti privati che non deve essere messa in discussione.
Si tratta, innanzitutto, delle quattro grandi aree militari dismesse che si estendono complessivamente su circa trentaquattro ettari: Sani, Mazzoni, Perotti e Stamoto. Su questi spazi esistono progetti a diversi stadi di avanzamento progettuale e urbanistico, e tutti convergono verso lo stesso modello: demolizione del patrimonio architettonico, distruzione di vaste aree verdi, enorme spazio all’edilizia privata destinata alla vendita, studentati privati, con il contorno di parcheggi, centri commerciali e direzionali. Poi una spolverata di Edilizia residenziale sociale (Ers), concetto dai contorni nebulosi, e qualche rarissima funzione pubblica. Una colata di cemento sopra aree che potrebbero essere restituite a usi pubblici dopo decenni di abbandono.
A questi si aggiungono altri interventi tra cui va ricordato quello presso l’ex scalo ferroviario Ravone (circa undici ettari), nell’ambito del progetto “Città della conoscenza”. E infine, ultimo gioiello presentato di recente: il nuovo distretto dell’innovazione digitale denominato TEK (Technology, Entertainment, Knowledge), che secondo le previsioni dovrebbe “riqualificare” un’area di duecento ettari.
Tutti questi progetti condividono le stesse opacità.
Viene mostrato al pubblico solo qualche elemento sul quale convogliare l’attenzione, con grande sfoggio di avveniristici rendering, mentre vengono nascosti i dettagli su cosa verrà realmente realizzato. Nulla sappiamo degli attori coinvolti, e quindi degli interessi in campo, compresi quelli finanziari che costituiscono una parte importante delle operazioni immobiliari. Nei protocolli stipulati dal Comune con il ministero della difesa per la “valorizzazione” delle aree militari è prevista una clausola di riservatezza che – violando il principio di trasparenza della pubblica amministrazione – rende impenetrabile il processo che porta ai piani definitivi.
L’opacità riguarda anche il ruolo dei poteri pubblici. Secondo un copione ricorrente, i progetti di “rigenerazione” spuntano improvvisamente nel corso di conferenze stampa, in parte già confezionati, ma nessuno sa da dove piovano. Di sicuro non sono passati preventivamente al vaglio del consiglio comunale, al quale spetta l’adozione degli strumenti urbanistici e che ormai è ridotto a organo di ratifica di decisioni già prese.
Ma prese da chi? In quali stanze vengono adottate? Da quali soggetti? Che interessi rappresentano? In sostanza: chi governa la città?
3. INVENTARE LA RIGENERAZIONE
Tutto questo avviene nel nome della “rigenerazione”, una parola dai mille significati che ormai non ne possiede più nessuno, una parola pass-partout entrata a far parte del vocabolario della manipolazione dell’opinione pubblica.
È una “rigenerazione” vorace, che minaccia di mangiare la città e che non risponde ai bisogni sociali né si preoccupa di indagarli. La vicenda delle scuole Besta è diventata emblematica in questo senso.
Si tratta del progetto di demolizione di una scuola media realizzata agli inizi degli anni Ottanta – in un clima culturale che prevedeva la collaborazione tra architetti, insegnanti e pedagogisti nella progettazione di nuovi spazi educativi – e di costruzione di un nuovo edificio scolastico nel parco adiacente, con conseguente abbattimento degli alberi.
Il costo complessivo dell’operazione è di diciotto milioni di euro (già lievitato del cento per cento rispetto al progetto iniziale), di cui due derivanti da fondi Pnrr.
La motivazione di questa operazione insensata è che un edificio nuovo, realizzato con moderne tecniche costruttive, sarebbe più efficiente dal punto di vista energetico. Si tratta della scoperta dell’acqua calda.
È sufficiente per giustificare un’operazione che ha costi così elevati, economici e ambientali? È ragionevole accorciare a tal punto il ciclo di vita degli edifici? Perché non si sceglie la strada della ristrutturazione? Perché non c’è alcun piano sugli edifici scolastici ben più vetusti che avrebbero esigenze molto più urgenti dal punto di vista strutturale, energetico e didattico?
