Don Juan: ascoltando il Don Giovanni di Mozart
di Mauro Antonio Miglieruolo
Ma davvero Don Giovanni è tale per ciò che comunemente viene ammirato e dispregiato? L’amante superlativo, il seduttore, l’arrogante attaccabrighe crudele spietato assassino? Senza cuore e, mi si perdoni, senza Dio?
Don Giovanni, anche per come è rappresentato, è molto più e molto meno. È espressione del demoniaco nell’umano e nello stesso tempo delle miserie, delle piccinerie che lo caratterizzano. Ribelle alle regole sociali perché ribelle alle norme Universali dalle quali scaturisce l’Umano come concetto e come fatto; è vittima delle inclinazioni personali e delle convenzioni che il mal senso comune impone agli uomini. L’uomo è cacciatore, bisogna che si sfoghi (precisamente una bestia); al Signore dell’Universo tutto è concesso: un tutto che è contro tutti, anche contro sé stessi… il dominio di un genere sull’altro fonda e giustifica il dominio di una classe sull’altra, fonda l’infelicità universale.
Trasparente è l’operazione di dominio che gli viene fatta compiere e che i suoi autori a malapena registrano: Don Giovanni per porsi come potente deus della vita delle donne, che sono la sua ossessione, occorre diventi inconsapevole portatore degli aspetti più turpi del dominio di classe. Lo fa violando stile e costume, i limiti delle buone maniere, rispecchiando la verità nascosta (ogni forma di dominio ne ha più di una): al nobile è concesso d’essere un mascalzone, un delinquente al limite, all’insegna del suo buon diritto d’uomo, genere dominante; e d’abbiente. Al fondo – se si ragionasse, ma non si ragiona – verrebbe mostrato quel che è la società civile, con le sue norme, i regolamenti, le censure sociali.
La “società civile” è frutto di una storia complessa nella quale contano le tradizioni, la necessità di indossare panni decenti e che siano ben pesanti. Nessuno deve poter dire: il Re è nudo! Una storia dominata da una classe che impone alle altre le sue regole, alle quali tiene, ma che necessariamente viola ogni volta che la convenienza lo impone. O anche solo lo suggerisce. È sotto il Re Buono che in Italia viene compiuta la più grande strage di popolo dall’unità d’Italia. Bava Beccaris accoglie a cannonate la protesta dei sudditi di sua maestà (il minuscolo è d’obbligo) che protestavano per una tassa sul pane. Ma di tanto in tanto è bene che ciò sia, che si vedano le orrende nudità del regime. Che si sappia, sotto il guanto di ferro è pronto quello del fuoco e della galera. Don Juan, pur nella riprovazione generale, è proprio questo: la nudità del potere il quale, salvo qualche parentesi atta a far dimenticare, è sostanzialmente arbitrio.
Mozart a 7 anni
Volendoci avvicinare troppo, ci siamo allontanati da Don Giovanni. Allontanati dalla sua personalità malata che gli specialisti non esitano a definire tarata psichicamente. Sì, certo, costoro vedono bene. Quel che non vedono è il passo decisivo ch’egli compie e i cantori del personaggio e il grande pubblico non compiono (i secondi perché limitati dal limite dei primi) al fine di diventare metafora e simbolo della classe a cui appartiene. Nello stesso tempo che diviene metafora e simbolo delle tare psichiche che affliggono l’umanità. In lui sono l’avidità e l’insensibilità umane portate al più alto grado; sono l’arroganza e la superbia; il buon diritto della classe dominante e il cattivo diritto dell’arbitrio; l’esempio dato alla propria classe, anche a costo dell’umiliazione o distruzione di appartenenti alla stessa aristocrazia. Muoia uno affinché si salvino i mille.
È così che si fa, che ci si comporta. La lotta di tutti contro tutti. Non c’è congenere o uguale che conti. Quel che conta è l’affermazione dell’immediatezza dei desideri, che il principio di classe principalmente deve contenere. Dal che è inevitabile derivino profonda infelicità, solitudine, rabbia impotente: basi in assenza delle quali nessun dominio potrebbe continuare a lungo; basi che fonda il dominio dell’ego sulla persona e prepara l’avvio di un atteggiamento distruttivo antesignano della propria autodistruzione. Don Juan raccoglie quel che ha seminato. Sarà lo stesso da lì a poco per l’aristocrazia (l’opera mozartiana ha la sua prima a Praga il 29 ottobre del 1787).
Arrivati a questo punto però non possiamo fermarci, o non dare il passo decisivo che ci porterà a un Don Giovanni poco considerato. Un Don Giovanni sconosciuto che già quasi promette di farsi conoscere.
