Dobbiamo essere grati ai disturbatori
Insultatori e urlatori vari, grandi seminatori di discordie.
di Mauro Antonio Miglieruolo
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Essi ci salveranno da noi stessi, aiutandoci a guardare in noi stessi, a scoprire il grado con cui riproduciamo i medesimi loro difetti, nonché le possibilità che abbiamo di potercene emendare.
Una possibilità che è nostra a patto di attivarla, di elevare barriere a difesa, barriere atte a neutralizzare i tentativi di omologazione, la società tutta che diventa un’immane congerie di irridenti, l’un contro l’altro di ingiuria armati, che è il vero obiettivo, occulto anche per chi se ne fa promotore, dell’invettiva, dell’offesa, del disprezzo, della sopraffazione.
Noi uguali a loro, se cascassimo nella trappola. Noi illusi di aver passato indenni la prova del fuoco senza renderci conto di aver perduto l’occasione di comprendere quanta parte del male sociale vive in noi e quanta poca siamo in grado di neutralizzare.
Il mondo è pieno, letteralmente ne trabocca, di disturbatori della pace altrui, ladri di serenità, di dignità e del decoro, avvelenati inquinatori del quotidiano. Come può essere che un male così diffuso non sia anche dentro di noi? condiviso, pur se controllato. Da dove nascerebbe questo male, se non da un male oscuro che è nella società, che è in ognuno di noi; ma che in alcuni traligna e in altri fortunati, come è per tutte le epidemie, viene neutralizzato dagli anticorpi culturali presenti al loro interno, dall’orrore per determinate conseguenze, dall’amore ricevuto e da quello attivato. Tuttavia il virus sta lì, dentro il gruppo culturale di cui facciamo parte, e resta lì in agguato, pronto a colpire, pronto a approfittare di ogni momento di debolezza.
La stessa crescente presenza dei male-educati, con le loro inclementi improvvisazioni, la distribuzione generosa di lordure ovunque, fornisce l’indicazione della malattia sociale e quindi necessità di mettersi in guardia. Costoro sono dotati di una forza che forse a noi manca: la brutale determinazione fornita dall’incoscienza, determinazione che può diventare, che già è la testa d’ariete con la quale compromettono le nostre difese. Costoro sono forti perché selvaggi, perché ritengono di essere nel giusto, perché sono indisponibili e a discutere, con gli altri e con se stessi, di questa loro mortale predisposizione. Sono indisponibili alla discussione in quanto si credono portatori delle più alte verità sulle convenienza a essere arroganti, alfieri della prevaricazione, sacerdoti del dileggio; le doti che contraddistinguono gli uomini, i veri uomini. Nonché le vere donne (ah! i nostri meschini valori sulla comprensione reciproca, sul rispetto e sulla disponibilità nei confronti del prossimo! Valori di piccoli uomini e piccole donne, valori da perdenti, assolutamente non all’altezza della onnipresente e onnipotente lotta per la sopravvivenza!)
È per tale motivo, non solo per innata o acquisita prepotenza, si ritengono abilitati a diventare minacciosi se si scontrano con opinioni contrarie. Questo è anche il motivo per cui non rispondono alle confutazioni, sulle quali ritengono di poter glissare, sia perché non le comprendono, sia perché aprioristicamente le considerano poco degne della loro intelligente orgogliosa distrazione. Irresponsabilità è il loro motto. Inorgogliti dagli stessi atti con cui diventano insopportabili e a volte pericolosi; inorgogliti anzitutto quando riescono a realizzare il loro intento di trascinarci nello stesso fango in cui felicemente sguazzano e nel quale avremmo anche noi la tentazione di immergerci; meditano di gettarci nel pantano con la forza delle loro mani, se non basterà quella dell’arroganza.
L’intento è semplice, un intento importante, molto più importante del ferire e dell’offendere. Il provocare una reazione, cioè un’azione della quale solo in parte le persone mantengono il controllo. Dunque, farci uscire, per quanto possibile dai noi stessi. Dunque, diffondere il verbo della violenza verbale (quando si limita a essere violenza verbale) e nello stesso tempo dimostrare che il loro male non è un male, essendo tendenza generale.
Appare naturale, utile e conseguente, allora, la determinazione che molti manifestano a disfarsi di questi disturbatori a oltranza, disturbatori per vocazione. Ma attenzione, noi non siamo tali che basterebbe sottrarsi al disturbatore per trovare pace. Ove riuscissimo, resterebbe sempre inerte, neutralizzata la sostanza del nostro scopo (diverso dallo scopo degli aggressori). Per noi è più importante capire il perché di certi fenomeni e di certi echi, non sanzionarli, non levarci di torno coloro che li provocano, per non avvertirne ulteriormente il disturbo (necessità che viene dopo, dopo aver ottemperato alla prima).
La nostra reazione! echi a volte di sola rabbia, a volte persino di disprezzo: mio Dio! disprezzo per un proprio simile! fatto a nostra immagine e somiglianza! Estratto dal medesimo fango e costretto per emendarsi al medesimo faticoso cammino, cammino che noi forse abbiamo intrapreso un po’ prima, ma che NON giustifica il nostro immodesto porsi in prima fila, il petto in fuori, giudici severi, boia e carnefici!
