Dopo l’amore, dopo la coppia, dopo il lavoro, dopo il sistema
Scazzottata recensiva sul libro «L’amore ai tempi dello tsunami»
di Gianluca Ricciato
«L’amore ai tempi dello tsunami»1 è un testo ricchissimo e denso che consiglio di leggere a chiunque. In particolar modo a chi sta cercando delle chiavi di lettura alle proprie instabilità di vita, di relazioni, di situazioni economico-lavorative; insomma a chi si trova per scelta o per necessità a mettere in discussione i cosiddetti “binari prestabiliti”.
In questo senso, a me sembra che sia uno dei pochi testi usciti in Italia negli ultimi anni che riesca a porre le domande giuste – più che dare risposte – attraversando una serie di tematiche, dalla transessualità alla diversabilità, dalla genitorialità gay e lesbica al rapporto fra mercato del lavoro e società, dalle nuove migrazioni al capitalismo nell’era virtuale, dai movimenti contro la globalizzazione alle nuove relazioni affettive, spesso intersecandole fra loro e cercando un bandolo della matassa che riguarda appunto la domanda generale: che cosa stiamo vivendo nei nostri microcosmi, in questo dopo 2000, di guerre globali e di crisi infinite?
Non farò una panoramica di tutti i saggi contenuti nel testo, sono tanti e non potrei esaurirli nello spazio di un articolo, ma scenderò nei particolari di alcuni che forse mi sono più vicini. Mi limito a dire che il libro ha tre curatrici, che sono anche ricercatrici sulle tematiche di genere e che ne hanno tessuto la trama chiedendo alle e ai partecipanti di non dimenticare di partire da sé, cioè di far risuonare nelle loro esposizioni il proprio vissuto e le motivazioni che le hanno portate/i a occuparsi dei loro argomenti. Alla fine di questo articolo potete trovare l’indice, che è già un buon modo per farsi un’idea.
Non mi resta quindi, per scendere nei particolari di questa specie di articolo recensivo a «L’amore ai tempi dello tsunami», che accettare e dichiarare una cosa, partendo da me, a mia volta: ho fatto letteralmente a scazzottate con questo testo, l’ho avuto in dono, divorato, abbandonato, ripreso, mi ha emozionato e mi ha suscitato talmente tanti pensieri da arrivare difficilmente a una sintesi di quello che volevo riportare. Ma soprattutto si è intersecato continuamente con quello che sto vivendo e ho vissuto da quando ho iniziato a ragionare. Scazzottate metaforiche quindi, e non dettate dalla mia avversità a esso, dato che condivido praticamente i 999/1000 di quello che c’è scritto. Il problema è piuttosto che le mie capacità di sintesi vanno in bianco davanti ai problemi posti da questo testo, fanno cilecca e si arrotolano in acrobatiche descrizioni perché è troppo forte e troppo complesso quello che mi suscita. Complesso quanto la storia dell’articolato sistema di potere in cui siamo iscritti da millenni, complesso come le relazioni tra le persone.
Complesso come i sentimenti.
DOPO IL SISTEMA
Sono partito, a parte che con la curiosità, anche con la diffidenza che provo nei confronti della mia generazione – i trent/quarantenni diciamo – quando proclama il partire da sé, cosa che di solito rimane nelle intenzioni teoriche senza passare alla narrazione reale dei disastri delle nostre vite, disastri continuamente evocati e quasi mai narrati. Ma questo è normale: non è che millenni di astrazioni teoriche slegate dal vissuto si potevano superare con qualche decennio di autocoscienza femminile e maschile gay (e pochissima ancora maschile tout court).
Quindi di fronte al manifesto intento di questo testo, che si pone come «ripensamento complessivo delle forme di solidarietà e risponde all’urgenza di dare voce alle nuove pratiche affettivo-relazionali che l’attuale situazione economico-sociale produce»2 continuavo a conservare i miei dubbi sulla sua reale capacità di uscire dal pantano logocentrico della nuova e vecchia teoria accademica che vuole dissertare di amore e cose del genere. Invece devo ammettere che la mia ritrosia è iniziata a cadere presto. Già quando la presidente del Mit – che non è il Massachussett Institute eccetera, ma la principale associazione transessuale italiana – Porpora Marcasciano dice: «Scrivendo di amore trans, il rischio è di aprire le ferite dei non amati»3, la mia diffidenza vacilla. Però è sempre Porpora, quella di «Tra le rose e le viole»4, che è riuscita con i racconti di quel libro a spiegare come i femminielli napoletani di inizio Novecento a volte fossero più integrati delle persone transessuali nell’evoluta società di oggi.