Non solo gli uomini ma anche il destino concede una lunga impunità al “seduttore”. Ma se gli uomini non si muovono (non possono) il destino può, si muove. Il tempo di riempire d’afflizione molte donne e infine l’inevitabile resa dei conti. Si ritrova con Leporello vicino alla statua del Commendatore, sua vittima e padre di Donna Anna, che ha tentato di violentare. Spavalderia e arroganza lo inducono a sfidare la statua che, miracoli del teatro, accetta e promette di presentarsi a cena la sera stessa. Invano Leporello tenta di dissuaderlo dall’accettare. Don Giovanni non teme nulla, perché nulla ha da perdere. Nemmeno sé stesso, smarritosi nel cammino della vita un giorno che non è dato identificare (a nessuno importa stabilirne le circostanze). Ricordargli che vive, al pari di spettatori e autori, in una commedia con un principio e una fine non è più possibile. L’Alfa e l’Omega di ogni suo orizzonte è dato dall’inizio e fine della soddisfazione dei sensi; e del vasto dispotismo del quale dispone in quanto nobile, dispotismo del quale è palesemente consapevole (io son IO e voi non siete un cazzo!). Che la sfida provenga poi dall’Aldilà non è un dato che lo possa smuovere. Seppellite dentro di lui le voci che potrebbero metterlo in guardia. Accetta la sfida. Finisce col dannarsi, sparire negli abissi antesignano dell’inferno.
Non è impossibile comprenderne il perché. Accettando la sfida e le conseguenze della sfida, stabilisce una duplice superiorità: su quella dei poveri di spirito alla Leporello; e su sé stesso, ai cui dubbi, che sicuramente nutre, rifiuta di assoggettarsi. Come non crede al potere dei vivi, del quale conosce la sostanza d’inganno e d’abuso, ugualmente non crede al potere dei morti e alle inevitabili conseguenze delle nostre malefatte. Di questo duplice rifiuto qualcuno, un qualsiasi critico avvocato di cause perse, potrebbe addirittura servirsi per scaricarlo delle colpe; e fornire a chi concorda nel fondo dell’animo con le sue sciagurate imprese di un quanto di segreto compiacimento. Noi però dobbiamo sapere che dietro tutto non c’è altro che un’anima tormentata tanto da non essere più in grado di percepire sé stessa. Non vivrebbe con furore, altrimenti, le sue disavventure. Bisogna gridare tanto, alzare la voce, vantarsi e esibirsi, per coprire i lamenti di una coscienza che non ne può più, non aspettando altro che la parola fine per chiudere degnamente la comedia, il romanzo d’una vita: sia che si tratti di una vita finta, sia che si tratti d’una vita vera (ma ne esistono di quest’ultime?).
Don Giovanni, lo si capisca una buona volta, è superiore a ogni convenzione, è uomo come si deve, uomo uomo, nobile d’alto grado, capace di vivere fuori e contro le convenzioni, violare donne, ingannare, oltraggiare, l’amore prima di tutto, riducendolo a mera sostanza di sesso. Sul palcoscenico della vita – prima o seconda non vi è differenza – recita commedie e tragedie da lui stesse scritte e recitate. Più che uomo, si direbbe un superuomo. Nemmeno per un momento il dubbio che il suo essere abbisogni di un complemento, che tutto non è in lui, non si esaurisce nei furori che procedono dalla zona pubica. Un superuomo che può ignorare le regole d’una società che lo ha posto proprio nella condizione di essere quello che è, sopra ogni regola. Nell’uguale dell’oggi in cui la violazione delle regole, i diritti umani, sono sistematicamente infranti, mentre altrettanto sistematicamente si fa appello ad essi. Credete forse che almeno il principio implicito nella parola società sia in qualche modo rispettato? Quale rispetto per la parola società può esservi in un ambito in cui è permesso ad alcuni profittare del lavoro degli altri; e tenere questi ultimi in condizioni di insicurezza e soggezione? All’inferno Don Juan! E con lui chiunque creda sopportabile tutto questo!
All’inferno, o meglio al manicomio, chiunque creda che il seduttore stia lavorando per sé stesso. Che don Juan sia qualcosa, qualcuno, una entità apprezzabile. Forse può esserlo per noi pietosi, per tutti coloro di buon cuore che vorranno considerare. Ma per sé stesso è nessuno, perché nulla ammette oltre il nulla dei desideri. Non è parte del complesso umano sociale. È un parassita, un distruttore, un serial killer, non diversamente da tanti che a capo di grandi aziende si trasformano in quello che loro stessi chiamano, uomini senza vergogna, tagliatori di teste. Cioè tagliatori di posti di lavoro, tagliatori di vite, tagliatori di speranze.
È di vocazione all’infelicità che sto parlando, se non lo avete ancora capito. Un uomo senza incontro con l’altro e con la metà che gli è propria (la donna; o in ogni caso l’altro diverso da sé che lo completa) non ha possibilità di percorrere il cammino della vita con i dovuti alti e bassi che la caratterizzano. Amare una donna, anche per un minuto, è l’azione più nobilitante alla quale si può accedere. Abbassando la donna a puro mezzo, a mero strumento al servizio dei propri fini, non essere per lei, di là dal trasformare chi la compie in inevitabile avvoltoio, rappresenta un tradimento per l’Umanità dell’uomo, questo povero essere che tanto ha faticato per uscire dallo stato animale, a tante rinunce ha dovuto soggiacere, per ritrovarsi infine al punto di partenza: animale, non uomo.
