Domenikon: i vuoti di memoria degli “italiani brava gente”
di Lorenzo Guadagnucci (*)
Le politiche della memoria, in qualsiasi Paese, sono una cosa seria. Servono a comprendere (e conoscere) il passato al fine di orientare il presente; svolgono una funzione formativa e in qualche caso anche normativa, poiché definiscono posizioni politiche, aspetti dell’identità nazionale. Bisognerebbe allora chiedersi perché sia sfuggita all’attenzione generale una notizia del 15 febbraio scorso. Il gip militare di Roma, Elisabetta Tizzani, ha accolto la richiesta di archiviazione, da parte del procuratore militare Marco De Paolis, per l’inchiesta aperta nel 2011 sulla strage di Domenikon, circa 150 civili uccisi in Grecia dall’esercito italiano il 16 febbraio 1943.
La strage fu l’esito mostruoso di una rappresaglia, scatenata dopo un attentato dei partigiani greci che causò nove morti e 26 feriti fra gli occupanti militari italiani. I paesi della zona furono rastrellati e oltre centocinquanta maschi adulti furono portati in una radura, nei pressi del villaggio di Domenikon, dove furono fucilati. Si salvarono in sei: uno fuggito durante il trasporto, cinque sopravvissuti casualmente alla fucilazione. La strage fu eseguita dalla 24esima Divisione di fanteria Pinerolo ed è assai poco conosciuta nel nostro Paese, come numerose altre “imprese” delle nostre truppe di occupazione nei Balcani durante la seconda guerra mondiale.
In realtà della strage si sapeva pressoché tutto da moltissimo tempo, come documenta Marco Clementi nel suo libro Camicie nere sull’Acropoli (DeriveApprodi, 2013). Il rapporto del generale Cesare Benelli, comandante della Pinerolo, già conteneva tutte le informazioni sull’eccidio, con un dettagliato elenco degli omicidi eseguiti dai suoi soldati (lui ne menava vanto e distribuì encomi). Benelli e gli altri responsbaili dell’eccidio non sono però mai stati chiamati a risponderne, né dagli italiani né dai greci, che alla fine del conflitto chiesero invano la consegna di decine dei nostri ufficiali per processarli come criminali di guerra. Le estradizioni non furono concesse, i fascicoli restarono sotto chiave.
La strage di Domenikon è uno degli episodi che smentiscono alla radice il mito degli italiani brava gente in guerra, un mito fasullo che tanto a lungo si è voluto coltivare, nel maldestro intento di rifarsi un’impossibile verginità. La guerra degli italiani è stata una guerra sporca e, come tutte le guerre del Novecento, è stata innanzitutto una guerra contro i civili. Ma sembriamo collettivamente incapaci di riconoscerlo. Preferiamo indossare i panni comodi della vittima, che sia per le foibe (fenomeno ingigantito a dismisura) o per le stragi nazifasciste (sulle quali si evita un’analisi profonda).
È così che nelle politiche della memoria del nostro Paese la rimozione e l’oblio sono la vera chiave di volta e prendono il posto che spetterebbe ai fatti, troppo duri e troppo assillanti per essere usati come materia prima nella costruzione di un’identità nazionale positiva e senza macchie.
Marco De Paolis ha dovuto chiedere l’archiviazione perché un’inchiesta avviata a 68 anni dai fatti non poteva portare più lontano: tutti morti o non rintracciabili i potenziali imputati. De Paolis ha però compiuto un gesto significativo. Al momento di firmare la richiesta di archiviazione, ha inviato una lettera personale ai familiari delle vittime, per chiedere scusa a nome della procura militare e suo personale: «Ho scritto quella lettera – ha spiegato – per senso di giustizia e per cercare di lenire l’imbarazzo per l’inerzia della giustizia italiana».
Per dare un senso a tutto questo dovremmo includere la strage di Domenikon nel nostro perimetro della memoria e ricordare sempre che la guerra ai civili, cioè la pratica dell’eccidio, non è un incidente o una deviazione della storia, ma la prassi delle guerre moderne. Non esistono eserciti buoni, non ci sono guerre pulite.
(*) pubblicato sul mensile “Azione nonviolenta” e su volerelaluna.it/