Subito dopo, in un articolo di due delle tre curatrici (Gaia Giuliani e Chiara Martucci) ecco uno dei problemi che si pongono tutti coloro che si trovano a fare scelte di vita per così dire pericolose, foriere di instabilità, fuori dalla norma, cioè il problema della cura dopo la coppia, se così posso sintetizzare, cioè dell’«assenza di forme di rassicurazione e protezione»5 quando vengono meno i meccanismi sociali classici della cura e dell’accudimento, cioè il sistema familiare patriarcale basato sul matrimonio eterosessuale. La fatica di questo si fa sentire, il peso dello stigma e del portarsi addosso un’insicurezza direi quasi antropologica, destabilizza, e di questo non bisognerebbe farsi una colpa. Scrive Gaia: «l’amore di fronte a questo tsunami sistemico e soggettivo ha vacillato nella propria autocomprensione, portandomi da posizioni antimatrimonialiste a sogni fiabeschi di amore eterno»6.
DOPO IL LAVORO
Qui non stiamo facendo solo un discorso di diritti civili, non stiamo chiedendo il riconoscimento di un matrimonio, un assegno, una qualche forma di elemosina sociale che ci permetta di essere più uguali degli altri. Qui si sta parlando di libertà, che riguarda le nostre vite private come quelle pubbliche, quello che succede sia nei nostri letti che nei nostri luoghi di lavoro. Gli stigmi sulle scelte affettive non normalizzate hanno una matrice comune con quelli che riguardano il mondo del lavoro, il mercato, il consumo, gli stili di vita. Gli stessi che nelle nostre città, ogni giorno, agiscono contro la socialità e a favore della «polverizzazione di spazi di elaborazione collettiva»7. Per questo Chiara scrive che nel 2001 a Genova ha trovato una «comunità transnazionale»8 che finalmente dava voce a quello che stava succedendo dopo i primi anni di affermazione della dittatura neoliberista, cioè del sistema di finte e virtuali libertà in cui viviamo – sistema basato invece sulla reale e quotidiana schiavizzazione dei lavoratori del “primo mondo” e sull’annientamento delle società e dei territori degli “altri mondi”. Tutto questo evidentemente non è sempre chiaro nemmeno a chi inizia a metterlo in discussione, perché non è facile capire che anche la propria capacità di lavorare autonomamente può diventare uno strumento nelle mani di questa dittatura, che posso diventare io stesso il mio auto-sfruttatore quando «il mio strumento di lavoro sono io + il mio computer»9. Ma posso anche diventare strumento di libertà e di sovversione dei codici del sistema. La linea di confine è sottilissima e occorre lucidità per percorrerla.
«Un mefitico cocktail tra l’etica nazi-calvinista (il lavoro rende nobili, o liberi?!), mista ad un improbabile yuppismo di ritorno (se vuoi ce la puoi fare, it’s up to you man!), unita alla retorica lavorista della cultura tradizionale della sinistra italiana (lavoratori di tutto il mondo unitevi!). […] Mentre tutto cambia si continua a considerare il valore del lavoro come un dogma indiscutibile e si moltiplicano tabù e non detti sulla sua mancanza, la sua organizzazione, sui criteri che orientano ciò che si produce e come lo si produce, e sul modo in cui si attribuisce valore agli esseri umani. Si tratta di una coltre di ipocrisia che continuiamo a tessere tutte e tutti (nostro malgrado?). Una coltre fatta di silenzi, di finzioni, di omissioni e di connivenze che bisogna avere il coraggio di vedere e di smascherare, se si vuole andare oltre la naturalizzazione dello status quo (Martucci 2012a)»10.
