Ecocidio a Gaza, per non farsi mancare niente

articoli di Chris Hedges, Hagai El-Had, Noura Erakat, Matteo Nucci, Amira Hass, Kaamil Ahmed, Damien Gayle, Aseel Mousa, Giovanni Vighetti, Amos Goldberg, Branko Milanovic, Caitlin Johnstone, Gilad Atzmon,con un disegno di Mr Fish

I diligenti carnefici di Israele – Chris Hedges

Centinaia di migliaia di persone sono costrette a fuggire, ancora una volta, dopo che più della metà della popolazione di Gaza si è rifugiata nella città di confine di Rafah. Questo fa parte del sadico programma di Israele.

Correte, intimano gli israeliani, correte per salvarvi la vita. Scappate da Rafah come da Gaza Città, come da Jabalia, come da Deir al-Balah, da Beit Hanoun, Bani Suheila, Khan Yunis. Correte o vi uccideremo. Lanceremo bombe anti-bunker da 2.000 libbre (900 kg) sui vostri accampamenti di tende. Vi tempesteremo con i proiettili dei nostri droni armati di mitragliatrice. Vi colpiremo con l’artiglieria e i proiettili dei carri armati. Vi abbatteremo con i cecchini. Raderemo al suolo le vostre tende, i vostri campi profughi, le vostre città e paesi, le vostre case, le vostre scuole, i vostri ospedali e i vostri impianti di depurazione dell’acqua. Faremo piovere morte dal cielo.

Correte per la vostra vita. Ancora e ancora e ancora. Raccogliete le patetiche poche cose che vi sono rimaste. Coperte. Un paio di pentole. Alcuni abiti. Non ci importa quanto siete stremati, quanto siete affamati, quanto siete terrorizzati, quanto siete malati, quanti anni avete o quanto siete giovani. Correte. Fuggite. Scappate. E quando correrete terrorizzati verso una parte di Gaza, vi faremo voltare e correre verso un’altra direzione. Intrappolati in un labirinto di morte. Avanti e indietro. Su e giù. Fianco a fianco. Sei. Sette. Otto volte. Giochiamo con voi come topi in trappola. Poi vi deporteremo così non potrete mai più tornare. Oppure vi stermineremo.

Che il mondo denunci pure il nostro Genocidio. Cosa ci importa? I miliardi di aiuti militari provengono incontrollati dal nostro alleato americano. Gli aerei da caccia. I proiettili d’artiglieria. I carri armati. Le bombe. Una scorta infinita. Uccidiamo bambini a migliaia. Uccidiamo donne e anziani a migliaia. I malati e i feriti, senza medicine e ospedali, muoiono. Avveleniamo l’acqua. Tagliamo il cibo. Vi facciamo morire di fame. Abbiamo creato questo inferno. Noi siamo i maestri. Legge. Etica. Un codice morale. Per noi non esistono.

Ma prima giochiamo con voi. Vi umiliamo. Vi terrorizziamo. Ci godiamo la vostra paura. Siamo divertiti dai vostri patetici tentativi di sopravvivere. Non siete umani. Siete animali. Untermensch (Subumani). Alimentiamo la nostra superbia, la nostra brama di dominio. Guardate i nostri post sui social media. Sono diventati virali. Uno mostra soldati che sorridono in una casa palestinese con i proprietari legati e bendati sullo sfondo. Saccheggiamo: Tappeti. Cosmetici. Moto. Gioielli. Orologi. Contanti. Oro. Antichità. Ridiamo della vostra miseria. Festeggiamo la vostra morte. Celebriamo la nostra religione, la nostra nazione, la nostra identità, la nostra superiorità, negando e cancellando la vostra.

La depravazione è morale. L’atrocità è eroismo. Il Genocidio è redenzione.

Jean Améry, membro della Resistenza belga durante la Seconda Guerra Mondiale e catturato e torturato dalla Gestapo nel 1943, definisce il sadismo “come la negazione radicale dell’altro, la negazione simultanea sia del principio sociale che del principio di realtà. Nel mondo del sadico, la tortura, la distruzione e la morte trionfano: e un mondo simile chiaramente non ha speranza di sopravvivere. Al contrario, desidera trascendere il mondo, raggiungere la sovranità totale negando gli altri esseri umani, che vede come rappresentanti di un particolare tipo di ‘inferno’”.

Di nuovo a Tel Aviv, Gerusalemme, Haifa, Netanya, Ramat Gan, Petah Tikva chi siamo? Lavapiatti e meccanici. Operai, esattori delle tasse e tassisti. Spazzini e impiegati. Ma a Gaza siamo semidei. Possiamo uccidere un palestinese che non si spoglia fino alle mutande, non si mette in ginocchio, non implora pietà con le mani legate dietro la schiena. Possiamo farlo ai bambini di 12 anni e agli uomini di 70 anni.

Non ci sono vincoli legali. Non esiste un codice morale. C’è solo l’ebbrezza inebriante di esigere forme di sottomissione sempre più grandi e forme di umiliazione sempre più abiette.

Potremmo sentirci insignificanti in Israele, ma qui, a Gaza, siamo Giganti, piccoli Tiranni su piccoli troni. Attraversiamo le macerie di Gaza, accompagnati dalla potenza delle armi di distruzione di massa, capaci di polverizzare in un istante interi palazzi e quartieri, e come Vishnu diciamo: “Ora sono diventato morte, distruttore di mondi”.

Ma non ci accontentiamo semplicemente di uccidere. Vogliamo che i morti che camminano rendano omaggio alla nostra divinità.

Questa è la partita giocata a Gaza. Era la partita giocata durante la Guerra Sporca in Argentina, quando la giunta militare fece “scomparire” 30.000 dei suoi stessi cittadini. Gli “scomparsi” sono stati sottoposti a tortura, chi non può chiamare tortura ciò che sta accadendo ai palestinesi a Gaza?, e umiliati prima di essere assassinati. Era la prassi nei centri di tortura clandestini e nelle prigioni in El Salvador e Iraq. È ciò che ha caratterizzato la guerra in Bosnia nei campi di concentramento serbi.

Questo male dell’anima ci attraversa come una corrente elettrica. Infetta ogni Crimine a Gaza. Infetta ogni parola che esce dalla nostra bocca. Noi, i vincitori, siamo gloriosi. I palestinesi non sono niente. Parassiti. Saranno dimenticati.

Il giornalista israeliano Yinon Magal, nel programma “Hapatriotim” sul canale 14 israeliano, ha scherzato dicendo che la linea rossa di Joe Biden era l’uccisione di 30.000 palestinesi. Il cantante Kobi Peretz ha chiesto se questo è il numero dei morti in un giorno. Il pubblico è scoppiato in applausi e risate.

Mettiamo tra le macerie lattine con trappole esplosive, simili a scatolette di cibo. I palestinesi affamati vengono feriti o uccisi quando le aprono. Trasmettiamo i suoni delle donne che urlano e dei bambini che piangono dai droni quadricotteri per attirare fuori i palestinesi in modo da potergli sparare. Annunciamo punti di distribuzione alimentare e usiamo artiglieria e cecchini per compiere massacri.

Noi siamo l’orchestra in questa danza della morte.

Nel racconto di Joseph Conrad “Un Avamposto del Progresso” (An Outpost of Progress), scrive di due commercianti bianchi europei, Carlier e Kayerts. Vengono inviati in una remota stazione commerciale nel Congo. La missione diffonderà la “civiltà” europea in Africa. Ma la noia e la mancanza di vincoli trasformano presto i due uomini in bestie. Commerciano scambiando schiavi con avorio. Litigano per la carenza di cibo. Kayerts spara e uccide il suo compagno disarmato Carlier.

