Dossier fs 42 – Aldani 5
di Mauro Antonio Miglieruolo
Il testo che segue è stato scitto nel 2006 per festeggiare l’ottantesimo compleanno di Lino Aldani. Per anni, nell’Oltrepò Pavese, in primavera ci riunivamo intorni a Aldani per fagli sentire il nastro calore e la nostra amicizia. Giornate belle quelle. Alle quali potei partecipare per la generosità di Lino, che mi volle ospitare in casa.
Utilizzai la circostanza per attuare una antica aspirazione, produrre in proprio una fanzine,
impostata secondo criteri personali e destinata a coloro che questi criteri condividevano. Della fanzine (Ottanta) sono stati distribuiti solo due numeri. Altri due, che pure avevo apprestato, per ragioni che la memoria ha cancellato, sono rimasti nel computer.
Poiché l’articolo tratta materia di generale interesse ho ritenuto opportuno riproporlo a un pubblico che spero più vasto. E persino più attento.
Mauro Antonio Miglieruolo
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Omaggio ad Aldani
di Mauro Antonio Miglieruolo
Quando nelle ormai preistoriche collane di Fantascienza (Oltre il Cielo e Futuro) apparvero le prime firme italiane, guidato dal sicuro istinto del lettore devoto e reso esperto dall’assidua frequentazione, tra i molti nomi proposti ne apprezzai immediatamente due: N.L. Janda e Lino Aldani (appresi in seguito che si trattava di una medesima e unica persona).
Anni strani, quelli, gli anni della prima giovinezza, delle prime lotte con la realtà del mondo, delle prime sconfitte, dei primi momenti di consapevolezza e di perdurante frustrazione: gli anni dei primissimi deludenti contatti con il variegato, rissoso mondo degli appassionati di fantascienza. Atterrito dalla violenza con cui si replicava anche al più piccolo sussurro, nonché dall’assoluta indisponibilità a prendere atto dell’esistenza degli altrui punti di vista, di diversi gusti e differenti sensibilità, decisi di tirarmi indietro prima di essere entrato nell’agone. Volli defilarmi rispetto alle diatribe che dividevano il piccolo mondo di allora, che ancor più piccolo si faceva dividendosi e suddividendosi, ognuno attento esclusivamente alla cura del proprio orticello, tributari come eravamo del motto di quel tal Re francese il quale, presago forse della infausta sorte che sarebbe toccata al suo successore, soleva dire: dopo di me, il diluvio. Che importa di quel che mi importa (o dovrebbe importarmi) se posso, sia pure nella solitudine del foglio in cui scrivo, dar conto delle mie ragioni per darmi ragione? Dopo di me il diluvio…
Nel poi degli avvenimenti che trasformarono radicalmente il costume (solo quello purtroppo) della società italiana e mondiale; risucchiato in attività che non erano le mie (le attività proprie a un mezze maniche prestato alla politica e costretto dalle circostanze ad accettare inconcepibile sfide con l’obbligo di vincerle, persino, improvvisandosi guerriero), avrei forse perso del tutto il contatto con l’ambiente e, forse (un forse al quale aggiungo un successivo ed enfatico forse) rotto i ponti con l’attività di scrittore; se Fortuna non mi avesse offerto l’opportunità di conoscere personalmente colui del quale tutti noi oggi festeggiamo l’ottantesimo anniversario (sua la fortuna di averli accumulati, nostro il piacere di invidiarglieli): Lino Aldani.
Aldani. Un nome nella Fantascienza. Un nome su quale varrebbe la pena di soffermarsi per pronunciare le parole spettanti più che a lui, alla sua opera. Un’opera che la chiede , la pretende, la reclama. Un’opera che ha già detto la sua, e proprio perché l’ha detta bene attende solo una “spalla” critica per riprendere a parlare, come può, con parole nuove. Non lo faccio, non in questa occasione almeno. In questa occasione preferisco parlare di più dell’uomo, a partire dall’Uomo, quella strana, singolare entità capace di contenere tante cose, le tante meraviglie (e i tanti orrori), un’entità che si pregia d’espandere la sua giurisdizione a dismisura, ben oltre forse gli stessi smisurati limiti che gli ha attribuito la più audace Fantascienza (vedi Van Vogt, in primo luogo); e che tra le molteplici pretese, accampa, si pregia, di tanto in tanto anche quella di contenere uno scrittore. E qui, concedetemi la digressione, con questa pretesa si attua un paradosso che lascio a altri di commentare: la unicità-singolarità Uomo, che mal sopporta di essere compressa nell’angusto significato fornito dalla parola “scrittore” , una volta che vi entri con un pieno di facoltà, attua la straordinaria impresa di permettere allo parte più piccola (lo scrittore) di rappresentare il tutto: rappresentare un po’ l’uomo che scrive e molto tutti gli altri uomini.