Ma c’è un punto irrinunciabile, un segno nella sottile linea di confine di cui parlavo poco fa e che anche questa volta richiama il partire da sé. La scrittrice femminista Carla Lonzi lo chiamava «combaciare con me stessa», che Chiara traduce con «il principio dell’aderenza a me stessa»11. Questo principio è sicuramente la cosa che mi ha più colpito e a cui mi sento più vicino, in questo testo. Ho sempre pensato che le doppie morali, le finzioni, le riduzioni al silenzio di piccoli problemi e grandi tragedie, insomma i fatti personali e quelli pubblici delle nostre vite, seguano una direttrice unica tracciata dalle forme del potere patriarcale, di cui il capitalismo è solo uno degli svolgimenti storici. Quando mi vergogno di dire quanto guadagno, o cosa faccio di lavoro, o come lavoro – con che tempi, con che mezzi – o come sopravvivo, se i miei o chi per loro mi passano o no aiuti economici, ho una sensazione simile a quando cerco di spiegare le mie “situazioni sentimentali” anomale rispetto alla presunta “normalità”. Competizione, sensi di colpa, normalizzazione cattolico-borghese. Panni sporchi che si lavano in casa. Comunisti in piazza e fascisti in casa. La moglie in vacanza e l’amante in città. Chiesa e bordello. Padroni e schiavi. Dualismi metafisici che coprono doppie morali.
La finzione sentimentale, il non volere o non sapere dire la verità, il fondare le relazioni su omissioni e su non detti, l’abituarsi a mentire e considerarlo come unica soluzione possibile quando ci sono cose difficili da affrontare, hanno una matrice comune nella situazione di schiavismo simbolico a cui siamo sottoposti fin da piccoli, quando a scuola siamo schiacciati fra un sapere programmato e codificato – già detto da qualcun altro influente – e tutto quello che non si può fare rientrare nei programmi scolastici cioè il non detto di relazioni, felicità e infelicità, quotidianità, modi e stili di vita. Educare alle differenze, per me, è o dovrebbe essere questo, anzi lo smascheramento di tutto questo: altro che la fantomatica “ideologia del gender” sventolata come il diavolo da chi ha fatto dell’omissione e della schiavitù la propria dottrina di vita.
«Il legame di sangue sancito dal matrimonio borghese all’interno della stessa classe, o casta in altre culture, non rende di per sé una famiglia coesa o migliore di altre, né un genitore o un figlio più generoso, stabile e presente»12 scrive a esempio Laura Fantone, parlando dell’Identity-Release, un sistema di rilascio dei dati sull’identità nato negli States per cercare di responsabilizzare e di fare società intorno alla questione della cosiddetta inseminazione artificiale. Un programma che «riflette la volontà di creare comunità e non solo di seguire un mercato basato su necessità e desideri individuali»13.
DOPO LA COPPIA
Io credo che al vero nucleo del problema, quello che fa più resistenza, ci si avvicina quando si tirano fuori le questioni che riguardano la nostra quotidianità. Gli attacchi più forti, le resistenze culturali, non avvengono contro i cortei dei pride, pur importanti ma ormai digeriti da un sistema che neutralizza nel folklore le istanze destabilizzanti. Le levate di scudi arrivano quando tiri fuori i rimossi. E il grande rimosso, che ci riguarda tutti e tutte, sono i modi in cui riusciamo o non riusciamo a stare nelle relazioni, amorose, amicali, familiari, sociali. Qui la crisi strutturale è evidente ma di tutto si parla tranne che di ciò. La questione esce continuamente fuori quando si parla di “monogamia sì o no”, “coppie aperte o chiuse”, argomento che mette ansia per il solo fatto di affrontarlo, naturalmente. Ma la questione è molto più ampia e andrebbe affrontata nel suo giusto grado di complessità.
Al centro del libro, c’è un articolo che riprende una tesi di laurea in Antropologia, che a sua volta nasce da un lavoro d’inchiesta di un collettivo queer bolognese, il Laboratorio Smaschieramenti (di cui ho fatto parte, sia del collettivo che di quel lavoro). Il lavoro era una video-inchiesta sulle relazioni e la tesi, di Alessia Acquistapace, si intitola «Relazioni senza nome»: «Per me (e per Smaschieramenti) descrivere e analizzare queste esperienze significa prima di tutto dare visibilità a un’altra possibilità di esistenza, che appare estremamente interessante in rapporto alle condizioni di vita contemporanee, ma che rimane ancora largamente invisibile a causa del privilegio simbolico di cui gode, nel senso comune come nella ricerca sociale, la figura della coppia coniugale o simil-coniugale»14.