Gli interventi di “rigenerazione” sono innumerevoli.
Oltre a quelli già menzionati, ci sono lo stadio “temporaneo” (che verrà realizzato in occasione della ristrutturazione dello stadio comunale, ma poi – ridotto rispetto alle dimensioni iniziali – diventerà permanente) e l’edificio in fase di costruzione nel mezzo del Parco della Montagnola: nessuno sa a cosa serva, mentre la mobilitazione del comitato Free Montagnola per una diversa fruizione pubblica del parco è stata sistematicamente ignorata. E si arriva anche sui colli, con una serie di interventi pubblici e privati che segnano la fine di una lungimirante politica di tutela su quella zona.
Non vanno dimenticati neanche gli interventi autorizzati su suoli privati che – inevitabilmente – hanno un impatto sullo spazio pubblico. In varie zone della città sono spuntati come funghi enormi palazzi di altezze considerevoli (ribattezzati “mostri urbani”) nel mezzo di insediamenti storici caratterizzati da edifici di tre-quattro piani (ex scuole Ferrari in via Toscana, via Calzolari e via Di Paolo in Bolognina, villaggio Ina casa Due Madonne). In via Scandellara uno smisurato intervento edilizio – dieci palazzi di quattordici piani – sta stravolgendo una zona di campagna urbana.
Dal cilindro della “rigenerazione” è uscito anche il Museo della cultura italiana, iniziativa di un imprenditore privato che ha letteralmente rapito i principali soggetti pubblici, al punto che è già stato deciso che il Museo sarà gestito da una fondazione cui parteciperanno il ministero della cultura, la Regione EmiliaRomagna e il comune di Bologna. Non è chiaro di cosa si tratti né a cosa serva, ma l’operazione ricorda quella di Fi.Co. (Fabbrica Italiana Contadina) lanciata dal fondatore di Eataly Oscar Farinetti, un progetto commerciale nobilitato da improbabili velleità culturali che il Comune ha promosso con entusiasmo – conferendo al fondo immobiliare creato per gestire il parco tematico l’area e la struttura del Centro agroalimentare, per un valore di cinquantacinque milioni di euro – miseramente franato sotto il peso della propria inconsistenza e presunzione.
L’elenco è sicuramente incompleto, ma più che sufficiente per evidenziare i tratti distintivi della “rigenerazione” in atto: un’enorme colata di cemento che porta con sé aumento del traffico privato, nuove strade e parcheggi, distruzione del patrimonio storico e naturalistico, riduzione delle funzioni pubbliche e subordinazione agli interessi privati.
4. ABBATTERE GLI ALBERI
La “rigenerazione” che piace all’amministrazione comunale è anche acerrima nemica degli alberi. La maggior parte degli interventi citati fin qui prevede abbattimenti, in alcuni casi di notevole entità. E altri sono in corso o previsti in futuro: al Parco Paleotto per la costruzione del cosiddetto Nodo di Rastignano, in varie zone della città per la realizzazione del tram (come è possibile che nella progettazione di un’opera del genere non si sia tenuto conto di questo aspetto?). Si tratta – nel complesso – di migliaia di alberi, già abbattuti o in procinto di esserlo. Una strage.
L’avversione dell’amministrazione comunale per gli alberi non nasce oggi.
Alcuni anni fa provò a mettere le mani sui Prati di Caprara, che si estendono (sommando le due parti che li costituiscono) per circa quarantaquattro ettari, arrivando a immaginare un ampio insediamento abitativo e un enorme “outlet della moda”. Poi distrusse un’ampia porzione boschiva per costruire una scuola che – in realtà – non si farà mai.
Alle critiche sempre più diffuse l’amministrazione comunale risponde senza scomporsi con un’altra parola tratta dal vocabolario manipolato con cui pretende di governare il discorso pubblico: compensazione. Ogni albero abbattuto – giura il Comune – verrà “compensato” da altri, in numero superiore. L’evidenza che tale “compensazione” avverrà (se avverrà) tra qualche decina di anni e il fatto che i luoghi interessati verranno privati in modo irreparabile di un bene ambientale e paesaggistico non tocca la sensibilità dell’amministrazione comunale.