No, non possiamo assumerci questo ruolo, quello dei boia. Ad altri spetta esserlo, non a me, non a noi. Che si sanzionino tra di loro, si facciano la guerra, come e quando e meglio o peggio credano di poter fare. Benché diventare loro carnefici, bisogna utilizzare i loro atti affinché si trasformino in carnefici dei nostri ritardi. Noi li useremo contro di noi, per noi, prima di volgerli contro coloro stessi che li mettono in atto. Quel che a noi deve importare non è tanto sottolineare gli errori degli oltraggiatori di professione, ma servirsene per individuare i nostri errori, per sondare la nostra possibilità di correggerli; sapendo che correggendoli, offriremo anche agli oltraggiatori la possibilità di fare altrettanto; avendo nel contempo creato un ambiente meno permeabile ai loro vizi mentali, più ostico nel quali aggirarsi.
Sono questi ultimi, i vizi mentali, gli obiettivi, non le persone. Le persone devono comunque essere salvaguardate. Anche quando si dimostrino ostinate nel difendere quei vizi, anche quando osserviamo che invece di inorridire, si abbarbicano a quei vizi, li utilizzano per difendersi, per mantenersi in essi. Noi certo essendo umani è possibile che proveremo stizza assistendo a tale pervicace autolesionismo. Ci sarà comunque di sollievo non dimenticare che con le loro provocazioni, siamo stati messi in grado di prendere atto di un problema che, pur nella sua ovvietà, appare inaspettato. Un problema che ha un nome: noi. E che noi spesso, errando, decliniamo come: loro. Non esiste un problema “loro”, o risulterebbe molto più contenuto, non esistesse il problema “noi”, che è il vero problema da risolvere. Un “noi” denso di rabbia, furore, esasperazione, cecità e scarsa attenzione e auto considerazione.
Non vale allora limitarci a tentare di sottrarci al disturbo del quale diffusamente ci lamentiamo. Sarebbe lo stesso (errore) di quando una malattia ci colpisce e noi ci preoccupiamo della febbre, illudendoci con questo di guarire. Non guariamo, semplicemente neutralizziamo il segnale d’allarme che il corpo lancia per metterci sull’avviso.
Ecco, i parolacciari, i prevaricatori, i prepotenti sono esattamente questo: la febbre che segnala la malattia (che può risultare pure mortale), del guasto che si è insinuata nel corpo sociale e rischia di comprometterlo. Togliere l’elemento che disturba allora non serve. Serve curarsi, per prevenire l’estendersi dell’infezione, non permettendo a certi echi di vibrare dentro di noi, finendo anche noi con il comportarci da malati.
Noi, che aspiriamo a essere nuovi, donne nuove e uomini nuovi. Che per diventarlo siamo costretti, non avendone ancora forse preso atto, che dobbiamo passare sotto le forche caudine della constatazione di quanto vecchio viva in noi e con quanto accanimento lotta contro di noi; e che lo fa con molta maggiore efficacia di chi dall’esterno ci ghigna contro e ci grida contro. Costoro sono la cartina di tornasole che mette in evidenza questo vecchio, dandoci la possibilità di individuarlo ed eliminarlo. Per, finalmente, fare le pulizie in casa.
Fatte le pulizie in casa, passeremo allora al pianerottolo, alle scale, all’androne, all’edificio sociale tutto. Sterilizzando ogni elemento favorevole alla germinazione dell’odio. Avremo fatto un altro passo nel processo di emancipazione che sostanzialmente è pulizia interiore. È presa di coscienza. È intervento attivo nel comune affinché il comune sia quel che deve, strumento per la realizzazione di tutti, non strumento per l’affermazioni di alcuni singoli.
Dobbiamo esse grati ai disturbatori, se ci metteremo in condizione di esser grati a noi stessi per esserci sottratti ai limiti e ai ritardi dei quali siamo gravidi. Grati per esserci sottratti all’accerchiamento agendo positivamente su di noi, non negativamente sugli altri. I quali altri a quel punto allenteranno inevitabilmente la presa, lasciando maggiore spazio al sopravvenire del sollievo. Non dovesse succedere, bisognerà chiedersi dove abbiamo sbagliato e ricominciare. Dare ulteriori passi in avanti. E poi farlo ancora. E ancora. Finché, avendo perso la pazienza, o avendone ormai sin troppa, lasceremo cadere il problema, diventato ormai certamente residuale, e passeremo ad altro.
Sono disponibile a fiancheggiare Mau in questa difficile lotta. Mi considero un esperto (o un pentito?) in quanto «ex disturbatore». Al riguardo segnalo due recenti testi, assai utili – già letti ma, povero me, non trovo il tempo di scriverci sopra qualcosina di sensato – ovvero «Insulto dunque sono» di Giovanna Buonanno uscito da Emi e «Litigare fa bene» (un manuale per genitori ma forse non solo) di Daniele Novara, pubblicato da Bur. Quanto alla gentilezza vi rimando anche all’ultimo libro di Armando Gnisci, sul quale ho scritto da poco in blog.
Potrei fare il vittimista e dire, meno male, siamo in due. Ma non è vero. L’urlo serve anche a questo. A coprire la voce dei milioni che vivono come se fosse un sussurro, per non disturbare.
Non siamo due, siamo tanti. Forse la maggioranza. Forse la grande maggioranza. Dobbiamo solo costruire grandi immense camere anecoiche dove permettere agli urlatori di entrare di tanto in tanto, anche spesso, se necessario; e lì sfogarsi a blaterare come e quanto vogliono. Lontani dalle nostre orecchie però.
Lontani dalle nostre vite. Salvo nei momenti di pace che si concedono, pace che a nostra volta concederemo a loro.