E adesso? Lo spazio in cui si può lottare
Venezuela, Francia e Messico. Tre scenari molto diversi, che però in queste settimane mostrano con chiarezza, nella loro complessità, dov’è possibile (e dove no) aprire spazi per una lotta politica che cerchi di realizzare i cambiamenti veri e profondi di cui abbiamo bisogno. In alto, dove stanno i governi, il margine di manovra si riduce ogni giorno.
di Gustavo Esteva (*)
Si può ancora nutrire la speranza che in Venezuela potrà essere evitato un bagno di sangue. Non c’è spazio, invece, per sperare che resusciti la “democrazia”. I suoi autodesignati campioni in questi giorni si sono impegnati a seppellirla. Quello che hanno difeso, dentro e fuori il Venezuela, per legittimare un intervento vergognoso, in un paese in cui si sono compiuti tutti i requisiti formali per stabilirla, ha ridotto in poltiglia l’immagine internazionale di un regime la cui vera natura alla fine è apparsa con chiarezza.
Lo stato-nazione è nato come forma politica del capitalismo. Affinché potesse adempiere la funzione per la quale era stato creato, gli fu dato un carattere dispotico… nascosto dietro una facciata “democratica”. Per ottenere un consenso generale venne promosso il nazionalismo, unificando la gente attorno ai suoi simboli. L’immaginario collettivo si appoggiò sulla nozione di “sovranità nazionale”, ereditata dal regime feudale, e sul sentimento patriottico, che non riuscì mai ad occultare il suo carattere patriarcale.
In questi giorni, tutte queste maschere sono cadute. La “difesa della democrazia” in Venezuela altro non è che la ricerca sfacciata delle sue ricchezze. Non possiamo chiudere gli occhi. Siamo tutti Venezuela. Nessun paese è estraneo a questo esercizio dispotico e coloniale della nuova guerra fredda, guidata da una voracità capitalista che ormai non si dissimula più.
Mentre Guaidó realizzava il compito che in questo scenario osceno gli era stato assegnato, è circolato il Manifesto di Commercy lanciato dai gilet gialli, il movimento che da tre mesi in Francia sfida la “democrazia” e si sta estendendo a poco a poco in altri paesi. Non è stata una coincidenza casuale.
Commercy non è lontano dal luogo dove nacque Giovanna d’Arco, e dove ebbe le “visioni” che la indussero a guidare la lotta per liberare i francesi dal dominio britannico. Per affrontare oggi il dominio “democratico” del capitale transnazionale, i gilet gialli chiamano a organizzare dal basso una società altra.
Il manifesto è stato elaborato a partire dalla diversità delle centinaia di assemblee che l’hanno generato. In esse e in molte altre si discute sul sistema rappresentativo, sulle condizioni di lavoro, sulla giustizia sociale e ambientale e sulla fine della discriminazione. Cercano di sradicare la povertà, trasformare tutte le istituzioni, organizzare la transizione ecologica e porre fine all’emarginazione.
Il manifesto ha convocato lo sciopero sperimentale del 5 febbraio. Appoggiato dai grandi sindacati, lo sciopero ha rispecchiato lo spirito del movimento: è stato basato su comitati nei luoghi di lavoro, affinché gli stessi scioperanti avessero il controllo delle azioni dal basso verso l’alto. «Prendiamo le cose nelle nostre mani!», ha affermato il manifesto.
I gilet gialli hanno convocato un’assemblea delle assemblee. Basata su un’organizzazione autonoma e indipendente, cerca di unire tutte le assemblee per “trasformare la società”.
Viene così evidenziata la biforcazione, le traiettorie divergenti de los de arriba, quelli in alto, e de los de abajo, quelli in basso. Metto sulla tavola, in questo contesto, ciò che è transitato nel mio orto elettronico. Mi sono stati inviati messaggi ostili, spesso pieni di invettive, aggressioni e anche minacce, per le mie posizioni di fronte al nuovo governo (messicano, ndr) e allo zapatismo. Ho l’impressione che queste reazioni siano il sintomo di ciò che sta accadendo fra noi.
Un messaggio dal tono gentile mi ha fatto sapere che “molti” avevano smesso di avere fiducia nelle mie analisi perché i miei atteggiamenti verso lo zapatismo non mi consentono di comprendere ciò che sta accadendo. Per molta gente – mi hanno scritto- lo zapatismo ha cessato di essere una guida morale. È stato assente in molte crisi, “lasciando soli” i movimenti… Per rimanere al suo fianco, avrei perso la capacità di comprendere quello che significa il nuovo governo.
Offrire solidarietà agli zapatisti, riconoscere la loro autorità morale o mantenerli come punto di riferimento, significa, prima di tutto, per molti di noi, delimitare lo spazio nel quale oggi si deve condurre la lotta.
Là in alto il margine di manovra si restringe sempre più. I governi nella loro azione si trovano di fronte a limiti sempre più stretti; superarli rappresenta un rischio atroce. Possono compiere azioni spettacolari … però non possono andare molto lontano.
In basso, invece, nelle trincee di ciascuno, dove si costruiscono legami comunitari e si organizzano le assemblee, si stanno realizzando i cambiamenti di cui c’è bisogno. Non è facile. Sembra insignificante di fronte al dispiegarsi delle forze del regime dominante. Ma le iniziative proliferano da tutte le parti. Talvolta lasciano vedere la qualità e la loro portata in azioni piene di immaginazione e lucidità, come quella dei gilet gialli, che alla fine, in questo 5 febbraio, si sono uniti ai gilet rossi degli scioperanti. Così si possono nutrire speranze sensate. Si sta formando, passo dopo passo, la massa critica che renderà possibile la trasformazione di cui abbiamo bisogno.
(*) articolo tratto da Comune-Info