Da compagno di viaggio che è diventato despota (un piccolo despota, un piccolo borghese, un piccolo aristocratico). Ma il despota si sa è solo, vive nel terrore di una solitudine senza rimedio; che possiede l’unico palliativo di inferocire, moltiplicare le vessazioni, procedere per sospetti. Diventa, senza saperlo, l’opposto di ciò che si intende dicendo: la fantasia al posto di comando. Per un’unica fantasia, il timore del tradimento che legge nei propri atti, nel proprio cuore. Così fan tutti, direbbe il buon vecchio Mozart. Don Giovanni, l’essere incompiuto, colui che costruisce, essendosi messo al servizio del piacere e della prepotenza, la sua propria parzialità in quanto essere sociale. È l’infelice per antonomasia, inconsapevole e solo, dolente. Poiché tutto promana da lui, avendolo costruito come è stato costruito, altro esito non è ravvisabile.
Tratteniamo (siamo in grado di farlo) il furore, il nostro pieno di ragioni. Non lo disprezziamo, né lo compatiamo, povero fratello nostro che ha smarrito ogni via. Cerchiamo di comprenderlo affinché si diffonda una spiegazione dei fatti che renda più difficile a chi scelga di aderire alla medesima vocazione di Don Juan di ripercorrere il medesimo cammino. E prima ancora apra la strada alla comprensione della molteplicità e complessità e contraddittorietà delle vie che portano alla perdizione. Le più grandi delle quali possiamo riassumere in queste due grandi categorie: la possibilità dei lavoratori di smarrire la propria vocazione quale guida dell’umanità nell’attraversamento del Mar rosso; quella delle donne di non riuscire a restaurare l’atavico ruolo di guida nel processo di civilizzazione, mai smarrito del tutto, ma troppo attenuato, data la repressione formidabile del maschilismo, negli ultimi millenni. Siamo usciti rovinosamente dal matriarcato, potrebbe non essere necessario rientrarvi. Non se ognuno di noi, femmina o maschio, riuscirà ad entrare in sé stesso, in una pratica di concordia, amicizia e fratellanza.
Non crediate allora – sarebbe rovinoso crederlo – che il suo successo sia il prodotto esclusivo dell’abilità degli autori che lo hanno proposto. È un successo che importa una grande complicità sociale. Don Juan è in tutti noi, rappresenta l’infingardaggine, la superficialità, la prepotenza di ognuno; se il genere umano non fosse tanto disponibile alle seduzioni del male, Don Giovanni neppure per un minuto avrebbe potuto occupare i nostri pensieri, o attirare la nostra attenzione. La capacità di delinquere è d’ognuno, non del solo delinquente abituale, del mafioso o del pessimo vicino di casa. Perché se in fondo siamo tutti ottime persone; altrettanto in fondo possiamo e sappiamo essere pessimi vicini di casa. Beato chi ha avuto la fortuna di tenersi lontano dal male. Più ancora: fortunato colui chi è stato messo sull’avviso per tempo e per tempo ha provveduto.
Ma ancora ci siamo tenuti sulle nostre, abbiamo appena sfiorato l’argomento. Il mistero che rimane occulto è perché Don Giovanni abbia cominciato praticando l’arte del carnefice e finisca con il disperdersi in quella della vittima. Amare gli altri come se stessi, amare cioè il più vicino dei vicini. Ma Don Giovanni non è che finisca malamente, produce le condizioni della propria disfatta. Dalla dannazione di una vita sprecata nasce la dannazione di una morte sprecata. Don Giovanni non si ama. Ma siamo ancora al poco di un amore mancato. Bisogna entrare nel tanto di un disprezzo consistente. Dentro un uomo che non si considera, che non ha stima e considerazione di sé stesso. Ha superbia, certo; si nutre d’orgoglio, lo possiamo constatare. Ma quanto a rispetto, a dignità, a spessore umano non c’è che il deserto. Il deserto che vede e soffre. Non ha altro interlocutore che il capriccio del momento e il dispotismo di sempre.
Può bastare questo a un uomo? Basti a noi per riflettere e considerare.
COUNQUE
E SE ESISTE
LA PERSONA PER BENE
NON PASSA ALLA STORIA
MENTRE UN QUALSIASI
PENOSO E MONOTONO
DON GIOVANNI
CONTINUIAMO A SORBIRCELO.
PRODIGI DELL’ARTE!
…DIMENTICAVO…
CI RESTA IL POVERO MOZART
CHE ESSENDO GRANDE ARTISTA
MORI’ DI FAME E DI FREDDO
Opera di rottura e di suggestione, mal digerita a Vienna, perché un nobile moriva. Il Don Giovanni ebbe due versioni, quella praghese e quella viennese, da cui furono eliminati alcuni brani. Tra cui: «Questo è il fin di chi fa mal:
E de’ perfidi la morte
Alla vita è sempre ugual.»
La chiusura morale, tipica dell’epoca. Intenso articolo, ricco di spunti, che affronta la complessità di un soggetto, ispirazione e riferimento culturale. Si presta a un dibattito ampio, in cui molte intersezioni con la storia definiscono il quadro dell’esistere umano, la follia, la superbia, l’avidità, la violenza, l’amore…