Mi viene in mente la risposta di un ragazzo durante un’intervista che conducemmo in un’occasione pubblica organizzata da spazi sociali bolognesi, e poi entrata nella ricerca di Alessia a cui il suo capitolo fa riferimento. Il ragazzo disse, più o meno (vado a memoria): «mi sono accorto, a un certo punto della mia vita, che non può essere una sola persona che soddisfa tutti i miei bisogni e desideri, che siano sessuali, relazionali, di cura, di amicizia, di condivisione. È una cosa immatura». È una semplice frase che racchiude, secondo me, un’ovvietà resa invisibile da millenni di patriarcato che ci hanno resi “infanti” relazionali che si affidano e si aggrappano, senza dare reale valore al senso della cura, delle relazioni, e soprattutto spesso senza riconoscere i nostri desideri. E certo non ce ne tiriamo fuori con un colpo di spugna, dobbiamo lavorarci tutte e tutti, facendo i nostri sbagli e forse compiendo anche degli orrori inevitabili, seminando “cadaveri emotivi” nei nostri tentativi andati a male, come dice un famoso articolo sul cosiddetto poliamore. Dice infatti quell’articolo, mettendo in guardia dalle facili soluzioni: «Se un sistema del genere non è esploso da solo è perché, da buona pentola a pressione, ha delle valvole di fuga. Ne esistono due principali: la bugia (o le mezze verità) e il de-vincolarsi. L’adulterio da manuale, supportato da diversi modi, ci aiuta a vivere, senza dubbio, ma non fa che alimentare il sistema, impedendoci di affrontarlo. Del de-vincolarsi parliamo meno, ma è altamente nocivo, giacché risponde alle nostre pulsioni e passioni, negandoci il vincolo, facendo delle persone con cui ci rapportiamo dei semplici oggetti di soddisfazione. L’usa e getta. E’ il capitalismo selvaggio degli affetti. L’amore libero, che nacque come resistenza all’istituzione del matrimonio, si è andato man mano depoliticizzando fino a diventare una semina emozionale di cadaveri che ha più a che vedere con una libertà neoliberale che con l’amore»15.
Spero sia più chiaro ora cosa si intende quando si dice che non è una questione che riguarda solo l’apertura o chiusura sessuale e sentimentale, che è un appiattimento del problema comodo e fatto da chi non sa o non vuole capire o preferisce fare le cose di nascosto: il problema riguarda l’apertura o chiusura mentale verso gli altri e verso i problemi del mondo. E forse sembrerà strano, ma la questione è più femminista di quanto si pensi: «Il problema non sta soltanto nel fatto che debbano essere sempre le donne a riversare questo tipo di amore totale sui propri cari, ma anche nel fatto che l’amare e l’essere amati si debbano identificare con questo ‘pieno’ assoluto di accudimento e attenzioni»16. Quegli accudimenti di cui hanno sempre avuto bisogno i “grandi uomini” per creare le loro “grandi imprese” mentre a casa c’era qualcuno (qualcuna) che cucinava, lavava, stirava e cresceva i bambini. Qualcuna di cui la storia non conserva memoria: la non-storia delle donne, invisibili o eretiche, schiave o streghe.
DOPO L’AMORE
C’è infine un’altra questione, però. Prima dopo e durante tutto questo, per me rimane insoluta un’arcaica domanda: stiamo nominando l’amore…ma che cos’è l’amore? Credo che quando si iniziano a dare risposte a questa domanda le nostre esperienze di vita non fanno che divaricare le nostre opinioni. E questo è un problema di cui tenere conto, altrimenti finiamo per mettere il concetto di amore sotto i silenziatori composti del “poli-multi-etc-amore”. E a me questa cosa non va, c’è una parte di me che fa resistenza perché tradurre le emozioni in linguaggio è sempre una cosa delicata e soggettiva che i pensieri teorici non restituiranno mai. Per questo spesso preferisco che a parlarmi d’amore siano le letterature e le arti. Essere giudicati, travisati, derisi per una scelta di vita basata sull’amore, giustificarsi per il fatto di amare come si sceglie di amare, in tutti i casi e riguardo a tutte le situazioni per cui si può applicare questo discorso, è una cosa tremenda, che va oltre le capacità di analisi, che devasta emotivamente. Per questo spesso occorrono spazi emozionali e non solo cognitivi per affrontare queste cose.
Anche se a volte forse basterebbe l’ironia per smascherare i tabù. «Le persone che ci stanno intorno non solo hanno la facoltà di approvare/disapprovare una nostra relazione, ma anche quella di facilitarne o intralciarne concretamente la pratica. Questo potere, in forme e misure diverse, appartiene ai familiari, agli amici, ai colleghi, al medico di famiglia o allo Stato tanto quanto agli avventori di un bar […] cercare di pubblicizzare a ogni piè sospinto la propria non-monogamia serve soltanto in parte a fugare le paure di chi ci sta intorno, e ha in più lo svantaggio di costringerti a discutere delle tue scelte in ogni momento e anche con dei perfetti sconosciuti. Di fronte a un caso così esotico, infatti, non è raro che gli astanti perdano ogni discrezione e si sentano autorizzati a entrare anche molto pesantemente nel merito della vita intima dell’interlocutore/interlocutrice»17.