“Erano due individui assolutamente insignificanti e incapaci”, scrive Conrad di Kayerts e Carlier:

“La cui esistenza è resa possibile solo attraverso l’alta organizzazione delle masse civili. Pochi uomini si rendono conto che la loro vita, l’essenza stessa del loro carattere, le loro capacità e la loro audacia, sono solo l’espressione della loro fiducia nella sicurezza di ciò che li circonda. Il coraggio, la compostezza, la fiducia; le emozioni e i principi; ogni pensiero grande e ogni pensiero insignificante non appartiene al singolo ma alla massa; alla massa che crede ciecamente nella forza irresistibile delle sue istituzioni e della sua morale, nel potere della sua polizia e della sua opinione. Ma il contatto con la pura e assoluta ferocia, con la natura primordiale e l’uomo primitivo, porta nel cuore un turbamento improvviso e profondo. Al sentimento di essere soli nel proprio genere, alla chiara percezione della solitudine dei propri pensieri, delle proprie sensazioni, alla negazione dell’abituale, che è sicura, si aggiunge l’affermazione dell’insolito, che è pericolosa; un suggerimento di cose vaghe, incontrollabili e ripugnanti, la cui intrusione sconcertante eccita l’immaginazione e mette alla prova i nervi sia degli sciocchi che dei saggi civilizzati.

Rafah è il premio finale. Rafah è il grande campo di sterminio dove massacreremo i palestinesi su una scala mai vista in questo Genocidio. Guardateci. Sarà un’orgia di sangue e di morte. Sarà di proporzioni bibliche. Nessuno ci fermerà. Uccidiamo in preda a sfrenata eccitazione. Siamo dei.

Chris Hedges è un giornalista vincitore del Premio Pulitzer, è stato corrispondente estero per quindici anni per il New York Times, dove ha lavorato come capo dell’Ufficio per il Medio Oriente e dell’Ufficio balcanico per il giornale. In precedenza ha lavorato all’estero per The Dallas Morning News, The Christian Science Monitor e NPR. È il conduttore dello spettacolo RT America nominato agli Emmy Award On Contact.

Traduzione: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org

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Cosa accadrà quando l’Olocausto non impedirà più al mondo di vedere Israele così com’è? – Hagai El-Had

Per chiunque volesse osservarla, la verità era già abbondantemente chiara nel 1955: “Trattano gli arabi, quelli che si trovano ancora qui, in un modo che di per sé basterebbe a mobilitare il mondo intero contro Israele”, scriveva Hannah Arendt.

Ma era il 1955, appena un decennio dopo l’Olocausto – la nostra grande catastrofe e, allo stesso tempo, la veste protettiva del sionismo. Quindi no, ciò che la Arendt vide a Gerusalemme all’epoca non fu sufficiente a mobilitare il mondo contro Israele.

Da allora sono trascorsi quasi 70 anni. Nel frattempo, Israele è diventato dipendente sia dal regime di supremazia ebraica sui palestinesi sia dalla sua capacità di sfruttare la memoria dell’Olocausto in modo che i crimini che commette contro di loro non mobilitino il mondo contro di sé.

Il primo ministro Benjamin Netanyahu non sta inventando nulla: né i crimini, né lo sfruttamento dell’Olocausto per mettere a tacere la coscienza del mondo. Ma è primo ministro da quasi una generazione. Durante questo periodo Israele, sotto la sua guida, ha compiuto un altro grande passo verso un futuro in cui il popolo palestinese sarà cancellato dalla scena della storia – certamente se la scena in questione è la Palestina, la sua patria storica.

Tutto questo non solo è stato realizzato gradualmente – prima un dunam [mille metri quadri di terreno, ndt.] e una capra, poi un insediamento coloniale e una fattoria – ma alla fine è stato anche dichiarato pubblicamente, dalla Legge Fondamentale su Israele come Stato-Nazione del popolo ebraico del 2018 alla politica di base dell’attuale governo, e prima di tutto attraverso la dichiarazione: “Il popolo ebraico ha diritto esclusivo e inalienabile su tutte le parti della Terra d’Israele”. E la verità è che il consenso è molto più ampio e diffuso del sostegno allo stesso Netanyahu. Dopotutto, chi in Israele non ha apprezzato la brillante mossa, alla vigilia del 7 ottobre 2023, di attuare una normalizzazione con l’Arabia Saudita al fine di imprimere nella coscienza dei palestinesi il fatto che sono una nazione sconfitta?

Ma i palestinesi, questo popolo testardo, non hanno abbandonato la scena. In qualche modo, nel corso di tutti questi anni, attraverso l’oppressione, gli insediamenti coloniali e i pogrom in Cisgiordania, e le “ripetute fasi” del conflitto con Gaza, la violenza dell’esercito, la mancata resa dei conti di fronte alla giustizia, gli espropri a Gerusalemme, nel Negev e nella Valle del Giordano, e in effetti ovunque un palestinese cerchi di conservare la sua terra, dopo molti anni, molto sangue e molti crimini, il trucco riciclato dell’hasbara israeliana[termine ebraico: gli sforzi propagandistici per diffondere all’estero informazioni positive sullo Stato di Israele e le sue azioni ndt.], o della diplomazia pubblica, ha cominciato a perdere efficacia, da quando la semplice verità è che no, non tutti coloro che vedono i palestinesi come esseri umani dotati di diritti sono antisemiti.

Nel frattempo è arrivata la guerra a Gaza, con la distruzione di proporzioni bibliche che abbiamo portato sulla Striscia e sulle decine di migliaia di palestinesi uccisi. C’è stato così tanto sangue e distruzione che la questione se si tratti di genocidio ha cominciato a essere seriamente discussa presso la Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia.

Riprendendo le parole di Arendt, quello che stiamo facendo ai palestinesi – quelli che si trovano ancora a Gaza – non sta ancora mobilitando il mondo contro Israele. Ma il mondo sta ormai osando esprimere il proprio pensiero ad alta voce.

Tutto questo non ci sta ancora facendo riconsiderare il modo in cui “trattiamo gli arabi”. Cerchiamo invece ancora una volta di infondere nuova vita alla logora nuvola dell’hasbara. Se nel 2019 Netanyahu ha dichiarato che l’indagine della Corte Penale Internazionale è un “provvedimento antisemita” (il che non ha fermato le indagini) e nel 2021 ha affermato che si tratta di “puro antisemitismo” (e non ha fermato le indagini), poi una settimana fa ha iniziato a inveire contro un “crimine di odio antisemita”.

Netanyahu, come al solito, inserisce qualche parola di verità tra una menzogna e l’altra. Nel suo discorso alla vigilia del Giorno della Memoria presso il memoriale dell’Olocausto di Yad Vashem è stato sincero nel descrivere la Corte Penale Internazionale come un organismo “istituito in risposta all’Olocausto e ad altri orrori, per garantire che ‘Mai più’”. Ma se si pensa per un attimo al contesto spazio- temporale, tutto ciò che Netanyahu ha aggiunto con eccezionale faccia tosta in riferimento a tale dichiarazione è stato menzognero, soprattutto quando ha affermato che se fosse stato emesso un mandato di arresto contro di lui, “Questo passo lascerebbe una macchia indelebile sull’idea stessa di giustizia e di diritto internazionale”.

La verità è che la macchia che scuote le fondamenta del diritto internazionale è il fatto che anche dopo anni di indagini, per quanto ne sappiamo, non è ancora stato emesso un mandato di arresto contro Netanyahu o altri criminali di guerra israeliani. Questo nonostante il fatto che da decenni Israele perpetra, alla luce del sole, crimini contro i palestinesi, crimini che rientrano nella politica del governo, crimini approvati dall’Alta Corte di Giustizia, protetti dalle opinioni dei procuratori generali e insabbiati dall’avvocatura militare e sebbene tutto ciò sia palese e conosciuto, riportato e pubblicato, nessuno è stato ritenuto responsabile di ciò, né in Israele né all’estero, almeno finora.

