E’ morto Marco (Mark Adin)
Un ricordo – fra le lacrime – e un suo testo
Domenica è morto Marco Peressi. Per chi da tempo frequenta questa “bottega” lui era Mark Adin: con questo pseudonimo ha scritto – dal 2011 al 2013 – ogni lunedì o quasi. Racconti soprattutto ma anche articoli e riflessioni che “catturavano” sempre. Marco/Mark aveva una folle voglia di scrivere (ma anche di narrare, davanti a persone amiche o sconosciute) e sapeva farlo. Al centro c’erano molto spesso i “senza parola”: «emarginati, balordi e ribelli» come li chiamò Danilo Montaldi in «Autobiografie della leggera» (un libro ormai dimenticato ma solo perchè siamo più poveri anzi miserabili, non di soldi ma di sentimenti). E vicini, talvolta intrecciati a loro, ai balordi, c’eravamo noi cioè la generazione benedetta/maledetta del ’68 e degli anni ’70. Come nel post intitolato Guardando oltre – di Mark Adin che trovate qui sotto.
Non è la prima volta – purtroppo – che tocca a me scrivere di amici/amiche, di compagne/i, di persone più che care, quando muoiono. Anche stavolta scrivo fra le lacrime senza sapere se riuscirò a farmi capire. Penso di doverlo a Marco/Mark, di salutarlo così, visto oltretutto che lui ha voluto si sapesse della morte solo dopo la cremazione.
Lo avevo visto a dicembre nella (sua e non sua) Novara e poi nelle Valli Valdesi (di cui si era innamorato, per “colpa” di Malvina). Sapeva di non avere molto tempo però non soffriva (o almeno così mi disse) ed era pieno – più che mai – di idee, voglie e progetti.
Un compagno vero: generoso e intelligente. Sarebbe un posto bellissimo il mondo se ci fossero tante persone come lui. E ce ne sono, certamente: non abbastanza però.
Marco non è morto per “il destino”. A ogni morte di cancro dobbiamo ricordarci che la responsabilità – in misura minore o maggiore – è sempre dei padroni del mondo: sono loro ad avvelenarci ogni giorno. Ed è anche per questo che continuiamo a lottare, contro chi ci sfrutta, ci succhia la vita e fa vivere molte/i di noi nella merda per poi dire “lo sentite anche voi? puzzano”. Io, come Marco e altre/i, per fortuna o chissà per cosa, ho evitato di finire nella merda, nelle galere o nei manicomi (che esistono ancora ma con altri nomi). Però non ho dimenticato chi siamo noi e chi sono loro. E come Marco/Mark ha scritto – a «Marco di Tuscania» – ancora una volta ripeto e urlo: «abbiamo perso, ma la sconfitta non si è mai volta in vergogna e disonore». Molte/i di noi continuano a lottare. Hasta siempre. [db]
Caro Marco di Tuscania,
a te mi rivolgo perché sei come noi di quelli cresciuti nella rabbia, che a testa bassa si son lanciati come arieti e hanno trovato duro.
Scrivo a te perché anche tu fatichi a liberarti di quella capsula coriacea di dolore, che più ti è casa e più ti ci imprigiona. Parlo a te perché mi sembra riconoscere quei moti folli, quelle tempeste di pensieri che vorresti sgorgassero dal capo e invece, come in crolli di dighe, travolgono pietà e ragione senza attenuare il male.
Li conosciamo quei momenti duri, quando il sole, che c’è dentro noi, al calor bianco arde e pure non fa luce, perché il bagliore dei suoi raggi implode e ci consuma.
Io l’ho provato, Marco, il sopravvenire dell’aggressore in forze che ci abbatte, che vince e non ci doma. Piango sommesso chi non ce la fa e conto all’indietro, per non sentirmi solo, ed ogni grido che sento provenire dal buio della notte mi rende forza e unisco, come posso, il mio.
