Dossier FS 16 – La Mappa del Futuro 3
3. Il movimento degli anni ‘80 (autore: Giovanni De Matteo)
Facciamo un passo indietro. Se Neuromante è il titolo che sancisce la definitiva affermazione del cyberpunk e di una intera generazione di autori (Pat Cadigan, Rudy Rucker, Lewis Shiner, John Shirley, Tom Maddox, Paul Di Filippo, Marc Laidlaw, James Patrick Kelly, pur con diversi gradi di coinvolgimento), non si deve dimenticare che due anni prima quello che sarebbe diventato il guru della comitiva aveva dato alle stampe un’opera forse esteticamente meno compiuta, ma capace di rivelarsi sul lungo periodo (come vedremo) altrettanto influente dell’esordio di Gibson.
Parliamo de La Matrice Spezzata di Bruce Sterling (Schismatrix, 1982, trad. Giampaolo Cossato e Sandro Sandrelli, ultima edizione: Mondadori, 2006). Modificandosi per affrontare la frontiera spaziale, l’umanità si è evoluta in una civiltà post-umana interplanetaria che ha ormai colonizzato l’intero sistema solare, dall’orbita terrestre alla cintura degli asteroidi, dalle valli marziane alle lune dei giganti esterni. La Matrice Spezzata è il nome di questo scenario, in cui dell’antica umanità terrestre sopravvive solo un ricordo che si fa di giorno in giorno più labile. I nuovi uomini del XXV secolo sono scienziati, artisti, diplomatici o mercanti che vivono in habitat spaziali e hanno abbracciato una delle due dottrine dominanti: quella dei Plasmatori, con la loro capacità di manipolare geneticamente gli organismi viventi per modificarne le caratteristiche, o quella dei Mech, che invece si affidano alla tecnologia protesica degli innesti cibernetici per potenziare il proprio corpo e amplificarne le facoltà. I rapporti tra le due parti sono tese e l’iniziativa commerciale – rilanciata dal contatto con una civiltà aliena interessata a scambi e investimenti nel sistema solare – è condizionata da un clima da guerra fredda su scala interplanetaria. Di generazione in generazione assistiamo alla progressiva disgregazione di questo già complesso sistema, con l’emersione di nuove correnti politiche, nuove linee di pensiero e nuove spinte che portano all’ulteriore frammentazione della Matrice in cladi e fazioni.
Sostenuto da una vocazione anarchica sovversiva, questo romanzo barocco è solo una parte del ciclo che attraverso altri cinque racconti dipinge l’evoluzione di un credibile scenario politico futuro dell’umanità. E, come recitava la quarta di copertina dell’edizione che la Nord riservò alla raccolta in volume dell’intera saga (1995), si configura come “uno dei più brillanti e originali tentativi di immaginare il futuro, il capolavoro che ha rivelato le vere potenzialità della fantascienza cyberpunk”.
Che qualcosa in quegli anni fosse nell’aria, lo dimostra d’altro canto anche Superluminal di Vonda N. McIntyre (1983, trad. Salvatore Proietti, Armenia, 2008). Biotecnologie, conflitti sociali, nuovi mezzi di comunicazione e nuove lingue, oceanografia e lampi di matematica. Tutto questo e molto altro ancora è possibile trovare in un romanzo sorretto da una vocazione universale (mimetica, diremmo oggi, capace di infrangere le barriere dei generi coniugando romance, avventura spaziale e fantascienza) e al contempo sorprendentemente in anticipo sui tempi, in cui convivono dirigibili e viaggi iperluce, supertecnologie, cyborg e cetacei intelligenti. Una scorribanda folle in cui si assapora il gusto della fantascienza migliore, a firma di una scrittrice versatile e immaginifica.
Proseguiamo questa parentesi negli anni del cyberpunk per continuare a parlare di science fiction al femminile. Nel 1984, anno che giustifica il suo ruolo di ideale crocevia in questo viaggio, la scrittrice e critica inglese Gwyneth Jones dà alle stampe Pazienza divina (Divine Endurance, trad. Flora Staglianò, Armenia, 2008), che anticipa nell’attenzione verso i temi della bioetica la sensibilità di molta fantascienza successiva: in un mondo devastato e caduto in disgrazia dopo che il progresso tecnologico ha sfiorato vette inconcepibili, due creature sintetiche (una gatta-robot dai poteri quasi magici e una ginoide adolescente) intraprendono un viaggio alla ricerca del proprio posto nel nuovo ordine delle cose.
