Dossier FS 25 – La fantascienza italiana di Urania
La fantascienza italiana di Urania degli ultimi anni
Di Dario TonaniNiente di brusco. Ma una virata c’è stata, inutile negarlo. La fantascienza italiana degli ultimi anni ha imboccato una strada impensabile (o quasi) solo negli anni 90. L’ucronia e i viaggi nel tempo, tanto cari ad autori come Costantini[1], Fabriani[2], Grasso[3] e Ricciardiello[4] – generazione uraniana di mezzo del panorama di casa nostra – hanno lasciato il posto a quello che lo scrittore scozzese Richard K. Morgan ha definito, con una fortunata sintesi di parole, Future Noir.
Complice una formula che al cinema sembra andare per la maggiore,
anche la science fiction letteraria nostrana approda a pieno titolo nell’era della contaminazione conclamata tra generi attigui, diventa ibrido, crossover di temi, icone e ambientazioni.
E in qualità di “ingrediente” dimostra una vitalità che il mercato invece stenta a riconoscerle, quantomeno in forma pura. E’ il burro, meglio l’olio, di una cucina narrativa che mischia il futuro al presente, le suggestioni della tecnologia più spinta con quelle di personaggi – quando non addirittura di una società intera – che mal si adattano al cambiamento. La partnership tra science fiction e noir si dimostra la più solida, non fosse altro che per la plasmabilità degli elementi che derivano dall’uno e dall’altro genere. Nel 2007, il romanzo del sottoscritto “Infect@”[5] apre per certi versi la via: non si afferma al Premio Urania, ma ci va tanto vicino che l’editor di allora, Sergio Altieri, decide di derogare alla consuetudine di pubblicare solo il vincitore. E da Mondadori arriva persino il contratto per un seguito (“Toxic@”[6]) e per un altro volume (“L’algoritmo bianco”[7]). E’ un segnale, che nel giro di un anno, col vincitore dell’edizione successiva del premio, Giovanni De Matteo (“Sezione Pi Quadro”[8]), si consolida e diventa addirittura un trend, un nuovo per certi aspetti appunto “inimmaginabile” percorso. Arrivano le opere di Francesco Verso[9], Alberto Cola[10], il recente Maico Morellini[11] e persino dell’eclettico Donato Altomare, che con il suo “Il dono di Svet”[12] si lascia suggestionare per una volta dalle atmosfere di una storia a sfondo poliziesco.
Con la nuova infornata di opere altamente “contaminate” la fantascienza italiana sembra allinearsi a quello che accade anche su altri scaffali della libreria: gli steccati tra generi vacillano, le etichette diventano sempre più aleatorie. Non è ovviamente solo il noir a suggestionare con le sue atmosfere, ma la stessa possibilità di attingere liberamente, intrecciandoli, a elementi dell’uno e dell’altro genere. E’ il cinema a sparigliare ovviamente le carte più ancora che la narrativa, ma la pagina scritta mostra di adeguarsi in fretta ai nuovi gusti. Il noir però porta in dote alla fantascienza non solo i suoi protagonisti tormentati, le sue ambientazioni torbide, con una brutta parola “i suoi clichet”, ma una cupezza d’insieme che va a innestarsi perfettamente su ciò che gli autori cyberpunk avevano lasciato in eredità alla morte del movimento: la dirty visual e ancora di più la consapevolezza che la coda “sporca” del futuro sia già tra noi. Le storie di De Matteo, di Verso e di Morellini, come quelle del sottoscritto, ritraggono ambienti sordidi e dark, in cui non è più il volto salvifico della scienza a giocare il ruolo da protagonista, ma anzi al suo opposto la deriva di una tecnologia che sfugge sempre di più alla funzione per cui era stata sviluppata.
Da qui, inutile negarlo, la diatriba accesa da molti lettori proprio in merito alla ridondanza di cupezza della nuova fantascienza italiana, incapace di cogliere gli elementi di solarità di cui il genere era stato portatore in lunghi frangenti della sua storia. Peccato italiano o circoscritto alla sensibilità intrinseca di certi autori?