Ci stiamo avvicinando al momento, e forse è già qui, in cui il ricordo dell’Olocausto non impedirà al mondo di vedere Israele così com’è. Il momento in cui i crimini storici commessi contro il nostro popolo smetteranno di costituire la nostra Cupola di Ferro, proteggendoci dall’essere chiamati a rispondere dei crimini che stiamo commettendo nel presente contro la nazione con cui condividiamo la patria storica.

Anche se in ritardo, è ora che quel momento arrivi. Israele non disporrà dell’Olocausto, ma la sua immagine sarà difesa dal genio arabo israeliano dell’hasbara Yoseph Haddad e dalla creatrice di contenuti Ella Travels [influencer popolari sui social media israeliani impegnati nella difesa di Israele, ndt.]

Coraggio. Forse faremmo meglio ad aprire gli occhi e adottare un atteggiamento diverso nei confronti dei palestinesi: vederli come esseri umani uguali. Questa sarebbe certamente una lezione di gran lunga migliore per l’Olocausto. Arendt probabilmente sarebbe d’accordo.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)

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I mutilati di Gaza: storie di ieri e di oggi

I Giochi Asiatici del 2018 in Indonesia sembravano un sogno realizzabile per ‘Alaa al-Daly (27 anni). Per un ciclista di Gaza il sogno di partecipare ad una competizione fuori dalla striscia è praticamente impossibile. Eppure, dopo vari anni di attesa, Israele aveva dato l’autorizzazione ad ‘Alaa di viaggiare per rappresentare la Palestina all’estero. Oltre al suo lavoro nelle costruzioni di reti fognarie nella striscia, ‘Alaa e i suoi colleghi professionisti avevano iniziato ad allenarsi intensamente e quotidianamente dall’inizio dell’anno. Tuttavia, il 30 marzo del 2018 in molte città palestinesi furono organizzati dei cortei per la Grande Marcia del Ritorno, in particolare nella striscia di Gaza, dove in migliaia manifestarono in prossimità del confine orientale della striscia. Durante queste proteste centinaia di palestinesi sono stati feriti con i proiettili dell’esercito di occupazione, e tra questi vi era anche ‘Alaa, che aveva partecipato ai cortei fin dal primo giorno. Aveva preso la sua bicicletta e si era recato al corteo per protestare contro il blocco imposto a Gaza, che gli aveva impedito di realizzare il suo sogno sportivo di rappresentare la Palestina all’estero o persino nei territori in Cisgiordania. L’esercito di occupazione gli sparò ferendolo gravemente alla coscia, con dei proiettili progettati per frammentarsi nei corpi delle vittime. Fu portato nell’ospedale europeo di Rafah, dove i medici rimasero sbalorditi per la gravità delle ferite riportate, e provarono, senza successo, a salvargli la gamba. I dottori chiesero che ‘Alaa venisse trasferito o in un ospedale a Ramallah o in Giordania, ma entrambe le richieste furono negate dalle forze di occupazione. Dopo sette giorni dal ferimento, i medici decisero di amputare la sua gamba a causa delle limitate capacità di intervento. Dopo aver perso la gamba, ‘Alaa si dissociò dal mondo esterno per due mesi, e sentiva che il sogno, coltivato dall’età di 13 anni, era ormai perduto.

Durante quelle manifestazioni, che proseguirono fino alla fine del 2019, l’esercito israeliano utilizzò sia proiettili veri che di gomma, mirando intenzionalmente agli arti. Infatti, sono state diffuse delle testimonianze di cecchini israeliani che riferirono di aver ricevuto l’ordine di mirare alle ginocchia dei manifestanti per smembrarle, causando così delle disabilità permanenti. Furono registrati 156 casi di amputazioni, e in 94 di questi fu necessario ricorrere ad una seconda amputazione, a causa di successive infiammazioni delle ossa. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, Israele aveva esteso a 23 giorni il tempo di attesa per il permesso di trasferimento dei malati, rispetto al 2017 in cui il tempo era di 10 giorni lavorativi. Tra 604 richieste avanzate da persone ferite durante i cortei per la Marcia del Ritorno, solo il 17% furono accettate, mentre il 28% furono rifiutate e al 55% non fu data alcuna risposta.

Dopo due mesi dal suo ferimento, ‘Alaa decise di prendere nuovamente la sua bicicletta, persino prima della rimozione dei punti di sutura dalla sua gamba. Aveva pensato di arrendersi, ma si era trovato davanti un irrefrenabile desiderio di tornare in bicicletta: “Ho iniziato a far nascere in me l’idea che fossi nato con quella amputazione. Basta, voglio andare in bicicletta come se fosse la prima volta”. Cadde tante volte cercando di trovare l’equilibrio sulla sua bici, e ci riuscì dopo un solo anno. Lo aiutò, fino a un certo punto, una protesi artificiale impiantata sei mesi dopo il suo ferimento, nonostante questa fosse stata costruita senza l’uso di tecnologie avanzate.

‘Alaa ricevette quella protesi dal Centro per le protesi artificiali, le paralisi e gli apparecchi ortodontici, e questo era l’unico centro della striscia specializzato nella costruzione di protesi e dispositivi di supporto, a cui vanno aggiunti alcuni laboratori di singoli cittadini, dove si costruiscono le protesi con materiali semplici e reperibili sul mercato.

Il centro fu fondato come organizzazione senza scopo di lucro nel 1974, e poi la municipalità di Gaza ne assunse la direzione. A causa delle difficoltà riscontrate a Gaza per l’ingresso di materiali e strumenti necessari, la costruzione delle protesi si svolge nei laboratori del centro utilizzando attrezzature che hanno più di 30 anni. Dal 2007 il Comitato internazionale della Croce Rossa ha iniziato a supportare il centro nel reperire i materiali necessari, acquistandoli e coordinandosi con le forze di occupazione attraverso procedure lunghe e complesse.

 

Costruire protesi a livello locale

Fino al 2009, si contavano circa 5.000 casi di amputazioni nella striscia, la maggior parte delle quali sono state causate dall’attacco israeliano a Gaza del 2008 e dagli attacchi ai palestinesi durante la seconda Intifada. Secondo quanto riportato dalle Nazioni Unite, la guerra a Gaza del 2014 ha portato a 100 nuovi casi di amputazioni, a cui vanno aggiunte altre 300 causate tra il 2009 e giugno 2014. Inoltre, nei dieci anni tra il 2006 e il 2016 l’età media dei mutilati al momento dell’amputazione era di 25.6 anni, il 92% di questi erano uomini laureati e gli unici responsabili del mantenimento familiare.

Considerato l’alto numero di amputazioni, i medici hanno trovato soluzioni più semplici e meno costose. Muhammad al-Khuladi, specializzato in protesi artificiali, ricorda di aver visto dalla sua casa, vicino al confine tra Egitto e Gaza, un campo di battaglia dove le forze israeliane miravano ai palestinesi causando martiri e mutilati. Quando al-Khuladi fece richiesta per specializzarsi in ingegneria meccanica, la sua università aveva appena avviato una specializzazione nuova e rara sulle protesi artificiali e sui tutori, così decise di lasciare la facoltà di ingegneria per specializzarsi in quest’altro ambito.

Nel 2016, al-Khuladi inaugurò un laboratorio per la costruzione di protesi artificiali a Rafah, però si scontrò subito con una situazione molto complessa a causa del blocco israeliano, che gli impediva di costruire protesi utilizzando gli strumenti certificati a livello mondiale. Si servì dei materiali disponibili nel mercato locale, simili ai materiali medici, come la pasta di gesso americana, i tubi di rame o il silicone, inoltre utilizzava le scarpe ortopediche come piedi artificiali. Nonostante la loro semplicità, queste protesi possono essere usate dai malati per un intero anno. Al-Khuladi ha affrontato molti ostacoli nel reperire finanziamenti per il suo progetto; tuttavia, era riuscito ad ottenerne uno dedicato ai progetti che offrono protesi a prezzi contenuti. Ciononostante, era molto difficile per le persone acquistare queste protesi a causa delle loro difficoltà economiche. Questo lo spinse a trasformare gradualmente la lavoro di produzione in manutenzione.