In verità mi astengo dall’inoltrami nell’impresa non perché (o non solo perché) spaventato dall’enorme quantità di cose che occorrerebbe sviscerare per inquadrare in modo soddisfacente, se non compiuto, un’insieme di pagine riempite per durare e non solo per farsi un nome: per riempire le teste e non gli scaffali! Non lo faccio anzitutto perché bisognerebbe prima aver fatto i conti con la nostra storia, la storia della Fantascienza Italiana di cui siamo parte e di cui Aldani è l’asse portante; e subito dopo bisogno di una teoria, sia pure embrionale, che spieghi non solo le ragioni di quel che facciamo ma anche a quali domande inespresse noi rispondiamo. Solo a patto di disporre di una tale teoria e della sua premessa, la radicale resa dei conti con il nostro passato, si può arrivare a elaborare quella manciata di concetti necessari a costituire, pur con le riserve e i distinguo di rito, quel punto di riferimento comune che permetta di dare l’avvio a una riflessione seria su quanto è stato fatto qui da noi e nel mondo; e perciò stesso pensare a scrivere l’altra storia dalla quale mi astengo, la sintesi dell’opera di Aldani, e scriverla per tempo, prima di diventare vecchi e veder diventare vecchi i potenziali fruitori.
Mi si conceda comunque di cogliere l’occasione per specificare un po’ meglio quel che intendo quando parlo di domande inespresse a cui rispondiamo. Non si tratta anzitutto di attardarsi in analisi accademiche sul “committente sociale” (chi lo desideri può tentare di farlo: il rischio è uno solo: la banalità. L’approdo possibile: il vicolo cieco); ma di saper definire (prima individuare e poi definire) le spinte culturali e i fatti materiali che stanno alla base del rinnovamento della letteratura fantastica (che diventa Fantascientifica) operatosi tra ‘800 e ‘900. Si tratta cioè di abbandonare una buona volta (o comunque mettere temporaneamente tra parentesi) le interminabili ruminazioni su che cose é la Fantascienza per approdare all’unico argomento capace di sbrogliare l’aggrovigliata matassa di questa proteiforme tendenza (una tendenza capace di usare di tutto, ogni genere di materiale letterario, anche di scarto, per estendere i suoi domini e accumulare ricchezza tematica): il ruolo svolto dalla Fantascienza nel complesso gioco sociale, le sue funzioni al cospetto delle enormi problematiche poste dal macchinismo e dalla (ininterrotta) rivoluzione scientifica, nonché il rapporto intrattenuto con l’ideologia (che era anche una politica) del cambiamento imperante in tutto il XX secolo (secolo di Grandi Utopie, Grandi Narrazioni, Grandi Speranze travolte dall’ignominio). Solo a condizione di sapere perché siamo al mondo potremo dire bene e molto sul come ci siamo stati e compilare una storia credibile e buona da leggere. Buona per noi e per coloro che non la pensano come noi, che non hanno la medesima passione. Perché allora non parleremmo di noi stessi su noi stessi (non ci parleremmo addosso) ma parlando di Fantascienza parleremmo a tutti dei problemi di ognuno.
Guardiamo ancora più da vicino questo ruolo e queste funzioni. Indico, a chi fosse interessato a un approfondimento, tre punti sintetici di ricerca:
1) il ruolo svolto dal senso del futuro nella introduzione nel senso comune del concetto di cambiamento, forse il più rivoluzionario tra quelli su cui ha insistito la Fantascienza; le istanze che giungevano dalle masse di nuova urbanizzazione e che si trovavano costrette a adeguamenti radicali negli stili di vita, nelle modalità lavorative e nelle relazioni personali;
2) la tecnologizzazione della vita quotidiana e il sorgere della Fantascienza per formulare risposte agli interrogativi che questa tecnologizzazione faceva nascere, ma anche per produrre familiarità, accettazione e persino entusiasmo per tale fenomeno (le umane sorti e progressive);
3) l’Utopia quale sfondo psicologico imprescindibile della Fantascienza, il presupposto per il suo essere come è stata; il suo declino con l’avanzare della filosofia del pensiero debole e il crollo definitivo (speriamo provvisorio) con la caduta del Muro di Berlino (fine della storia, fine delle Grandi Narrazioni e trionfo dell’Unica Grande Narrazione Ammissibile, quella della Panacea di Tutti i Mali Sociali, il Signor Mercato e dell’Unico Dio destinato a non morire: il Dio Danaro). Le conseguenze psicologiche di quell’evento auspicato da tutti, ma che sulle modalità con cui si è realizzato (non per iniziativa diretta delle masse, ma sotto la pressione economica-ideologica del Capitalismo Mondiale) molto hanno riserve da opporre, sono state la liberazione dell’aggressività Euro-Americana, l’espansione senza limiti delle Multinazionali (e relativa tendenza al Monopolio) e appunto l’esaurirsi della residua fiducia nel futuro che, forse ormai unica, la Fantascienza coltivava ancora in sé.