Il punto, lasciatemelo dire, è che nella fantascienza, chi scrive è spesso assai più giovane di chi legge. Chi lamenta la presenza di derive dark nei personaggi e nelle ambientazioni lo fa perché legato ad altri contesti socio-politico-culturali e alla fantascienza che li riverberava.
Insomma, oggi il futuro è questo! Immaginarlo diametralmente diverso è persino fuori della portata degli scrittori di fantascienza. Quantomeno di quelli che vivono profondamente integrati nel proprio tempo, sentendone ogni giorno sulla pelle contraddizioni e disillusioni…
Non dimentichiamo poi quanto la science fiction ha perso per strada negli ultimi cinquant’anni; per il fatto stesso che i suoi lettori hanno smesso d’interessarsene. Due esempi su tutti: la fascinazione verso l’esplorazione spaziale e l’ignoto, la seduzione del meraviglioso. Pilastri fondanti della fantascienza degli anni d’oro, oggi purtroppo relegati alla sensibilità di pochissimi autori (Paolo Aresi[13], grande appassionato di astronautica, Gianluigi Zuddas[14] e Mariangela Cerrino[15]).
Il fatto poi che si viva letteralmente immersi nella fantascienza – pensiamo non solo al cinema ma a tv, pubblicità, videogames, commodities di tutti i giorni – non agevola certo il compito degli scrittori di genere. C’è un sovraccarico, quando non addirittura una saturazione di sollecitazioni che rimandano al futuro. Risultato: il domani è diventato quasi esclusivamente “visuale” e ha perso ogni attrattiva sul piano della speculazione letteraria. Interessa solo che il futuro ci venga mostrato e non contestualmente raccontato per parole. E’ l’affermazione dello schermo sulla pagina scritta. Scrittori e lettori ne prendano atto, con tutta la serenità possibile. E’ il futuro di oggi, ragazzi!
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[1] “Terre accanto” (Urania 1478, nov. 2003); “Stella cadente” (Urania 1516, nov. 2006).
[2] “Lungo i vicoli del tempo” (Urania 1453, nov. 2002); “Nelle nebbie del tempo” (Urania 1504, nov. 2005).
[3] “Ai due lati del muro” (Urania, 1189, ott. 1992); “2038: la rivolta” (Urania 1403, dic. 2000)
[4] “Ai margini del caos” (Urania 1348, nov. 1998); “Radio aliena Hasselblad” (giu. 2002”).
[5] “Infect@” (Urania 1521, apr. 2007).
[6] “Toxic@” (Urania 1574, sett. 2011).
[7] “L’algoritmo bianco” (Urania 1544, mar. 2009)
[8] “Sezione Pi quadro” (Urania, 1528, nov. 2007).
[9] “E-Doll” (Urania 1552, nov. 2009).
[10] “Lazarus” (Urania 1565, nov. 2010).
[11] “Il Re nero” (Urania 1576, nov. 2011).
[12] “Il dono di Svet” (Urania 1540, nov. 2008).
[13] “Oltre il pianeta del vento” (Urania 1492, nov. 2004); “Korolev” (Urania 1569, apr. 2011).
[14] “I computer dell’apocalisse” (Urania 1528bis, nov. 2007).
[15] “Cronache dell’epoca Mu” (Urania Fantasy 2, ott. 2008).
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Tutte le immagini dedicate ai libri di Dario Tonani. Se lo merita, per quanto ha fatto per sé e per la fantascienza italiana.
Mauro Antonio Miglieruolo
Articolo interessante, grazie per aver postato il link anche nel gruppo FS&D e complimenti a Dario. Dissento, non certo sulla brillante rassegna delle opere in oggetto, ma su parte dell’ispirazione di fondo del pezzo. Che “il futuro sia questo” a me pare un’affermazione non necessariamente condivisibile. Il futuro prossimo non potrà certamente non essere influenzato da un presente cupo, d’altra parte resto convinto che sia l’essere umano a decidere il proprio futuro e non il contrario (senza contare che nella (science) fiction, per definizione, rientra a pieno titolo anche la creazione di mondi -presenti e futuri- alternativi a quello reale di oggi e non solo “consequenziali”).