Nel 2019, fu inaugurato l’ospedale Sheikh Hamad, specializzato in riabilitazione e protesi e finanziato dal Qatar Fund for Development per offrire visite gratuite, ma Israele lo ha bombardato all’inizio dell’attuale attacco alla striscia.

 

L’amputazione di arti nella guerra attuale: numeri senza precedenti

Alla fine del dicembre scorso, l’organizzazione della Mezza Luna Rossa Palestinese ha stimato che circa 12.000 persone, tra cui 5.000 bambini hanno perso uno o più arti dall’inizio dell’attuale guerra. E ha poi dichiarato che l’organizzazione non riesce ad aggiornare i suoi dati a causa della distruzione del sistema sanitario di Gaza.

Secondo Save the Children, più di 10 bambini al giorno hanno perso una o entrambe le gambe a Gaza durante i primi tre mesi di guerra, e spesso le operazioni di amputazione sono state eseguite senza anestesia né antidolorifici. Inoltre, in assenza di antibiotici e senza un’adeguata sterilizzazione, i feriti sono soggetti a maggiori pericoli a causa delle infiammazioni e delle infezioni. Oltre a queste condizioni critiche c’è un enorme problema quando si operano i minori: il sistema osseo dei bambini si sviluppa molto durante la crescita, e questi necessitano di un secondo intervento di amputazione. Tuttavia, a causa della devastazione totale del sistema sanitario della striscia, non è possibile seguire i casi di mutilazione degli arti e garantire un’assistenza necessaria.

Normalmente, le persone mutilate passano tre fasi, prima, durante e dopo l’impiantazione dell’arto. Secondo Ahmad al-‘Abasy, primario del reparto protesi dell’ospedale Hamad, in una situazione normale le operazioni di amputazione vengono fatte con maggiore sicurezza rispetto alle situazioni di guerra, infatti c’è un gruppo di medici specializzato e la parte amputata viene chiusa senza lasciare alcun frammento o emorragia interna, ed è possibile pulire ciclicamente la parte amputata dalle infiammazioni.

La fase di preparazione all’impiantazione dell’arto passa dalla fisioterapia e dal recupero funzionale e normalmente dura tra uno e tre mesi, durante i quali il corpo viene stimolato ad accettare l’arto esterno. Successivamente, l’impiantazione dell’arto dura tra una e due settimane, tuttavia la mancanza di medici specializzati a Gaza rende più difficile il percorso di cura.

Bisogna sottolineare che, negli ultimi sette mesi di guerra, la maggior parte dei casi di mutilazione aveva bisogno di un’altra operazione di amputazione. C’erano persone a cui sono stati amputati gli arti prima di arrivare in ospedale, e non è semplice curare queste amputazioni a causa del bruciore e delle infiammazioni. Se anche i loro arti fossero sopravvissuti al bombardamento, sarebbe stato impossibile non amputarli a causa dell’impossibilità di raggiungere gli ospedali, lasciando le loro ferite senza cure per giorni, o a causa delle lunghe attese in ospedali stracolmi di feriti e con carenza di personale medico. I gazawi adesso soffrono di malnutrizione e anemia, e ciò influisce negativamente sulla guarigione dalle ferite.

Un medico specializzato in chirurgia ossea dell’ospedale al-Shifa, Hany Bisisu, ha riferito che un numero enorme di operazioni di amputazione a Gaza non sarebbero state necessarie se il sistema sanitario avesse funzionatoI medici decidono di amputare per salvare la vita dei malati a causa della mancanza di attrezzature e di personale medico. Bisisu sostiene di essere stato costretto ad amputare circa 50 dei 500 feriti presenti nell’ospedale durante due settimane dall’ultimo blocco, prima di lasciare il suo impiego.

Secondo Bisisu, nella striscia mancano gli anestetici, ragione per cui i malati rischiano di morire a causa delle sofferenze durante l’amputazione senza anestesia, o a causa delle emorragie. Quindi svolgere delle operazioni senza anestesia “non è concepibile né dall’uomo né da alcun medico, il quale a volte è costretto ad operare comunque, poiché fa delle cose fuori da ogni concezione umana”. Perciò o lascia che il ferito muoia oppure ci prova, anche se le possibilità di salvarlo sono minime. È quello che ha subito sua nipote ‘Ahad (18 anni), la quale è stata ferita a una gamba durante la guerra, e siccome la loro casa era circondata dai carrarmati, Bisisu è stato costretto ad amputargliela per salvarle la vita.

Bisisu afferma che ‘Ahad è stata fortunata, poiché la sua storia ha avuto una risonanza mediatica che le ha permesso, poco dopo, di recarsi nel Regno Unito per le cure. Tuttavia, sostiene che a Gaza ci sono ancora centinaia di feriti che hanno perso almeno un organo, e che aspettano di ricevere cure dall’esterno. Dopo l’incidente a sua nipote, Bisisu ha promesso a se stesso che, come prima cosa, proverà a offrire delle terapie di cura al più alto numero possibile di feriti. Però, afferma che essere curati all’estero dipende molto dalla fortuna del malato e dalle sue amicizie, e solo una percentuale minima di malati è riuscita a trovare cure all’estero durante la guerra.

Questa non è l’unica guerra in cui malati hanno dovuto aspettare per le loro protesi. Le capacità mediche, anche con i servizi dell’ospedale Hamad, non sono sufficienti per tutti i mutilati della striscia di Gaza. Tra questi vi è Ibrahim ‘Abd al-Daym (34 anni), il quale, durante la guerra del 2014, subì l’amputazione del suo piede dopo un bombardamento israeliano su una scuola in cui lui e la sua famiglia si erano rifugiati. In quell’occasione persero la vita suo padre e suo fratello, mentre sua madre perse un occhio e sua figlia fu ferita.

Ibrahim fu curato a Nablus, in Cisgiordania, e rimase lì un mese e mezzo, prima di rientrare a Gaza. Tuttavia, il suo stato di salute rese impossibile per medici completare le procedure di chiusura delle terminazioni nervose, causando un dolore lancinante. Sarebbe dovuto ritornare a Nablus per finire le sue cure, ma Israele gli ha negato il permesso di uscire dalla striscia. I medici del centro protesi lo hanno informato che sarà impossibile per loro impiantare le protesi finché proverà dolore. A sua volta, non ha il denaro necessario per sostenere i costi dell’operazione, così ha ormai perso da tempo la speranza di tornare a camminare. In seguito, è tornato a lavorare nei campi e nell’edilizia con i suoi piedi amputati, perché secondo i requisiti richiesti dalla legge palestinese lui non ha diritto di ricevere i sussidi governativi.

Perfino dopo l’apertura dell’ospedale Hamad, non è riuscito ad avere una protesi artificiale, e i medici lo hanno informato che avevano a disposizione un solo arto e che lui avrebbe dovuto pagare 3000 dollari per avere l’altro. Ma non poteva permettersi quella spesa, così ha deciso di non proseguire con il trattamento, poiché istallare un unico piede avrebbe influito negativamente sul suo equilibrio. Così è stato costretto a cambiare sedia a rotelle ogni anno, pagando 50 dollari al centro per le protesi artificiali, a causa della mancanza di infrastrutture nella regione in cui vive.