Mi fermo qui, per non rischiare di trasformare un momento di commossa partecipazione quale quello che ci accingiamo a vivere nel più accademico dei convegni.
Dicevo del momento fortunato in cui ho potuto conoscere Aldani. Nel corso dei primi convenevoli di quell’incontro si meravigliò parecchio, lui rassegnato alle abitudini rilassate dei romani, per la cronometrica esattezza con cui mi presentai a casa sua (era la prima volta e temo sia stata l’ultima); non ricordo però quello che ci dicemmo dopo e degli accordi presi. Ricordo comunque che la mia meraviglia fu più grande della sua, meraviglia nel rendermi conto la persona che era. Bastarono poche frasi a convincermi che avevo di fronte una persona sulla quale era possibile fare affidamento, seria e positiva, tesa a costruire piuttosto che distruggere (ammetto volentieri di non essermi mai trovato, nel corso di svariati decenni, a dover diminuire e riformare tale convinzione). Corretto, di grande apertura mentale, in grado di soppesare oltre che mettere a proprio agio l’interlocutore, nel folkloristico panorama della Fantascienza Aldani m’apparve alla stregua d’un mutante, una specie di Marziano, curioso lui di noi come noi lo eravamo di lui (ho conosciuto altre persone serie – ce ne sono, anche nel comune a cui apparteniamo – nessuna con le medesime capacità e contegno).
Di Aldani, all’epoca, conoscevo la manciata di racconti, tutti notevoli, apparsi fino a quell’anno (credo fosse il 1966: ho già detto dell’interesse con cui li avevo letti). La mia ammirazione (ammirazione di neofita) tuttavia si fondava su tutt’altra causa: sulla straordinaria iniziativa editoriale che aveva portato alla pubblicazione della rivista Futuro. A un tale prodotto di qualità, realizzato con materiale prevalentemente Italiano, prima che apparisse, io non avevo mai pensato, né come lontana possibilità, ne come sogno sfrenato (che, d’altronde, si sia trattato di un’impresa straordinaria, palestra per nomi straordinari, lo testimonia il fatto che sia rimasta senza adeguata imitazione). Potete immaginare allora quanta e quale fosse la considerazione che avevo per lui; e il piacere che provai nel constatare che l’uomo era all’altezza della sua opera (e forse una spanna più in alto).
Lo scrittore tornò di prepotenza a occupare la mia attenzione poco dopo, quando ebbi per le mani Quando le Radici, vera pietra miliare della Fantascienza Italiana. Era apparso per i tipi dello SFBC – primo e unico Italiano, credo, ad avere avuto l’onore ci comparire su quella collana. Un romanzo anomalo secondo i criteri di certuni; un romanzo insolito secondo me (non intendo sprecare parole come strepitoso o fantastico o eccezionale che finirebbero solo con il diminuirlo). Insolito perché invece di chiudere le strade, come aveva fatto gran parte della Fantascienza Americana (chiudere le nostre strade), le apriva. Apriva la mente a interpretazioni nuove del genere, apriva lo spazio alla realizzazione di novità peculiari al sentire europeo; e soprattutto rompeva le catene psicologiche che ostavano alla costituzione di altri stili, altri modi di intendere la fantascienza: altra sensibilità, altro impulso creativo. Anche Quando le Radici è rimasto senza imitazioni. Non però senza conseguenze. Almeno per quanto riguarda il sottoscritto, in quanto mi ha incoraggiato a proseguire per la mia strada, intento ai miei scopi, alla mia personale proposta, al mio dovere di migliorarmi per migliorare il prodotto che offrivo ai lettori. Lui lo aveva fatto, perché non anche io? Provarci, almeno…
Che dire di più di un libro? Nulla. A meno di non affrontarne lo studio, impresa che mi intriga e mi inquieta nello stesso tempo. Mi contento qui di ricordare che si è trattato del lavoro più tradotto, apprezzato e recensito della Fantascienza prodotta in Italia.