La FS dei cosiddetti anni d’oro era più positiva di quella attuale pur essendo il mondo tormentato dall’incubo della guerra nucleare, un fantasma ben peggiore di qualsiasi motivo attuale di cupezza e pessimismo. Eppure quegli anni, lacerati da conflitti razziali forse peggiori degli attuali, dall’apartheid come legge di uno stato “occidentale” e (per restare in casa nostra e non solo) dal terrorismo rosso e nero, oltre che dall’incubo del “day after”, si sono scritte opere imperniate su una incrollabile fiducia nell’essere umano e su una visione positiva.
Ed è invece soprattutto oggi, usciti dalla guerra fredda e dall’incubo post-atomico, che profliferano e imperversano scenari post-apocalittici, come ad esempio in The Road e dozzine di altre narrazioni librarie e cinematografiche di simile ambientazione.
Ciò detto, si può comunque concordare sul fatto che, come già accennato, un presente difficile, tormentato nella quotidianità da problemi grandi e piccoli, locali e globali, non possa non evocare visioni a tinte fosche.
Resta la grande differenza fra muovere un protagonista, un personaggio, come pedina/vittima/o addirittura complice di una simile visione, o come ribelle ad essa e ciò che implica per la natura umana. La FS cosiddetta “positiva” non si prefigge necessariamente l’obiettivo di agire sullo sfondo di utopie meravigliose, ma ha il coraggio di parlare di positività di fondo dell’essere umano anche quando questi si muova entro i soffocanti confini di mondi distopici, cupi, violenti e disumanizzati.
La seduzione del meraviglioso è sempre dentro di noi. E forse, narrativamente parlando, implica una sfida più dura della facile descrizione del fallimento dell’umanità.
Resta insomma un punto cardine la visione personale che l’autore ha dell’uomo.
A mio parere – mi trovo a ripetermi – esistono due tipi di SF: una per i tempi migliori e una per i tempi meno buoni. La prima può concedersi (e solleticare) grandi aspettative, ragionare su prospettive di periodo molto lungo, guardare alla frontiera esterna, che sia lo spazio o il tempo fa poca differenza. L’altra nasce invece dal bisogno di riflettere il reale, trasfigurando il presente. Entrambe hanno la loro dignità, ognuno di noi si è ritrovato a compiacerle entrambe e in ogni stagione coesistono, ma con una rilevanza diversa. Penso che la disamina di Dario sia sostanzialmente corretta nel riscontrare una prevalenza della fantascienza più cupa (distopica) a partire dalla seconda metà degli anni Zero, a differenza di quanto accaduto dieci anni prima, sul finire degli anni Novanta. Non è un caso se questi anni sono coincisi con una crisi economica della portata che tutti conosciamo. Sono stati anche gli anni di Obama, ma evidentemente la fiducia nel cambiamento non ha ancora fatto breccia. A differenza degli anni della Guerra Fredda, ci manca un sogno collettivo in cui credere, ad alimentare la nostra spinta per il futuro: allora era lo spazio, frontiera esterna che si prospettava ricca di risorse e segreti. Oggi abbiamo una frontiera “interna”, ubiqua, accessibile con un clic: la rete. C’è molta più fantascienza nelle nostre vite di quanta ve ne fosse negli anni Sessanta, come rileva Dario. E’ il mediascape di Ballard in cui siamo immersi. E come in un romanzo condensato di Ballard, fatichiamo a trovare una via d’uscita. A maggior ragione abbiamo bisogno di SF. Quale dei due tipi, lasciamolo decidere agli autori e ai lettori.
Concordo sul fatto che la SF letteraria nostrana ‘’approdi a pieno titolo nell’era della contaminazione tra generi attigui. Diventa ibrido, crossover di temi, icone e ambientazioni ‘’.
Una coesione quasi ‘’automatica’’ tra science fiction e noir ,che si consolida nel tempo.
Non credo però che il futuro debba necessariamente svilupparsi sull’onda del grigio, se non del nero!
L’esito ‘’grigio’’ del monitoraggio sulle ultime tendenze della fantascienza di Dario Tonani è senza dubbio incontestabile, ma ciò non esclude che si possa recuperare quella solarità primordiale da tempo sacrificata.
Lo schierarsi verso la fantascienza ‘’cupa o dark’’ di Dario Tonani reputo sia scelta soggettiva. Una scelta che rispecchia fedelmente un epoca non facile, la nostra.