In quei lontani anni abbiamo perso, Marco, ma la sconfitta non si è mai volta in vergogna e disonore.
Ci lascia cicatrici, quello sì: siamo un po’ matti, abbaiamo alla luna, ci commuoviamo come vecchi e ci incazziamo impetuosi, come ragazzi, senza prudenza, porgendo il viso aperto, balliamo intorno al fuoco.
Eppure quell’agitarsi continuo delle nostre idee, quel dolore che ci afferra come morso di animale è diventato il carcere da cui dobbiamo uscire. Andiamo fuori! Non superare il muro ci costerà la morte, non quella che ci aspetta tutti, quella che più temiamo: la morte in vita. Se non oltrepassiamo il muro ci troveranno ormai senza più fiato, ancora presi alla catena, rinsecchiti e vuoti come spoglie di serpi tra le foglie.
Dobbiamo buttare la corazza, Marco, che si ritorni a vivere.
Warren Buffett, il terzo uomo più ricco del mondo, ha detto: “La lotta di classe? Esiste: l’abbiamo vinta noi”.
E noi l’abbiamo persa, fratello, e ci fa male come una tortura, e ci indurisce il pelo, ma siamo ancora in piedi. Nel perdere non c’è nulla di sbagliato, quando si è combattuto. Ci insegna a non sbagliare.
Quante volte mi son sentito solo, quante volte, bestemmiando dio, ho chiamato, quante volte non è arrivata la cavalleria, quante volte sono rimasto come Orlando a suonare l’olifante e a sentire il suono perdersi nel vento e il mio cervello pisciato dalle orecchie in quello sforzo immenso?
Massì, senza retorica: quante volte mi son sentito banalmente un pirla, uno che ci è rimasto, un sopravvissuto ad un passato immemore, un randagio abbandonato in strada?
Io sono qua.
E non c’è niente, in me, che non funziona.
Io come te son solo intriso d’ urla, di quel sangue versato, dei botti nelle strade che fanno fumo acre, dei calpestii, delle violenze inflitte, insomma di tutto ciò che prende parte al mondo. Stiamo vivendo, Marco, stiamo vivendo.
C’è tanta libertà che ancora si dispiega, come l’abbiamo intesa e la intendiamo, orgogliosa e antagonista, che ha come bandiera il “NO” detto al potere. Possiamo andare oltre, attraverso i nostri sguardi ancora troppo affollati di fatti e di persone che non ci sono più. Dobbiamo ricorrere a un buon metabolismo e detossificarci, sciogliere il nodo in gola.
Nelle aggregazioni spontanee, nei centri sociali, nei nuovi movimenti, sul web, nei sindacati autentici, nei blog come questo, dalle cui pagine traluce la semplice, quotidiana voglia di restare umani, come diceva Vittorio, c’è il germe di una rinnovata spinta che fatica, è intermittente, esita spesso, ma resiste. Ci dia la forza per lottare, ma anche per essere felici nella condivisione delle nostre vite, che la felicità ci serve.
Prima o poi, la consapevolezza aiuterà a toglierci di dosso tutta la crosta fatta di sedimenti rabbiosi e di rancore, a rinnovare la Liberazione, per non sentirci più, mai più, ostaggi del dolore.
Il mio più forte abbraccio, Marco, a te per tutti. Uscirne fuori non ci farà che bene: saremo ancora pronti a “levare, alta, la fronte”.
Mark Adin
Care amiche ed amici, oggi concludo il viaggio su questo amato blog. Come in tutte le esperienze che iniziano e finiscono, prima o poi, bene passar la mano.
Dire che è stato bello pare poco. Ci siamo conosciuti, annusati, respirati, sino ad arrivare a un passo dal bacio in bocca oppure il pizzicotto.
Mi fermo qui dopo due anni e mezzo, ligio all’appuntamento del lunedì alle dodici con qualsiasi tempo. Ora ho bisogno di guardare ad altro: è nomadismo organico e io sono osservante.