Le circostanze di quell’incontro furono estremamente importanti per me. Non solo in quanto fu tra diversi con uguale dignità, ma anche in quanto trovai sintonia tra il suo modo di pensare e il mio pensiero in formazione (lui, professore di matematica e io ancora Applicato di III Classe, culturalmente in una fase di puro apprendistato!); e non solo in quanto ebbi la possibilità di sottoporgli il mio primo romanzo, Come Ladro di Notte (Lino s’era preso una quindicina di giorni per la risposta. Me la diede – positiva – già il giorno seguente, con mio grande contentezza e sollievo.); ma soprattutto per i benefici effetti che ebbe su di me la scoperta di una tale personalità tra gli abitanti il Pianeta Fantascienza. Una persona che con le sue qualità e difetti, le sue rapide collere e improvvisi andare al sodo, con quel suo costruire e ricostruire e tenere sempre annodato il filo del discorso (per andare avanti e non per mettere i bastoni tra le ruote al prossimo) ha avuto il suo peso, nel corso del turbolento periodo che va dal 1967 al 1979, nel costituire quel punto di riferimento affinché dopo ognuno dei tanti allontanamenti imposti dagli impegni dell’epoca, seguisse il riavvicinamento: se costruiva lui perché non anche io? A mia misura, a mio modo e coi miei tempi?
Da allora gli anni si sono sposati con gli anni, hanno costruito i decenni, hanno costituito una famiglia allargata che è una vera tribù: 39 anni sono trascorsi, 39 lunghi anni durante i quali ho continuato ad apprezzarlo e, buon per me, sempre meglio conoscerlo. Anni in cui ho appreso cose nuove su di lui, le cose dell’uomo, importanti più dell’editore e forse pure dello scrittore. Ho visto ad esempio, la capacità nel valutare le cose, gli uomini e le circostanze. Ho assistito alla nascita del padre, e alla conseguente eclissi dello scrittore (e poi di nuovo lo splendere del sole). Ho visto la perdurante vitalità, artistica in primo luogo, che gli permette di continuare a imporsi con il suo stile, la sua poetica, le sue storie.
Ma ho già detto che sull’attività dello scrittore non mi inoltro. A che pro’, d’altronde, se non per realizzare quella ricerca sulla Fantascienza a cui ho poco fa accennato? Non è il momento di intraprenderla e non la intraprendo. D’altronde l’opera di Aldani è una di quelle che parlano da sole. Essa testimonia in pieno di se stessa. Neppure più gli appartiene. È di tutti noi, ormai. Con i suoi limiti (e chi non ne ha?), con i suoi meriti (vi è chi non li abbia? Sì, per qualche letterato questa riserva forse può essere avanzata) essa è patrimonio di chiunque voglia pensare e sognare, leggere e agire, andare oltre senza superare i confini dell’arbitrio.
Su quei libri, raccolti ora in un’Opera Omnia dalla Perseo, si è stratificato una tale mole di commenti, interpretazioni, punti di vista, asimmetrie di valutazioni difficile da separare dall’opera stessa; quei libri sono di Aldani, ma già un pochino anche dei suoi lettori e commentatori. Il bambino-libro è cresciuto e procede indipendente nella testa della gente con le sue gambe da adulto.
Ma non solo lui. Con l’opera è cresciuto l’autore, uomo ormai maturo e alle soglie della quarta età. Cresciuto a causa degli anni, ma anche in ragione dell’opera stessa. Si cresce sempre insieme, quando si è scrittori di razza. Si cresce con i propri personaggi, con le pagine che li descrivono, con i libri che li contengono. Anche l’autore dunque procede imperterrito. Procede nell’Oltre Po Pavese, continuando a divertire, insegnare e dare esempio. Procede nel giardino di casa sua con l’incedere materiale dei suoi passi (e l’immagino a volte malinconico, ristretto dalla solitudine a cui condanna – e premia – il contatto con la natura; a volte soddisfatto delle scelte che lo contemplano vivo a vivere nei luoghi che gli competono e gli appartengono). E procede nel mondo intero con le gambe ideali fornite dall’insieme delle sue parole.
Procediamo con lui oggi, godendo di questa giornata che ci vede accomunati nel festeggiare i suoi 80 anni. Buon per lui esservi approdato. Buon per noi che ne godiamo i frutti: che godiamo l’opera sua e l’imminente convivio in cui ci apprestiamo, auspico, a stabilire se non l’amicizia – che richiede tempo – almeno un momento di lieta compagnia.
Buon compleanno, Lino e a rivederci, una volta e molte, per tutti gli anni che il Mistero che ci ha voluti ci vorrà ulteriormente donare.