5. SELEZIONARE E DISCRIMINARE
Tra le conseguenze della privatizzazione dell’enorme patrimonio di beni pubblici dismessi c’è il fatto che i beni disponibili a usi pubblici continueranno a essere scarsi. Questo è un nodo cruciale per un altro aspetto del discorso: chi potrà fruire di ciò che rimane del patrimonio pubblico? Con quali regole?
Il meccanismo del bando sembra perfetto allo scopo, perché crea un quadro apparentemente neutrale e oggettivo attraverso norme, punteggi e graduatorie.
Il Comune vi fa volentieri ricorso perché in questo modo crede di occultare le ragioni delle sue scelte, che tendono sistematicamente a escludere tutte le forme associative di qualunque natura che non sono politicamente gradite.
Nelle scorse settimane è bastata una sentenza del Tar a mandare il Comune in confusione. Annullando l’assegnazione dell’edificio di vicolo Bolognetti, in pieno centro storico, ha mostrato la fragilità del meccanismo messo in piedi, o meglio la sua arbitrarietà.
Se i beni dismessi venissero destinati integralmente o in modo prevalente alla collettività, ci sarebbe spazio per tutte le espressioni della società civile e sarebbe garantito il pluralismo associativo, politico e culturale. Se – al contrario – i beni pubblici sono scarsi (o vengono resi tali artificialmente, alienandoli), l’amministrazione comunale avrà buon gioco a decidere chi è “meritevole” di godere dei beni che scarseggiano.
Scarsità e bandi vanno a braccetto per legittimare la discrezionalità delle scelte del Comune, una discrezionalità utilizzata per favorire l’omogeneità e osteggiare le differenze.
6. MOSTRARE I MUSCOLI (E AGITARE I MANGANELLI)
Un altro attore si è affacciato sulla scena delle trasformazioni urbanistiche: la polizia. Nel giorno in cui nel parco delle scuole Besta è arrivata la ditta incaricata di abbattere gli alberi, la polizia ha usato i manganelli contro gli attivisti che cercavano di impedirlo, riuscendoci nonostante la disparità delle forze in campo (la ditta ha interrotto i lavori di abbattimento). Nella notte, un episodio ancora più cruento: un giovane attivista accusato di furto presso l’adiacente cantiere del tram viene fermato dai carabinieri, immobilizzato con il taser e ridotto a uno stato di semi-incoscienza.
Il ricorso alle forze dell’ordine non è certo una novità a Bologna.
Il Comune lo ha praticato sistematicamente per sgomberare edifici pubblici e consegnarli alla polvere: collettivo Atlantide al Cassero di Porta Santo Stefano (ottobre 2015), centro sociale Làbas all’ex caserma Masini (agosto 2017), XM24 negli spazi dell’ex mercato ortofrutticolo (agosto 2019), ex Caserma Sani occupata dagli attivisti di XM24 dopo lo sgombero della loro sede (gennaio 2020).
Ma l’atteggiamento repressivo invade anche la vita quotidiana.
Il quartiere della Bolognina è stato più volte oggetto di campagne di vera e propria militarizzazione dello spazio urbano, e nelle scorse settimane si sono registrati diversi interventi di controllo a tappeto all’interno di alcuni locali, con uno spropositato dispiegamento di forze. Di recente il sindaco è tornato a chiedere maggiore presenza di polizia nel quartiere, ma il suo intento è di estendere questo modello all’intera città, come testimonia la sottoscrizione del “Patto per la sicurezza urbana integrata e la vivibilità di Bologna” con il ministro dell’interno Piantedosi (gennaio 2023).
In precedenza il sindaco aveva sostenuto la linea del questore di procedere alla fotosegnalazione preventiva dei ragazzi (anche minorenni) che arrivano a Bologna per trascorrere il sabato sera.
In nome di situazioni il più delle volte gonfiate ad arte con il supporto dei media locali (di volta in volta: i furti con “spaccata” delle vetrine, lo spaccio di droga, le risse tra “bande” giovanili, ecc.), controlli arbitrari e discriminatori (la popolazione immigrata è il bersaglio più frequente) limitano la libertà di fruizione dello spazio pubblico.