Le sofferenze di Ibrahim sono aumentate ancora di più dopo la guerra, dopo che sua moglie e le sue quattro figlie sono scappate durante la prima settimana di conflitto. La loro casa è stata bombardata dopo un mese e mezzo, costringendo anche lui, su una sedia a rotelle, a emigrare da Beit Lahia (a nord) verso Khan Younes. Adesso vive in una piccola tenda assieme alla sua famiglia, senza i beni essenziali e dipendendo fortemente dagli aiuti.

Invece, il ciclista ‘Alaa al-Daly era riuscito, negli ultimi cinque anni, a ricevere in modo ciclico delle protesi artificiali dall’ospedale Hamad, migliorando notevolmente sia la fase di riposo che il movimento. Le protesi lo hanno aiutato a tornare abitualmente sulla sua bicicletta dal 2019, così ‘Alaa ha formato un team di persone mutilate per insegnar loro ad andare in bicicletta, e insieme hanno fondato il primo team palestinese di paraciclisti, formato da 25 disabili.

Alla fine del 2020, ‘Alaa ha ottenuto il brevetto e il riconoscimento della sua squadra da parte dell’Unione Europea, e quando è scoppiata la guerra si sono candidati per partecipare a delle competizioni di paraciclismo in Belgio e poi in Italia. Con l’aiuto di alcuni sostenitori, ‘Alaa e la sua squadra hanno speso 30.000 dollari per lasciare Gaza, e sono arrivati in Egitto con la speranza che, partecipando a questa competizione, possano avere l’opportunità di essere ammessi alle Paraolimpiadi del prossimo settembre. Tuttavia, non sanno quale sarà il loro destino dopo la gara, se torneranno in breve tempo a Gaza dove hanno lasciato le loro famiglie.

Traduzione a cura di Michele Nicoletti

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Richieste di arresto per Netanyahu , Gallant e Sinyar

Il Tribunale Penale Internazionale (International Criminal Court) ha richiesto mandati di arresto per il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e per il ministro della difesa Yoav Gallant, e per tre leader di Hamas, per motivi di crimini di guerra e crimini contro l’umanità, ha annunciato oggi l’ufficio del procuratore.

Gallant e Netanyahu sono accusati di crimini di guerra e di crimini contro l’ umanità per utilizzare la fame dei civili come metodo di guerra, causando volontariamente grande sofferenza, uccisioni intenzionali , attacchi intenzionali a una popolazione civile e di sterminio, insieme a diverse altre accuse.

Nella sua dichiarazione che accompagna le accuse, il procuratore internazionale Khan ha scritto: “Il mio ufficio sostiene che le prove che abbiamo raccolto, comprese le interviste con sopravvissuti e testimoni oculari, video autenticati, materiale fotografico e audio, immagini satellitari e dichiarazioni del presunto gruppo perpetratore, mostrano che Israele ha intenzionalmente e sistematicamente privato la popolazione civile in tutte le parti di Gaza di beni indispensabili alla sopravvivenza umana”.

Ha aggiunto: “Israele, come tutti gli stati, ha il diritto di agire per difendere la sua popolazione. Questo diritto, tuttavia, non assolve Israele o qualsiasi stato dell’obbligo di conformarsi al diritto internazionale umanitario.”

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Il procuratore della CPI chiede l’arresto dei leader israeliani e di Hamas

Il procuratore capo della Corte penale internazionale (CPI), Karim Khan ha richiesto mandati di arresto contro il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e il ministro della Difesa Yoav Gallant in relazione alle loro azioni durante i sette mesi di guerra nella Striscia di Gaza.

Khan ha chiesto anche l’arresto di tre leader di Hamas: Yahya Sinwar, Mohammed Deif e Ismail Haniyeh.

Hamas: la decisione del procuratore della Corte penale internazionale “equipara la vittima al carnefice”

La decisione del procuratore della Corte penale internazionale di chiedere mandati di arresto per tre leader di Hamas “equipara la vittima al carnefice”, ha denunciato un alto funzionario di Hamas in dichiarazioni rilasciate all’agenzia di stampa Reuters.

Sami Abu Zuhri ha anche aggiunto che la decisione della Corte penale internazionale incoraggia Israele a continuare la sua “guerra di sterminio” a Gaza.

Il funzionario dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) Wasel Abu Youssef, sulla stessa linea di Hamas, ha definito la richiesto del procuratore della Corte penale internazionale una “confusione tra la vittima e il carnefice”.

“La CPI deve emettere mandati di arresto contro i funzionari israeliani che continuano a commettere crimini di genocidio nella Striscia di Gaza”, ha ribadito.

Gantz: la mossa del procuratore della CPI è un crimine di proporzioni storiche

Il ministro del gabinetto di guerra israeliano Benny Gantz ha reagito duramente alla richiesta di mandati di arresto emesso contro di lui e  il primo ministro Netanyahu, definendolo come “un crimine di proporzioni storiche”.

“Fare un parallelo tra i leader di un Paese democratico determinato a difendersi dal terrore spregevole e i leader di un’organizzazione terroristica assetata di sangue (Hamas) è una profonda distorsione della giustizia e una palese bancarotta morale”, ha lamentato Gantz.

Adesso, i giudici della CPI ora determineranno se ritengono che le prove siano sufficienti per emettere mandati di arresto.

Quali saranno adesso gli scenari dopo i mandati d’arresto?

Per il momento Khan deve richiedere i mandati a una commissione istruttoria di tre giudici, che impiega in media due mesi per esaminare le prove e stabilire se il procedimento può andare avanti.

Israele non è membro della Corte dell’Aia e, anche se i mandati di arresto venissero emessi, Netanyahu e Gallant non correrebbero alcun rischio immediato di essere perseguiti.

La richiesta di Khan, però, aggrava l’isolamento di Israele che continua la sua devastante guerra a Gaza. La minaccia di arresto potrebbe rendere difficile ai leader israeliani viaggiare all’estero.

Dei tre leader di Hamas contro i quali è stato richiesto un mandato di arresto, due – Yahya Sinwar e Mohammed Deif – si trovano a Gaza. Ma Ismail Haniyeh, il capo politico di Hamas, ha sede in Qatar e viaggia spesso nella regione.

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Noura Erakat: «Lo Stato di Palestina è inutile se non si affronta l’apartheid»

Intervista di Chiara Cruciati all’avvocata palestinese e docente di diritto internazionale: «La Nakba non significa soltanto pulizia etnica: è l’usurpazione del diritto ad autodeterminarsi. La soluzione dei due Stati è stata storicamente usata per portare la lotta per la libertà fuori dal quadro della distribuzione diseguale del potere tra oppressore e oppresso»

 

Tra i volti più noti dell’accademia statunitense, l’avvocata palestinese Noura Erakat è docente alla Rutgers University dove si occupa di diritto internazionale, giustizia sociale e critical race theory. È tra le fondatrice del think tank Jadaliyya. In questi giorni ha tenuto conferenze all’Università La Sapienza di Roma e all’Orientale di Napoli.

Ieri si commemorava la Nakba del 1948. Da decenni i palestinesi parlano di «Nakba che continua» e oggi assistiamo a eventi che finora avevamo letto nei libri o immaginato dai racconti dei rifugiati. Che significa Nakba oggi?

Una delle difficoltà giuridiche che abbiamo incontrato è stata tradurre la condizione palestinese in genocidio e apartheid. Se la nostra esperienza fosse stata riconosciuta, avremmo potuto comunicarla come «catastrofe», che è particolare ma anche universale. La Nakba non è solo pulizia etnica, ma usurpazione dell’autodeterminazione, espansione genocida e consolidamento territoriale. Il desiderio di Israele di avere più terra con meno palestinesi è una pratica costante nel Negev, in Galilea, in Cisgiordania, a Gerusalemme. Quello che vediamo a Gaza è solo una sua continuazione con mezzi di guerra. I palestinesi sono una minaccia per la sfida che pongono alla sovranità coloniale di Israele. Non per i danni che arrechiamo, ma perché sfidiamo l’ininterrotta presenza spaziale e temporale del colonialismo sionista.