Vi abbraccio con amicizia, fraternità ed affetto e ringrazio soprattutto Daniele, trafficato crocevia umano e biblioteca itinerante, ma non solo: anima e amico.
Una per una e uno per uno, singolarmente, col tempo necessario per ciascuno, dico grazie a tutti quanti voi, perché mi mancherete.
Il treno parte, noto è il binario e sconosciuta la prossima fermata, mi affaccio al finestrino e spero di non essere dentro a una scena del film “Amici miei”. Se mai lo fossi, continuate a fare i generosi: menate con dolcezza, meglio gli schiaffi vostri dei baci, avvelenati, del potere.
Stay human, restiamo umani, oggi soltanto Mark.
Fra i tanti post di Mark questo è rimasto uno dei più letti e linkati: Lettera a un’amica su Calabresi, Pinelli e noi
Sui suoi libri ecco 3 recensioni: «Mole Skin» di Marco Peressi, Ancora su «Mole Skin» di Marco Peressi e Marco Peressi: «Madonna di Comerzo»
NELLA FOTO QUI SOPRA Marco/Mark è con Paolo/Pabuda; un’amicizia (e più) nata su questo blog-bottega.
Troppo tardi, il dolore espresso da Daniele, mi ha spinto a chiedermi di questo suo amico “bottegardo” che, nella mia ignavia a-narrativa di lettore, finora era stato per me solo un autore ricorrente.
E qui è avvenuto l’aggancio: ho letto un suo articolo scelto quasi a caso (trattava dei Valdesi) e mi ha trasmesso subito una umanità intensa. Non contento, ho cercato (digitando nome e cognome veri) per saperne di più e ho trovato alcune recensioni dei suoi libri, scoprendo così una quasi-affinità: assicuratore di giorno ( https://www.lastampa.it/2019/01/15/novara/addio-a-marco-peressi-lassicuratore-novarese-scrittore-per-passione-uTSVkzPpXX5LcTXNUVktyM/pagina.html ) e scrittore per passione. E, si sa, non c’é nulla di più contagioso della passione. Ecco quindi il “mio quasi”: bancario per 37 anni e paletnologo per passione (da quasi 50); durante il mio decennio di impegno sindacale avevo coniato questo mantra “mi impiego ma non mi spezzo”. Al suo immortalissimo “mi mancherete” possiamo rispondere “torneremo a leggerti più di prima”.
Infine un “lapsus” digitale: mentre cercavo recensioni sui suoi libri un qualche inghippo on-line mi ha fatto ricordare – con un video – un vecchio (1976) monologo musicato di Giorgio Gaber :
https://www.youtube.com/watch?v=lxhoOytPkKE
Rivedendolo e riascoltandolo, mi permetto di proporvi di condividerlo, quasi in forma di simposio musicale funebre, come facevano gli antichi, etruschi e greci.
lo conosco adesso, non lo avevo conosciuto in bottega, forse perché sono arrivato da pochi anni, forse perché sono stato distratto, cercherò i suoi libri e leggerò i suoi scritti, grazie Daniele
un vuoto. non ci siamo conosciuti se non per i suoi scritti. ma ogni vuoto di daniele è un poco vuoto mio (mio marito a parte)
Fratello mio Barbieri,
mi verrebbe da mandarti affanculo per avermi dato stamattina questa orrenda notizia. Invece, ti ringrazio per avermi fatto conoscere Mark, in modo che diventassimo amici. Ti abbraccio. Vorrei consolarti. Non so da dove cominciare. Meglio che niente, ti racconto un ricordo che ho io: una delle belle cose che Mark tentò di spiegarmi – durante un viaggio sulla sua macchina Novara-Milano-Bologna per un incontro coi/colle bloggari/e della Bottega (prima che si chiamasse così, mi pare). Tentava di spiegarmi l’utilità di imparare e ripetere a memoria le poesie. Una specie di magia voce-metrica-ritmo-respiro che aiuta l’essenza poetica ad arrivare al cervello – senza necessariamente afferrare ed elaborare il senso di ciascun vocabolo – in modo molto più efficace, potente che non attraverso la semplice lettura.