PROGRESSISTI O LIBERISTI?
Il quadro è articolato, gli interventi urbanistici da monitorare sono innumerevoli.
Ma mettendoli l’uno accanto all’altro appare chiaro quanti fili si intreccino, e come tutti si dipanino dallo stesso punto: lo spazio pubblico. La progettazione, la destinazione, la gestione dello spazio, il suo uso collettivo, il modo in cui genera relazioni sociali oppure le recide, il suo rapporto con gli ecosistemi: le dimensioni sono molteplici e complesse.
Qual è oggi a Bologna il segno distintivo delle politiche per lo spazio pubblico?
Il sindaco ricorre spesso a uno slogan: Bologna è la città più progressista d’Italia. Ma quando si è al governo le autodefinizioni lasciano il tempo che trovano: occorre verificarle sul terreno delle azioni concrete.
“Progressista” è una definizione abbastanza vaga.
In ogni caso, se guardiamo alle culture della sinistra che nel corso del secondo dopoguerra sono state predominanti e che possono essere ricondotte sotto il generico ombrello del progressismo, troviamo due aspetti fondamentali che le accomunano: la centralità delle istituzioni rappresentative, istituite dalla Costituzione, e la centralità dei poteri pubblici, che nel governo delle città ha trovato espressione anche nella pianificazione urbanistica, attraverso la quale gli interessi privati sono stati regolamentati e indirizzati verso l’interesse pubblico.
Come abbiamo visto, ciò che accade a Bologna (certo, non solo a Bologna) va in direzione opposta. Ma ciò che sta all’opposto (l’esautorazione delle assemblee elettive, la de-regolamentazione della progettazione dello spazio pubblico, la subordinazione degli interessi pubblici a quelli privati) non può essere catalogato sotto la categoria del progressismo senza dare luogo a una grossolana falsificazione storica e ideologica. Si tratta, al contrario, di alcuni dei segni distintivi del neoliberismo, il cui intrinseco autoritarismo spiega anche il ricorso alla forza, tutt’altro che episodico.
Ci sono sicuramente molte e comprensibili resistenze culturali ad accettare questa chiave di lettura, perché Bologna incorpora il mito del “buongoverno”, del decentramento, dei servizi pubblici, della pianificazione urbanistica.
Come tutti i miti, è difficile da scalfire. Lo storico Fernand Braudel scriveva che “i quadri mentali sono delle prigioni di lunga durata”. Ma una comunità non può vivere all’infinito dentro un mito senza dissolversi – alla fine – insieme a esso – e non può permettere al ceto politico di vivere di rendita sopra quel mito, usandolo come ricatto morale nello stesso momento in cui si adopera per demolirne gli elementi costitutivi.
Alcune crepe si sono già aperte. La tenacia del Comitato Rigenerazione No Speculazione ha fatto fallire lo scempio programmato ai Prati di Caprara (anche se si sta profilando un ultimo inganno: la preservazione del bosco urbano nella zona est in cambio di una generosa edificabilità nella zona ovest).
La mobilitazione alla Bolognina ha indotto il Comune a una retromarcia su uno dei suoi progetti più insensati: la realizzazione – che avrebbe causato l’ennesima strage di alberi – di un tunnel sotto al tracciato del tram per favorire il traffico delle automobili che il tram dovrebbe ridurre.
La perseveranza del Comitato Besta ha ottenuto la sospensione dei lavori: la soluzione finale è incerta, ma questo risultato provvisorio ha smorzato l’arroganza dell’amministrazione comunale.
Ciascuna di queste mobilitazioni e tutte le altre che le hanno precedute sono state possibili perché chi le ha portate avanti ha provato a fare ciò che il Comune teme più di ogni altra cosa: ha alzato lo sguardo oltre l’oggetto specifico della protesta per guardarsi intorno, trovare alleanze, cogliere il nesso con il più ampio disegno di trasformazione della città. Non è facile, non sempre ci si è riusciti fino in fondo, ma sarà indispensabile – in futuro – rafforzare questo approccio trasversale per contrastare i famelici progetti che accerchiano la città e si apprestano a divorarla.
(*) Tratto da Monitor Italia.
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