Lei è parte del team indipendente che ha compiuto ricerche parallele a quelle del Dipartimento di Stato Usa sulle violazioni israeliane a Gaza. Cosa pensa del rapporto pubblicato da Washington?

Sono co-presidente di una task force indipendente che ha svolto ricerche sulla legge National Security Memorandum n. 20, che impone a tutti gli stati belligeranti che ricevono armi statunitensi di fornire garanzie sul loro utilizzo in conformità con la legge statunitense e il diritto internazionale. Novanta giorni dopo aver fornito tali garanzie, Dipartimento di Stato e Dipartimento della Difesa sono obbligati a presentare un rapporto al Congresso. La nostra task force, co-presieduta da Josh Paul, che si è dimesso dal Dipartimento di Stato a ottobre, ha prodotto un rapporto di 76 pagine per dimostrare le violazioni israeliane della legge statunitense e un allegato di 18 pagine sull’uso improprio delle armi fornite dagli Stati uniti. Anche Oxfam, Amnesty e Hrw hanno presentato rapporti. L’enorme quantità di materiale ha generato ripercussioni: il Dipartimento di Stato non poteva dire che Israele rispetta la legge di fronte a tali prove. Ma d’altra parte non voleva limitare le armi a Israele. Così da un lato afferma che è ragionevole dire che Israele stia violando il diritto umanitario, dall’altro dice di non essere sicuro se e dove siano state usate armi statunitensi.

Il colonialismo d’insediamento contiene in sé l’elemento genocidario?

Il colonialismo di insediamento si basa sull’eliminazione dei nativi. Eppure, questa idea di eliminazione non è quella che si coglie nella Convenzione del 1948 che, pur essendo universale, era nata dopo lo sterminio di massa del popolo ebraico in tutta Europa con l’uso di tecnologie avanzate. Non sono stati riconosciuti come genocidi quelli commessi nelle geografie coloniali, le popolazioni indigene delle Americhe, dell’Australia o della Nuova Zelanda, o la tratta transatlantica degli schiavi. Per sfidare la natura genocida del colonialismo di insediamento non è sufficiente appoggiarsi al diritto internazionale, dobbiamo fare riferimento anche alle esperienze dei popoli. Il diritto internazionale ha una contraddizione intrinseca: protegge sia i diritti degli Stati intesi come forma di autodeterminazione dei popoli, sia i diritti dei popoli in sé. Ma la maggior parte dei popoli chiede diritti allo Stato che li danneggia, che è lo stesso Stato che si affida ai regimi giuridici internazionali per proteggersi da interventi esterni in nome della sovranità. Non si tratta solo di Israele e dei palestinesi o degli Usa e delle popolazioni indigene. Si tratta dell’Egitto e degli egiziani, della Giordania e dei giordani, dell’Italia e degli italiani. La maggiore fonte di danno proviene dagli Stati e la legge non risolverà questa contraddizione.

A tal proposito in un recente articolo lei scrive di come i palestinesi illuminino la natura coloniale del resto del mondo e cita altre lotte, quelle di neri e indigeni. E degli studenti, duramente repressi.

La solidarietà transnazionale precede di gran lunga il 7 ottobre. Penso al 2014, quando si unirono le lotte tra Gaza e Ferguson. Oggi noi palestinesi stiamo beneficiando di quel lavoro. Nelle università il punto centrale è che sono gli atenei stessi a chiedere alla polizia di aggredire gli studenti a cui hanno insegnato storia, critica, studi sul genocidio. Hanno insegnato loro il dissenso e la storia dei movimenti sociali. Questa repressione è grave, ma riflette una più ampia repressione dello Stato e della società, soprattutto nei paesi occidentali, con i media e le istituzioni private parte dell’apparato repressivo. E illumina anche il trattamento riservato ai palestinesi, soggetti a espropriazioni e attacchi proprio mentre le proteste in solidarietà vengono attaccate dallo Stato. La repressione illumina cosa significa essere palestinese in un modo che non è più teorico. È la stessa motivazione che porta i palestinesi da oltre 100 anni a resistere: la posta in gioco è la nostra stessa esistenza.

L’Assemblea generale dell’Onu ha chiesto il riconoscimento dello Stato di Palestina e molti paesi occidentali oggi tornano a parlare di due stati. Riconoscere uno stato è la soluzione? O serve invece un vero processo decoloniale?

La soluzione dei due Stati è stata storicamente utilizzata come un modo per congelare la lotta per la libertà dei palestinesi, per portarla fuori dal quadro della distribuzione diseguale del potere tra oppressore e oppresso. Si parla di pace contrapponendola alla necessità di porre fine all’assoggettamento. In questo momento, l’idea dello Stato di Palestina potrebbe essere usata strategicamente, ma non accade. Ci si dovrebbe mobilitare sulla questione dell’apartheid, che offre un’enorme quantità di meccanismi per limitare Israele, per imporre boicottaggio e disinvestimento, per far risorgere i comitati istituiti per smantellare l’apartheid in Sudafrica e Namibia. Non sono convinta che il riconoscimento della Palestina come Stato sia il meccanismo per ottenere tale obiettivo, a meno che non sia associato all’imposizione di sanzioni a Israele.

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Il suicidio dell’Occidente – Matteo Nucci

In questo momento, mentre comincio a scrivere, i video che arrivano dalla striscia di Gaza raccontano quella che sarà forse la fase finale dello sconvolgente massacro con cui da 215 giorni l’esercito israeliano rade al suolo un sovrappopolato angolo di terra. I tank sono entrati a Rafah e alcuni dei video mostrano in soggettiva l’ingresso israeliano. Si tratta dunque degli stessi militari che stanno filmando. Il più gettonato, fra questi trofei di guerra, mostra la famosa scritta I LOVE GAZA forse in plastica, certo tridimensionale, rossa, con il classico cuore. Si avvicina sempre più via via che il tank avanza. Poi le ruote cingolate la inghiottono. È un’anticipazione di quel che sarà: rovine e morte. Una terra spianata, il sangue interrato, il numero delle vittime incerto.

Ovviamente le storie che compaiono sui social sono già innumerevoli e di molti tipi. E se avete cuore, mentre vi meraviglierete di dover ricorrere a un simile strumento per trovare i barlumi di verità negati dai principali media delle democrazie occidentali (in questi giorni dediti a tutt’altro tipo di informazione), troverete molte altre testimonianze della prospettiva israeliana. Per esempio, i festeggiamenti sionisti per la decisione finale di sferrare l’attacco a Rafah, nonostante l’accordo fosse raggiunto. Balli e grida di giubilo. Si stappa champagne, si ride. Si celebra l’imminente annientamento.

Ma c’è anche un’altra prospettiva, quella del popolo che viene massacrato. E qui si rischia di non aver parole per ripetere quel che da sette mesi abbiamo visto fino alla nausea: un palazzo divelto, due bambini intrappolati fra le macerie, gli uomini che scavano a mani nude tentando invano di salvarli perché il loro volto è già più grigio della cenere che li ricopre. Si chiamavano Mahmoud e Hamdam, 8 e 6 anni.

Un altro video mostra il corpicino di un bambino che avrà due o tre anni e sta respirando per l’ultima volta dopo il bombardamento della sua casa, gli sforzi del medico sono inutili, lo vediamo in diretta. Un altro ancora è video di denuncia più articolato, frutto di una mano minimamente esperta: mette accanto un padre straziato con il suo figlio in braccio e la notizia del giorno dai Met Gala, analoga perché anche lì un uomo prende in braccio qualcuno, ma si tratta di Tyla, che non potendo muovere le gambe strette nell’attillato vestito di sabbia, viene portata in giro come una statua.