Se poi scrittori altri scelgano di estrapolare la solarità recondita di ciascun uomo o di ciascun protagonista di storie, ben venga. La varietà di stile può solamente arricchire il panorama italiano.
Che ci siano altrettanti scrittori ,uomini e lettori ‘’solari’’ del calibro di quelli ‘’cupi’’ già esistenti !
Tutto può coesistere. Senza il nero non si apprezzerebbe il bianco e viceversa.
Se il cinema e la scrittura della fantascienza d’oltrape risulta essere la più incisiva e vincente ,non per questo è necessariamente la migliore.
Il nostro Paese attraversa una crisi che ha radici profondissime ed è inutile negare che ciò incide su tutti i campi della produzione e dell’investimento .
Ovvio che in un paese più ricco ogni pietra diventa diamante.
Gli scrittori italiani hanno saputo e sanno trasformare una pietra in gemma preziosa pur senza la ricchezza dei mezzi .
Sono certa che laddove si vivesse in un momento storico leggermente migliore, daremmo filo da torcere a mezzo mondo.
Claudia Graziani.
Grazie dei contributi, apprezzo molto che la mia riflessione ne abbia stimolate di più ampie. Confesso, la mia è una scelta di campo. Tra SF solare e SF cupa, opto per quest’ultima. La scrittura, del resto, è schierarsi, esporsi, dichiarare apertamente la propria partigianeria e le proprie debolezze. Con onestà. Altro conto è registrare un trend: quello che vede la fantascienza “buia” avere in questi anni un seguito maggiore di quella “solare”. Frutto dei tempi? Credo che sia innegabile. Negli anni Cinquanta e Sessanta si aveva una fiducia quasi mistica nella scienza e nella tecnologia e si enfatizzava il ruolo salvifico di entrambe. A quei tempi i lettori erano molto meno – passatemi il termine – “acculturati” – ed era più facile nutrire da scienza e tecnologia aspettative rassicuranti. Oggi che il futuro pervade ogni poro della nostra pelle e che dissertiamo di nanotecnologie e bosone di Higgs, la preoccupazione cade subito sulle possibili derive negative e pericolose di ogni conquista dell’umano sapere. Dove sono finite le utopie della fantascienza degli anni d’oro? Perché nel buio dell’ignoto non vediamo più seduzione e meraviglia ma solo minaccia e paura?
Trovo molto onesta l’ammissione della scelta di campo da parte di Dario, che è poi coerente con quanto affermavo nel mio primo post, in linea generale, sulla visione personale dell’autore.
A quest’ultima domanda sul perché nell’ignoto si tenda e cercare minaccia e paura e non seduzione e meraviglia, a questo punto, potrebbe risponderci, almeno per quanto lo riguarda, proprio Dario. 🙂
La mia opinione è che non già la crisi economica, che ne è conseguenza, ma bensì quella culturale, a monte, abbia scatenato un pensiero buio che a sua volta la alimenta.
Il comunismo ha fallito, la religione ha fallito, le ideologie hanno fallito. E soprattutto, l’occidente ha fallito, forse più miseramente ancora. In questo vuoto culturale, l’assenza di punti di riferimento può generare desiderio di costruire qualcosa di nuovo, oppure, paura. Personalmente, scelgo la prima opzione…
@ Francesco: non dobbiamo però commettere l’errore di pensare che una visione distopica (o cupa, come l’avete definita tu e Dario) includa solo una pars destruens. Diverse distopie – forse non tutte, ma sicuramente molte – presuppongono anche un’alternativa, magari la prospettano come alternativa, magari invece la contemplano solo in una forma implicita. Ma il desiderio di costruire qualcosa di nuovo, quasi sempre c’è. E quando difetta, sicuramente non manca il desiderio di evitare qualcosa di non altrettanto brutto del nostro presente, ma di addirittura peggiore… Cosa che non si riuscirebbe certamente a fare restandocene con le mani in mano… 😉
Caro X, ne convengo. Il problema è che (troppo, dal mio punto di vista) spesso è così, ovvero c’è solo, o prevalentemente, la pars destruens. In linea generale, quando la distopia non è fine a se stessa e si rende funzionale ad altro, non necessariamente infatti non rientra in una FS positiva. Ad esempio, i romanzi di RK Morgan, che tu ben conosci, a mio avviso contengono elementi di positività pur essendo ambientati in mondi di grande cupezza. 🙂
Motivazioni culturali,economiche, storiche, antropologiche… credo tutto incida in qualche modo sulla produzione, sul ‘efficacia e la redditività del prodotto nostrano,pur se di indiscussa qualità.