Della pluripremiata Connie Willis segnaliamo una novella distopica particolarmente significativa: L’ultimo dei Winnebago (The Last of the Winnebagos, 1988, trad. Roberto Chiavini, ultima ed.: Delos Books, 2008), vincitrice dei premi Hugo e Nebula, un cupo affresco di una società futura in pieno collasso ambientale (un virus ha sterminato tutti i cani del pianeta, gli Stati Uniti sono in balia di una crisi idrica), alle prese con una riduzione progressiva delle libertà civili. Molto apprezzata per il tono leggero delle altre sue opere, nel solco del racconto Guardia antincendi (Fire Watch, 1982, trad. Antonella Pieretti, ultima ed. in I tempi che corrono, Mondadori, Urania Millemondi, 1998), vincitore dei premi Hugo e Nebula per il miglior racconto dell’anno, la Willis svilupperà a partire dagli anni ’90 un ciclo incentrato sui viaggi nel tempo da parte di un’accademia di storici del futuro, che grazie alla tecnologia del XXI secolo possono analizzare in presa diretta gli eventi al centro dei loro studi: ne L’anno del contagio (Doomsday Book, 1992, trad. Annarita Guarnieri, ultima ed.: Nord, 1996), che vinse i premi Hugo, Nebula e Locus, la destinazione è il Medioevo della Peste Nera, in To Say Nothing of the Dog (1998, ancora inedito in Italia), premio Hugo e premio Locus, l’Inghilterra Vittoriana; nel 2010 è uscito il romanzo doppio Blackout / All Clear, che torna all’ambientazione del racconto originario, ovvero i drammatici giorni della Battaglia d’Inghilterra e dei raid aerei della Luftwaffe su Londra, e che è valso all’autrice una nuova tripletta ai premi Hugo, Nebula e Locus.
Con Cybergolem (He, She and It, 1991, trad. Andrea Buzzi, Elèuthera, 1995) Marge Piercy dimostra la natura tutt’altro che occasionale della sua attitudine all’immaginario di genere e si aggiudica l’Arthur C. Clarke Award. Alle prese con una rilettura cyberpunk dell’antica leggenda ebraica, la poetessa e romanziera americana, nonché attivista per i diritti civili, molto amata dal pubblico e incensata dalla critica, coglie l’occasione per tracciare uno scenario distopico in cui far confluire le ansie del presente, legate ai rapporti tra i generi, alla difesa dell’ambiente e a una politica economica votata unicamente al profitto. In un’America post-apocalittica, le mire di dominio delle multinazionali minacciano una comunità di creativi hi-tech, un cyborg rappresenta la loro ultima possibilità di difesa, una donna s’incarica della sua educazione sentimentale.
Riprendiamo quindi il discorso sul cyberpunk. Del 1986 sono le due antologie più significative del decennio.
La notte che bruciammo Chrome (Burning Chrome, trad. Delio Zinoni, Mondadori, 1999) raccoglie dieci piccoli capolavori di William Gibson, forse l’apice più alto della sua produzione dopo Neuromante. Istantanee dallo Sprawl, foto-ritratto olografiche della sua famiglia di pirati del cyberspazio, corrieri mnemonici, esperti in defezioni, astronauti dimenticati in orbita, artisti del simstim e transfughi, emarginati, reietti. I paradisi artificiali generati dalla droga o dalla consolle sono il rifugio temporaneo di ogni sottocultura tecno-criminale e questi alienati consenzienti non fanno eccezione, pronti a ritagliarsi nell’illusione lo spazio vitale alla sopravvivenza, ma inesorabilmente obbligati a fare i conti con la vita di tutti i giorni.
Mirrorshades è l’antologia-manifesto del cyberpunk, curata da Bruce Sterling (edizione italiana a cura di Daniele Brolli e Antonio Caronia, ultima ed.: Mondadori, Urania Collezione, 2003), che si pone come documento programmatico della nuova generazione di scrittori di fantascienza, interpreti di una sensibilità emersa lungo gli anni ’80, tutti con le carte in regola per sondare il domani tastando il polso al presente. Racconti duri o immaginifici, cupi o stravaganti, accomunati da una marcata tendenza anticonformista. Il futuro visto attraverso gli occhiali a specchio, per recuperare il motto di Sterling, offre una sintesi ideale della nuova SF che andava ridefinendo in quegli anni i confini del nostro immaginario.