Sono solo cinque fra le storie che stanno arrivando da Rafah. E su di esse noi cittadini del Vecchio Continente, e più in generale della democrazia occidentale, abbiamo due possibilità: o spegnere, staccare, voltare la testa dall’altra parte perché il dolore è troppo e la rabbia diventa frustrazione; oppure possiamo ammettere che una riflessione ulteriore è necessaria. Non soltanto perché siamo noi, tutti noi, con rarissime e interessanti eccezioni, a aver avallato, sostenuto, finanziato in denaro e armi, l’eccidio perpetrato ormai senza soluzione di continuità da Israele. Ma anche perché siamo noi democratici occidentali che stiamo accettando, giorno dopo giorno, che ogni critica a questa deriva spaventosa sia messa a tacere, con estrema durezza, estrema violenza. Stiamo accettando la reazione dei governanti criticati per le loro scelte di sangue, i quali, fuori da ogni regola democratica, stanno preparando il terreno per una sorta di nuova regola: criticare l’eccidio e lottare contro di esso non è moralmente e addirittura legalmente accettabile.

È un’altra linea rossa che in questo drammatico epocale crollo, stiamo oltrepassando senza più possibilità di fare ritorno. E conviene riflettere sulla sua portata. Perlomeno per essere consapevoli di quello a cui andiamo incontro.

In poche parole. In questi giorni, nel faro delle democrazie rappresentato dagli Stati Uniti d’America, si sta discutendo una legge in base a cui qualunque critica a Israele verrà derubricata alla voce antisemitismo. È un passaggio culturalmente sconcertante. Non solo si stabilisce per legge un’equazione del tutto falsa e fuorviante. Ma si apre la strada a fenomeni di portata non immaginabile. È palese infatti che la critica contingente alla politica contingente di un Paese non può in alcun modo essere messa sullo stesso piano con idee, teorie, sentimenti razzisti, o meglio con quell’odio contro gli ebrei che una sconfinata letteratura ha esplorato in ogni suo aspetto storico e metastorico. È palese a chiunque che una cosa è odiare gli ebrei e altro è criticare il sionismo e altro ancora è criticare il governo di Israele. Una nenia che in questi giorni abbiamo cantato allo sfinimento ma che forse deve essere ripetuta una volta ancora. Ricordo, allora, che esistono molti ebrei antisionisti, che esistono gruppi di ebrei ortodossi antisionisti, e che, evidentemente, nella stessa Israele (sempre meno democratica di quanto già non era, da quando vengono chiusi canali televisivi), molti sono gli ebrei che criticano il governo attuale, un governo largamente occupato da estremisti, e vivo solo grazie alla cosiddetta guerra. E insomma è palese, incontestabile che una cosa è l’antisemitismo, altra cosa è l’antisionismo e altra cosa ancora è la critica alla politica di Israele.

Eppure, così stanno le cose. La legge è in discussione al Senato. Molto probabilmente, con leggere modifiche, verrà approvata. Anche se non lo fosse, in ogni modo, che una deriva antidemocratica sia ormai stata presa lo hanno mostrato nei giorni passati i fatti di cui chiunque ha avuto notizia dai campus e dalle Università americane. La lotta in difesa del popolo palestinese è stata violentemente repressa. Anche in questo caso i video registrati dai telefoni del nuovo mondo globale hanno aiutato a farsi un’idea. Professori di una certa età spinti in terra e brutalmente ammanettati. Ragazzi immobilizzati col taser. Tende strappate. E tutto quell’armamentario di violenza a cui la polizia americana ci ha abituati, stavolta utilizzata con persone inermi, sedute, oppure semplicemente in piedi a parlare, raccontare, spiegare. Gente che sta combattendo – lo ricordo – contro un massacro. Gente che chiede pacificamente di ritirare gli investimenti da un Paese che oggi sta provocando una tragedia di incommensurabili dimensioni.

Ma quali dimensioni. Apriamo una parentesi perché credo che sia importante spiegare attraverso i numeri quel che forse molti riescono ancora a ignorare ammesso che non abbiano visto almeno una volta le macerie infinite in cui è stato ridotto un lembo di terra lungo come il litorale laziale che va da Fregene a Santa Marinella in cui vivevano oltre due milioni di esseri umani. Dunque, fino al 7 maggio, ieri, quando ho cominciato a scrivere questo articolo, e cioè in 215 giorni di eccidio (non guerra, sia chiaro) sono stati uccisi con certezza 35.000 esseri umani di cui 14.500 bambini. Un dato mostruoso se pensate che appunto moltissimi sono i corpi sotto le macerie. Ma non tralasciamo i feriti che sono più di 78.000. Feriti non significa salvi. Significa – non dimentichiamolo – amputati, bruciati, menomati per sempre e senza alcun accesso a cure mediche, vista la sistematica distruzione di ospedali e centri di cura da parte delle truppe israeliane. Inquantificabile infine il danno di cui noi Occidentali ci preoccupiamo di continuo, ovvero quello psicologico.

Non so se leggere il numero possa dare un’idea della catastrofe che stiamo avallando e di cui stiamo stabilendo che criticarla e lottare contro di essa è fuori luogo o al limite illegale. Un mio amico professore di fisica diviso fra Germania e Italia, particolarmente capace con i numeri, ha cercato di farmi capire le cose così: “Io ti dico che 120.000 tra morti e feriti a Roma vorrebbe dire un morto o un ferito ogni dodici famiglie, due per palazzina dal Flaminio al Laurentino. E se poi conti solo i bambini in età scolare morti o feriti, a Roma sarebbero tre per ogni classe delle ottomila fra elementari e medie presenti in città”. Insomma, una tragedia di proporzioni inaudite. Ora, è necessario chiedersi: come è possibile punire chi lotta contro tanta barbarie?

Sì, potete anche dire che si tratta degli Stati Uniti, i massimi sostenitori di Israele, quelli che hanno per tre volte posto il veto all’ONU contro la richiesta di un cessate il fuoco, quelli che hanno riempito e continuano a riempire di armi Israele. E che reprimono le manifestazioni di dissenso a modo loro e hanno una tradizione molto particolare fra le forze di polizia. Potete dire questo. E in parte avete ragione. In effetti si tratta di un Paese unico, dove per esempio in questi giorni, mentre si reprimeva una protesta pacifica, le forze dell’ordine non sono mai intervenute a punire la violenza dei manifestanti pro-Israele che in alcuni casi, scatenandosi contro i manifestanti, ha assunto tratti vergognosi. Effettivamente gli Stati Uniti possono essere considerati un caso a sé stante.

Ma ora guardate cosa accade da noi. Intendo in Europa. Paese guida della deriva antidemocratica sull’olocausto che gli israeliani stanno scatenando a Gaza è la Germania. Le azioni del Paese che fu autore dell’olocausto della Shoah sono tutte molto significative. A partire dalla stessa violenza di repressione cui abbiamo assistito nelle università americane. Fino a ben altri provvedimenti assolutamente inauditi. Fra di essi, paradigmatico mi pare il divieto di indossare la kefiah sotto alla Porta di Brandeburgo. Non dimentichiamoci però dell’incontro politico internazionale di Berlino in cui esperti, giornalisti e attivisti erano invitati a parlare e che è stato negato mentre era in corso, quasi fosse un ritrovo di terroristi. Imponente schieramento di forze a circondare i locali che ospitavano il Congresso sulla Palestina, eppoi a svuotarli, dopo aver impedito fra gli altri a Yiannis Varoufakis di leggere il proprio intervento e persino di rimettere piede in Germania. Il motivo? Le critiche mosse a Israele. Ma non finiscono qui i duri provvedimenti tedeschi che equiparano appunto la critica della politica genocidaria di Israele a un’espressione antisemita. Nelle scuole berlinesi di Neukolln sono stati distribuiti opuscoli (sfornati dall’associazione ebraica Masiyot) che raccontano la storia di Israele elencando cinque falsi miti costruiti sulla sua fondazione fra cui l’occupazione illegale di terre e la Nakba. Si tratta di un revisionismo storico di così bassa lega, così insano e così inadeguato in una democrazia occidentale che vien voglia di chiedersi veramente dove stiamo andando.