Poi m’ha insegnato molte altre cose, anche senza dirmele. Le so ma ora non me le ricordo.
Quindi, per ora, comincerò con lo studio a memoria di qualche poesia.
A pranzo farò un brindisi alla memoria di Mark e alla nostra resistenza faticosa.
Una mente lucida Mark, un fratello di cui sentiremo la mancanza, gli avevo scritto da poco ma non avevo avuto risposta, fatto inusuale per lui, un gentiluomo sempre molto attento.
Stava combattendo altre battaglie dunque, lui che sapeva spendersi per battaglie etiche e di grande valore civile. lo accompagni la luce, se la merita tutta. buon viaggio Marco.
So the sun shines on his funeral
Just the same as on a birth,
The way it shines on everything
That happens here on Earth.
It rolls across the western sky
And back into the sea
And spends the day’s last rays upon
This fucked-up family, so long old pal.
The last time I saw Alice,
She was leaving Santa Fe
With a bunch of round-eyed Buddhists
In a killer Chevrolet.
Said they turned her out of Texas, yeah,
She burned them down back home,
Now she’s wild with expectation
On the edge of the unknown.
Singing oh, it’s enough to be on your way,
It’s enough just to cover ground,
It’s enough to be moving on.
Home, build it behind your eyes,
Carry it in your heart,
Safe among your own.
They brought her back on a Friday night,
Same day I was born.
We sent her up the smokestack, yes,
And back into the storm.
She blew up over the San Juan Mountains,
She spent herself at last.
The threat of heavy weather,
That was what she knew best.
Oh, it’s enough to be on your way,
It’s enough to cover ground,
It’s enough to be moving on.
Home, build it behind your eyes,
Carry it in your heart,
Safe among your own.
It woke me up on a Sunday,
An hour before the sun.
It had me watching the headlights
Out on highway 591.
Till I stepped into my trousers,
Till I pulled my big boots on,
I walked out on the Mesa
And I stumbled on this song
Oh, it’s enough to be on your way,
It’s enough just to cover ground,
It’s enough to be moving on.
Home, build it behind your eyes,
Carry it in your heart,
Safe among your own.
So long, old gal.
https://youtu.be/l0j0xPq6mZ4
La traduzione del brano che James Taylor scrisse in memoria del fratello…
https://youtu.be/k_7QjwocuU8
Grazie Daniele.
Per me non era solo Mark Adin, per me era la mia gioia. L’ho accompagnato al Treno e ci è salito sorridendomi dolcemente, con tutto l’amore che mi ha saputo offrire in questi anni. Ora aspetto che torni a prendermi, spero non mi faccia aspettare troppo…
Da mesi non riuscivo a trovare il tempo per entrare a leggere in Bottega, per questo solo oggi, grazie a Malvina, ricevo la notizia che non immaginavo assolutamente, che non mi aspettavo, che non trovo giusta. E soprattutto che, pur essendo in contatto, Marco non mi ha mai fatto presagire. Marco, che ho avuto la fortuna di conoscere e abbracciare in una serata di amore circolare che ha sigillato la nostra amicizia e quella con Daniele, Pablo e …tutti noi (tempi d’oro per me). Mi sento fortunata per avere ricevuto il suo ultimo romanzo, per averlo letto e come sempre ad ogni suo scritto, apprezzato. Resta nelle parole, nelle osservazioni acute che non dimentico, nella semplicità che avevo imparato ad apprezzare in lui. Resta, in qualche modo resta e non so neppure spiegare in quale modo e misura.
Abbraccio circolare e sempre d’amore a tutti voi, spero in futuro di essere più presente.
c.