«Dizionario della paura» di Marcello Venturoli e Ruggero Zangrandi
di Giorgio Ferrari – Libri da recuperare: settima puntata (*)
Basterebbe il titolo a farci innamorare di questo libro tanto da giustificarne la ristampa. Suggestivo, evocativo e tremendamente attuale, il tema della “paura” trattato in questa opera del 1951 (editore Nistri-Lischi) è quanto di più raffinato e intellettualmente coinvolgente si possa riscontrare in un saggio. Anche perché la paura di cui si parla non ha nulla a che fare con fatti delittuosi o mostruosi e nemmeno con le angosce della psiche.
Scritto a due mani da grandi giornalisti quali furono Ruggero Zangrandi e Marcello Venturoli, questo Dizionario si presenta nella forma di un dialogo epistolare che si svolge nell’arco di due anni, fra il 1949 e il 1951, fornendo diversi piani di lettura. Il primo, quello dichiarato, è rappresentato dalle confidenze tra due intellettuali di formazione borghese, l’uno approdato al comunismo e al Pci e l’altro che, per quanto attratto dal nuovo protagonismo del proletariato e del partito che maggiormente lo rappresenta, non riesce a liberarsi delle sue credenze liberali. Il dialogo che ne scaturisce non è solo ampio (poco meno di 400 pagine, decisamente scorrevoli) ma grazie alla padronanza che gli autori hanno della lingua e al fatto di essere legati da antica amicizia, ne risulta appagato anche il gusto della lettura che si rivela svelta, a tratti brillante, ma soprattutto comprensibile nonostante si tratti di un saggio che tratta di pace e di guerra, di comunismo e capitalismo, di borghesia e proletariato, essendo questi i termini assolutamente normali del linguaggio politico e giornalistico del tempo.
Quel tempo – collocato dopo la sconfitta del Fronte Popolare del 1948 – in cui si avvertono due aspetti: il primo è il riverente atteggiamento di Venturoli nei confronti non dell’amico ma del comunista Zangrandi a cui lui stesso propone questo epistolario in quanto, nonostante la sconfitta elettorale, il Pci rappresenta, per gran parte degli intellettuali dell’epoca, l’assoluta novità che, comunque la si pensi, non si può ignorare. Il secondo aspetto è rappresentato dalle titaniche certezze che ancora albergavano nei militanti del Pci (specie nei quadri e in molti intellettuali) che si riverberano per tutto il libro e fanno dire a Zangrandi che «l’avvenire è del comunismo», anche se lo dice con “cortesia”: con quello stile discorsivo, mai salendo in cattedra, che fa di questo libro un manuale di dialettica. Dialettica a cui spesso si oppone l’estemporanea prosa di Venturoli che, se sta al gioco dell’amico nelle questioni serie, non manca di illuminare la scena con frasi a effetto come: «gli amici sono indispensabili ai miei vizi – medicine per la noia – e superflui alle mie virtù».
Non mancano spunti polemici sui più grandi scrittori del tempo (Marlaux, Gide, la russa Achmatova) o sullo stesso Togliatti e le polemiche con Vittorini e altri “malati” di americanismo, così come non sfuggono a noi posteri, avvezzi a riconoscere gli “ismi” di ogni tipo, certe sfumature maschiliste in alcune considerazioni. Ciò testimonia la genuinità dell’atteggiamento e delle opinioni dei due protagonisti, peraltro confermate dal fatto che, nonostante il libro abbia avuto un buon successo di pubblico, all’interno del Pci incontrò diffusi ostracismi, come dire che non c’era nulla di concordato nel contenuto dell’epistolario.
Legittimo chiedersi, a questo punto, perché il partito non apprezzò l’onestà di questi due intellettuali, amici e poi colleghi di redazione (entrambi lavorarono al quotidiano “Paese sera”) che fu comunque di giovamento all’immagine del comunismo e dei comunisti di quegli anni? La risposta sta nel tema evocato nel titolo del libro – la Paura – e particolarmente di quel tipo di paure che l’editore spiega assai bene nella brevissima presentazione del libro: «In queste pagine si trovano paure più generali che non sono soltanto dei protagonisti del Dizionario, come la paura degli intellettuali borghesi di avvicinare i comunisti e quella dei comunisti di accogliere nelle loro file intellettuali di provenienza borghese; la paura di rallentare il ritmo della rivoluzione con la “cultura” dei padri e dei nonni e la paura che questa cultura sia sommersa nel corale sberleffo della rivoluzione dei nipoti; la paura del prima e del poi, degli uomini non degni delle idee e delle idee che potrebbero perdere gli uomini; la paura di dover sacrificare troppi odierni cari pregiudizi e la paura, feroce, che l’antipregiudizio sia figlio, alla fine, di cotanto padre…». Una sintesi perfetta di un saggio ineguagliato su alcuni aspetti della mancata non dicasi rivoluzione ma per lo meno rottura netta col passato che l’intellettualità italiana del dopoguerra, nel suo complesso, non ha saputo portare a termine. Non a caso il libro vinse il premio Viareggio del 1951 per la saggistica.
Due ultime annotazioni: l’italiano che si legge in questo libro è un godimento a sé stante essendo moderno, piacevole e decisamente migliore del meta linguaggio che si parla nei media odierni. Nel libro si incontrano splendide illustrazioni di Renzo Vespignani, purtroppo non valorizzate come avrebbero meritato, data l’impaginazione e la veste tipografica del libro improntate a un’estrema parsimonia, ma anche questo è un segno di quei tempi.
(*) L’idea di questa rubrica è di Giuliano Spagnul: «… una serie di recensioni per spingere alla ristampa (o verso una nuova casa editrice) di libri fuori catalogo, preziosi, da recuperare». Siamo partiti il 2 aprile (con Giuliano ovviamente) a raccontare Gunther Anders: «Essere o non essere». Poi L’epica latina: Daniel Chavarrìa (14 aprile) di Pierluigi Pedretti, «Poema pedagogico» di Anton Makarenko (30 aprile) di Raffele Mantegazza, «Il signore della fattoria» di Tristan Egolf (12 maggio) di Francesco Masala, «Chiese e rivoluzione in America latina» (26 maggio) di David Lifodi e «Teatro come differenza» di Antonio Attisani (9 giugno) ancora di Giuliano Spagnul. Ci siamo dati una scadenza quattordicinale, all’incirca. Se qualcuna/o vuole inserirsi troverà le porte aperte. [db per la “bottega”]