È proprio «Per capire quello che sta succedendo»

di Giovanni Carbone

Un libro si può incontrare per caso, in una libreria, una biblioteca, una presentazione. Qualche volta in un luogo preciso, cui magari lo collega un fil rouge attraverso il tempo. Il luogo è sospeso sul «paese in forma di melograna spaccata», come direbbe Gesualdo Bufalino, quel «Pizzo Belvedere» che domina i fasti da cartolina della Modica di giù, a due passi da dove è nato Pippo Avola. È lui l’autore di «Per capire quello che sta succedendo» (Scripta edizioni, Verona), un libro già selezionato per il «Premio Pagliarani», una summa in versi e lettere della vicenda umana ed artistica, del pensiero di Pippo Avola.

Gallerista, editore eclettico, illuminista, intellettuale militante, Pippo Avola – tra gli animatori del Cineclub «Il Confronto» di Modica – lascia la sua città per Roma alla fine degli anni ’60, convinto dal pedagogista Luigi Volpicelli. Nella capitale intreccia rapporti di amicizia e culturali con alcuni tra gli esponenti più in vista dell’avanguardia artistica, quelli di Forma 3, ad esempio, entra pure a far parte del «Gruppo Alzaia» e del «Gruppo Altro» dove incontra Achille Perilli, Alberto Bardi ed il vecchio amico modicano Giovanni Puma. Nei primi anni ’70 si trasferisce a Verona, dove inaugura la sua Galleria e fonda la casa editrice «Edizioni Linea 70». Ospita mostre e realizza preziose cartelle di acqueforti e acquetinte di Emilio Vedova, Giulio Turcato, Piero Dorazio, Emilio Scanavino, Eugenio Carmi, pubblica scritti di Paolo Volponi, Angelo Maria Ripellino, Elio Pagliarani, Emilio Villa, Edoardo Sanguineti, Carlo Castellaneta e Umberto Eco. Pippo Avola supera la manichea concezione del mondo dell’arte come ambiente neutrale, lo rende strumento potente ed innovativo per una prospettiva concreta di cambiamento sociale e culturale. In altre parole gli restituisce una natura politica, nel significato etimologicamente più puro del termine, dal greco Polis, che mai prescinde dai primigeni concetti di dialettica, critica, partecipazione collettiva. Se ne va presto, Maria Grazia Bruno (sua moglie, che firma la prefazione estremamente esplicativa del libro) e la figlia Ulyana trovano i suoi, le sue lettere, scartabellando nel grande archivio della galleria e della casa editrice. Non ne conoscevano l’esistenza, erano davvero ciò che appaiono immediatamente alla lettura, un dialogo intimo di Pippo con sé stesso, una sorta di dialogo poetico con il suo mondo, dove il sogno, la rabbia, la disillusione si incontrano con l’analisi, evocano una prospettiva, si aprono ad un orizzonte altro e progressivo. Quei versi, talora – nelle prose poetiche è evidente una ricerca precisa in tal senso – si dispongono a costruire geometrie, immagini, suoni, superano la concezione archetipica della poesia, diventano figurazioni evocative. La poetica della tradizione è solo un ricordo, proprio come, in quegli stessi anni, si consuma la rottura tra il figurativo di Guttuso e le prese di posizione eterodosse delle avanguardie che Pippo Avola incontra con la sua esperienza romana. Non c’è dubbio che Avola conosce bene gli «americani», Gregory Corso si scorge in prima battuta, ma ci sono cose che chiaramente non sono uscite indenni da anni di probabili letture fancofortesi. I versi, evocativi, hanno un lirismo ed un’apertura che è difficile ritrovare anche in poeti assai più noti e sgamati. C’è la disillusione, appunto, per quei tempi di conflitti dagli esiti non scontati, la prospettiva di liberazione anelata e tradita delle masse oppresse («I volti degli uomini non hanno espressione i loro occhi non hanno/ espressione i volti degli uomini si specchiano negli atti i loro atti/ non hanno espressione le mani degli uomini hanno pieghe hanno rughe…» ), per quel cambiamento necessario che non arriva, («Stanco./ Un tunnel di sogni/ e di niente./ Il mio treno/ è/ deragliato./ Piccolo/ ultimo/ treno./ Amen). Ma c’è anche quel ricordo della terra che ha lasciato, quella Sicilia che appare bella e scontata nell’immaginario collettivo che si dà convegno in versi tipici, incapaci – o assai poco disposti, quietamente – a coglierne immobilismo e contraddizioni:

«Qui

beccano sterco

gli uccelli

qui

cantano la morte

le cicale

le accompagna

la solitudine

lontana di zufoli

tristi

senza tempo.

Qui

ancora sognano

la promessa messianica

di un secondo Avvento

e muoiono

di zolfo e di rinuncia.

I giovani migranti

hanno già visto

il terzo avvento» (Meridione)

Non mancano mai le pulsioni verso l’impegno, il gergo militante fa spesso capolino, tuttavia supera la banale procedura di propaganda, evoca umanità necessarie, la centralità del mettersi in discussione senza attendere soluzioni immaginifiche ed eterodirette («e noi tutti cantiamo/ imprechiamo/ preghiamo/ Padre nostro che sei nei cieli/ restaci). Un libro di lettere, di versi, ma non pare solo quello, è disamina d’un tempo, dell’accadimento dentro una speranza che non si dissolve.

 

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