Di autori prossimi al cyberpunk vale la pena stilare una carrellata di titoli del tutto personale e non esaustiva (per maggiori dettagli rimando agli articoli di Salvatore Proietti “Intorno al cyberpunk”, apparso originariamente sulla rivista Acoma nel 1998, poi ripubblicato nel 2002 da Intercom http://www.intercom.publinet.it/2002/cyberpunk.htm, e “Ripensando al cyberpunk”, pubblicato da Delos SF n. 96, nel 2005: http://www.fantascienza.com/magazine/rubriche/6844/ripensando-al-cyberpunk/ ). John Shirley, texano eclettico, capace di spaziare dall’horror al thriller, con occasionali capatine nel fumetto e al cinema (sua la sceneggiatura della versione cinematografica de Il Corvo, per la regia di Alex Proyas), dà alle stampe nel 1980 La musica della città vivente (City Come A-Walkin’, 1980, traduzione di Vittorio Curtoni, ultima ed.: Mondadori, Urania Classici, 1996), che trasfigura molte delle tematiche che confluiranno organicamente nel cyberpunk, a partire dall’ambientazione metropolitana per arrivare fino al controllo economico e sociale delle masse; la sua è una fantascienza sempre politicamente impegnata, come dimostra il trittico A Song Called Youth (formato dai romanzi Eclipse, Eclipse Penumbra, Eclipse Corona, rispettivamente del 1985, 1988, 1990, tutti editi da Urania), anche se forse la dimensione ideale della sua scrittura è quella del racconto, come dimostra l’ottima riuscita di Freezone, incluso in Mirrorshades. Nella sua trilogia del Budayeen, George Alec Effinger ci proietta nei bassifondi di una immaginaria metropoli mediorientale, con l’inedita trovata di un universo arabeggiante intriso di tecnologie avveniristiche a fare da sfondo a storie di stampo hard-boiled: L’inganno della gravità (When Gravity Fails, 1987, già pubblicato dalla Nord con il titolo alternativo di Senza tregua, trad. Maria Cristina Pietri, ultima ed.: Hobby & Work Publishing, 2007), Fuoco nel Sole (A Fire in the Sun, 1989, già pubblicato dalla Nord come Programma Fenice, trad. Maria Cristina Pietri, ultima ed.: Hobby & Work Publishing, 2008), La guerra di Marid Audran. Esiliato dal Budayeen (The Exile Kiss, 1991, trad. Maria Cristina Pietri, Nord, 1996).
In Settore Giada (Life During Wartime, 1987, tradotto da G.L. Staffilano, Mondadori, 1989), Lucius Shepard ci conduce nelle spire di una guerra sporca combattuta in America Latina e raccontata nei toni ispirati del realismo magico. Ambientazione e temi già toccati nel racconto Salvador (recentemente ritradotto da Marzio Tosello e ristampato nella raccolta Il meglio della SF. L’Olimpo dei classici moderni, Urania, 2008), uno dei vertici della fantascienza degli anni ’80 che già prefigura le doti di un autore che negli anni seguenti avrebbe saputo regalarci altre opere fondamentali.
Non propriamente cyberpunk, sebbene accomunato ai “neuromantici” da una chiara convergenza di sensibilità, a partire dall’ascendenza dickiana, è K.W. Jeter: ne parleremo più avanti a proposito di quello che a mio avviso è il suo romanzo più riuscito, ma qui vale la pena citare il controverso Dr. Adder (1984, trad. Fabio Zucchella, Fanucci, 1996), con un plot metropolitano incentrato sulla figura eponima di un artista-chirurgo cibernetico, dedito a operare modifiche all’apparato genitale delle sue pazienti (puttane, principalmente), con lo scopo di soddisfare le perversioni più astruse di una clientela non più insospettabile; in un’America balcanizzata, il suo più grande rivale è John Mox, predicatore della Video Chiesa delle Forze Morali e padrone dell’Orange County, in realtà reincarnazione mediatica di un feroce e repressivo agente della CIA. La resa dei conti per il controllo dell’Interfaccia, la fascia urbana di confine tra la Rattown di L.A. e la contea di Orange, si combatterà in uno spazio simulato, costruito attraverso l’interazione delle droghe psichedeliche con il circuito dei mass media. Negli anni successivi, Jeter si dedicherà tra le altre cose al prosieguo delle gesta di Rick Deckard, con ben tre diversi sequel di Blade Runner autorizzati ma non memorabili.
Con le dovute peculiarità, Michael Swanwick e Pat Cadigan propongono futuri strettamente imparentati, dominati dal commercio di personalità e dagli intrighi che ne derivano, rispettivamente ne L’intrigo Wetware (Vaccum Flowers, 1987, trad. Giampaolo Cossato e Sandro Sandrelli, Nord, 1988) e nel trittico Mindplayers (1987, trad. Nicoletta Vallorani, Shake, 1992), Sintetizzatori umani (Synners, 1991, trad. Giuliana Giobbi, Shake, 1998) e Folli (Fools, 1992, trad. Giuliana Giobbi, Shake, 2000).
Ma con questi titoli già ci addentriamo nel magma degli anni ’90.