Tutto sommato, la logica stigmatizzante descritta non è poi così diversa dal “se l’è cercata vestendosi in maniera seducente”: sei tu che te le cerchi le sofferenze, sei tu che sei voluta o voluto uscire dai binari. Ma spesso le persone, a volte anche le più vicine, sanno poco o niente delle tortuosità dei propri personali binari. Per questo ci vorrebbe una formazione all’apertura emotiva che insegnasse a parlare di sé o, come diceva Virginia Woolf ne «Le tre ghinee»18, una nuova scuola che insegni «l’arte dei rapporti umani, l’arte di comprendere la vita e la mente degli altri». Forse riusciremmo finalmente e veramente a praticare nelle nostre vite l’amore libero: libero dalle dipendenze, libero anche dall’oggetto dell’amore stesso, libero da paure sociali e libero…dalla mente. Una mente che spesso funziona come poliziotto delle nostre emozioni, invece che fonte di nuove idee per fare un mondo migliore. Questo testo ci ha provato, a dare il suo contributo, e secondo me lo ha dato. Ma noi, nelle nostre vite, ce la stiamo facendo?
INDICE
- Introduzione / Gaia Giuliani, Manuela Galetto, Chiara Martucci
- Dell’amore trans / Porpora Marcasciano
- The Love World: autonarrazioni a confronto (1993-2013) / Chiara Martucci e Gaia Giuliani
- Al di là del legame biologico: fare famiglie non-etero tra questioni di trasparenza e scambio di materiali riproduttivi / Laura Fantone
- Decolonizzarsi dalla coppia: una ricerca etnografica a partire dall’esperienza del Laboratorio Smaschieramenti / Alessia Acquistapace
- La ricercatrice vulnerabile: percorsi narrativi di co-costruzione di genere, sessualità e dis-abilità / Elisa A. G. Arfini
- Dentro e fuori dal campo: negoziare sessualità e identità nella ricerca empirica sul sex work / Giulia Selmi
- Fare la Differenza “a partire da sé”: riflessioni sul lavoro della Rete Maschile Plurale / Krizia Nardini
- Da Anna Bolena a Patrizia D’Addario: appello per altertipi / Chiara Bassetti
- Mutamenti del corpo di genere : riflessioni sull’intersessualità / Daniela Crocetti
- Mossi dal desiderio: tracce di mobilità queer nel corso del Novecento / Laura Schettini
- Lavoro, affetti, “flexiqueerity”: per la critica dell’economia politica degli affetti queer / Cristian Lo Iacono
- Il dispositivo etico dell‘I Like: desiderio, godimento e amore ai tempi di Facebook / Mino Degli Atti
Assemblaggi affettivi : l’amore al tempo del quantoqueer / Liana Borghi
L’IMMAGINE IN APERTURA è di Frida Kahlo
1 M. Galetto, G. Giuliani, C. Martucci (a cura di), L’amore ai tempi dello tsunami. Affetti, sessualità, modelli di genere in mutazione, Ombre Corte (Vr 2014)
2 Op. cit., pag. 12
3 Op. cit, pag. 21
4 Porpora Marcasciano, Tra le rose e le viole. La storia e le storie di transessuali e travestiti, Manifestolibri (Roma 2002)
5 L’amore ai tempi dello tsunami, cit., pag. 38
6 Op. cit, pag. 44
7 Op. cit, pag. 46
8 Op. cit, pag. 42
9 Op. cit, pag. 40
10 Op. cit, pag. 51
11 Op. cit, pag. 53
12 Op. cit, pag. 62
13 Op. cit, pag. 57
14 Op. cit, pag. 73
15 Brigitte Vassallo, “Per una rivoluzione degli affetti”, qui: http://perderelnorte.com/polyamor-2/per-una-rivoluzione-degli-affetti/
16 L’amore ai tempi dello tsunami, cit., pag. 76
17 Op. cit, pag. 81-82
18 Virginia Woolf, La tre ghinee, Feltrinelli, Mi 19923 (Londra 1938)