Le porte ad una fantascienza ”dark” o ”solare” sono aperte in ugual modo .
Il futuro della scrittura lo costruiscono i singoli ,cupi o solari che siano.
A parer mio la tendenza collettiva (e non soggettiva come quella di D.Tonani) verso una fantascienza ”cupa” è solo frutto di un periodo storico molto,troppo controverso. Ciò non esclude una futura inversione di tendenza collettiva che prescinda gli eventi in itinere.
Quanto a sf/noir aggiungerei i romanzi di Nicoletta Vallorani, fra cui “Il cuore finto di D.R.” (Urania, 1993, che se non erro vinse il Premio Urania); “Dream box” (Urania, 1997, facente parte dello stesso ciclo); “Eva” (Einaudi, Stile libero, 2002) notevole anche per la sperimentazione linguistica; e poi altri racconti della stessa autrice. Negli stessi anni, racconti di altri autori. ciao!
L’utopia negativa, o distopia, nella quale possiamo spesso riconoscere una buona parte dell’attuale sf nostrana (e non solo), a mio modesto parere presuppone due tipi di autore: 1) il catastrofico totale, che immagina una fine irreversibile del mondo o della società se non dell’universo; 2) il catastrofico – come dire – “parziale”, che tra le righe e fra tragedie d’ogni genere lascia spazio a una speranza. Sempre a mio modesto parere, chi scrive questo genere di sf, lo fa non certo per seguire la “tendenza” o per i quattrini (almeno in Italia), ma perche’ “sente” ciò che scrive. Lo fa perché vorrebbe mostrare – attraverso scenari esagerati, estremi, ma “verosimili” in quanto amplificatori di reali tendenze attuali: questa è la notevole arma della sf – a che punto si potrebbe arrivare se non ci affrettassimo a far marcia indietro. Non si può però chiedere allo scrittore di offrire anche la giusta medicina: allo scrittore basta “denunciare”, evidenziare, lanciare il grido d’allarme, mettere in guardia. (Se poi crede di avere anche la pillola giusta ne faccia magari menzione, ma sarebbe meglio di no: potrebbe rovinare tutto:-)) Ma per concludere: se l’autore vuol evidenziare storture, lo fa perche’ vorrebbe che venissero evidenziate ed eliminate. Dunque, sostanzialmente pensa che ciò sia possibile. Altrimenti non scriverebbe un bel nulla. Ergo: anche quando la sf sembra pessimista, in fondo non lo è. E’ – sia pure nel suo piccolo – un grido d’allarme, una chiamata al fronte. Non per nulla Clifford Simak, grandissimo scrittore sf (lo ricordate?) definì la sf come “la narrativa della speranza”. Ciao a tutti.
Concordo pienamente con vikkor.
Ciao Vikkor, mi fa molto piacere che tu sia intervenuto nella discussione. Il tuo romanzo “Il quinto principio” ha la peculiartità di sfuggire a qualsiasi etichetta; tu come lo definiresti con una parola? “Apocalittico”, “sociologico”, “fantapolitico”…? Insomma, spariglia le carte e qualsiasi punto fermo della discussione. Ovviamente lo dico nell’accezione migliore! 🙂
“Non si può però chiedere allo scrittore di offrire anche la giusta medicina: allo scrittore basta “denunciare”, evidenziare, lanciare il grido d’allarme, mettere in guardia. (Se poi crede di avere anche la pillola giusta ne faccia magari menzione, ma sarebbe meglio di no: potrebbe rovinare tutto:-))”. Se ne parlava giusto ieri su FB, Vikkor, proprio sotto il post che segnalava il mio intervento (https://www.facebook.com/?ref=tn_tnmn#!/groups/253736221326628/).
Comunque sia, la penso sostanzialmente come te…