Chiediamocelo allora. Perché non è che nel resto d’Europa, fuori da Irlanda e Spagna, si stia invece seguendo una linea molto diversa. Lasciando perdere la copertura mediatica di una catastrofe atroce, sempre minimizzata, svalutata, mai condannata come si farebbe se gli agenti fossero coloro che noi riteniamo dittatori da combattere, stati canaglia e quant’altro, lasciando perdere dunque una stampa che perlopiù la sua missione ha smesso di compierla, e guardiamo agli eventi più significativi. Oltralpe, abbiamo visto negare l’ingresso in Francia al chirurgo inglese Ghassan Abu-Sittah, poiché la Germania ha attivato contro di lui una procedura di divieto europeo per un anno. La colpa? Aver esercitato a Gaza per oltre quaranta giorni: essere quindi nelle condizioni di raccontare l’orrore, ossia pericolosa voce da mettere a tacere. È un caso esemplare. Il testimone negato. L’emblema di tutte le testimonianze che non si vogliono avere, i giornalisti internazionali non ammessi, quelli palestinesi uccisi, i medici uccisi, arrestati torturati e se riescono a sopravvivere bannati dall’Europa (non è un caso che le istituzioni della giustizia internazionale siano in Europa). Per il resto, le solite storie. In Olanda abbiamo visto la polizia intervenire contro gli studenti e usare un bulldozer per spianare un campo di protesta. E qui da noi, abbiamo visto i manganellamenti continui durante le manifestazioni contro il genocidio: una violenza repressiva a volte talmente incongrua che ha suscitato l’intervento delle massime cariche istituzionali. Ma ovunque, in generale, abbiamo visto le tinte fosche che stanno calando sempre più prepotenti sul nostro Vecchio Continente.

È un momento di svolta.

Si stanno superando confini che erano stati tracciati con grande precisione dalle nostre democrazie.

Uccidere indiscriminatamente civili e in particolar modo bambini è stata la prima linea infranta da questo eccidio che – ripeto ancora – noi tutti avalliamo.

Bombardare ambulanze e ospedali è stata la seconda linea che nessuno avrebbe considerato possibile superare.

Annichilire l’informazione è stata la terza (stando a fonti ONU, sono stati uccisi più di 122 giornalisti in questi sette mesi di guerra; dall’interno di Gaza la copertura mediatica è impossibile e accettata solo per i giornalisti al seguito dell’esercito israeliano; Al Jazeera è sotto attacco e ora oscurata all’interno di Israele).

Ma appartiene ancora a un’altra dimensione la linea che stiamo oltrepassando adesso e che potrebbe rivelarsi davvero catastrofica: la linea delle condizioni minime di democrazia, ovvero il rispetto del dissenso, la tutela della critica che è la vera sacra laica grandezza del nostro mondo.

In questi mesi orribili, mentre ogni mattino scorrevo le immagini di una tragedia infinita, ho trovato in due questioni l’unica luce che tagliava il pulviscolo grigio e le nubi di polvere palestinese sbudellata dai tank. Mentre vedevo corpi maciullati, bambini bruciati dalle bombe al fosforo, uomini che camminavano in luoghi deserti uccisi dai cecchini come birilli, corpi trasformati in sottilette dai cingolati dei tank, mani come bandierine che escono dalle macerie, mentre vedevo la festa e gli sfottò dei soldati israeliani, il dolore e la fame dei palestinesi, eppoi le file di camion pieni di aiuti fermati ai confini e i party musicali dei giovani israeliani che bloccano i camion, a volte li ribaltano e saccheggiano, e mentre vedevo la fame, donne stremate, bambini che leccano la terra, mentre vedevo tutto questo, poi cercavo sempre quelle due lame di luce per trovare una sponda, un futuro, niente frustrazioni e anzi il minimo ottimismo. La prima luce si apriva attraverso i ragazzi e le ragazze, gli studenti di scuole, università, istituti, insomma appunto il futuro. Questi ragazzi capaci di indignarsi e incapaci di accettare tanto orrore, come invece sembra che gli adulti siano pronti a fare, be’, sarà retorico, ma ogni volta solo a sentirli cantare mi emozionavo. Mi lasciavano pensare, fra l’altro, a un altro tipo di luce, quell’altra lama che tagliava il buio, una novità culturale. Mi pareva evidente una cosa, infatti: mai più sarebbe stato possibile equiparare a un antisemita un essere umano che lotta per la salvezza di altri esseri umani e dunque lotta contro Israele come contro ogni altro Paese che porta avanti politiche analoghe. Mai più la facile accusa di antisemitismo per condannare il dissenso verso Israele. Mi pareva davvero pacifico. Me lo ripetevo quasi sorridendo: è così chiaro che questi studenti non hanno proprio il benché minimo spirito antisemita che non serve affatto giustificarli dicendo che tra di loro ci sono molti ebrei. Figuriamoci. Mi pareva finalmente una conquista evidente. I giovani che sanno provare vergogna e sanno sentire l’orrore hanno anche aperto finalmente una via culturale che ci libererà da quella colpa che tutti noi proviamo e che ha consentito a Israele ogni tipo di malefatta nella sua storia.

Ebbene, avevo ragione. Quella è la vera luce.

Lo dimostra il fatto che ha messo molta paura. E le nostre democrazie hanno deciso di spegnerla. A costo di distruggere se stesse.

Se adesso riguardo il video in soggettiva del tank che inghiotte la scritta I LOVE GAZA, un’impressione nuova si fa largo. Quel simbolo tanto occidentale, quei caratteri, quel cuore. Il cingolato che lo spiana. Non sarà forse questo il finale suicidio dell’Occidente?

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In fuga da Rafah verso il nulla – Amira Hass

Le persone costrette a lasciare la città del sud della Striscia di Gaza per l’avanzata dell’esercito israeliano non hanno un posto dove andare. Intorno a loro ci sono solo morte e devastazione

Alle 9 di mattina del 9 maggio il mio amico Fathi Sabah mi ha detto che lui e 34 familiari e amici erano ancora a casa dei suoi genitori. La casa è costruita sul lato orientale della strada che collega Khan Yunis a Rafah, sul margine orientale del campo profughi di Shaboura. Sabah è un giornalista e docente di giornalismo sulla cinquantina. In una conversazione di mezz’ora su WhatsApp mi ha descritto quello che stava succedendo a Rafah e i fitti colpi di artiglieria che, come ha detto, “ci spaventano più delle bombe dal cielo”.

Sulla base del suo racconto, delle conversazioni con altri due amici con cui è stato possibile solo un breve un contatto telefonico, e delle notizie riferite dalla radio Al Ajyal, avevo buttato giù questo incipit: “Gli avvertimenti del presidente degli Stati Uniti Joe Biden a Israele contro ‘l’ingresso’ a Rafah non hanno calmato gli 1,2 milioni di palestinesi ammassati nella città del sud. Nessuno si illudeva che i carri armati sarebbero rimasti a est della città senza invaderla. Negli ultimi due giorni si sono svuotati vari quartieri, non solo quelli orientali”.

Alle 11.10, però, la figlia maggiore di Sabah – che a causa delle condizioni di salute lui è riuscito a far uscire da Gaza nel terzo mese di conflitto – mi ha mandato un messaggio in cui diceva: “Poco fa una granata ha colpito il primo piano della casa dei miei nonni. I miei genitori, due miei fratelli e altri familiari sono all’interno. Li ho chiamati e mi hanno detto che non c’erano feriti e che stavano tentando di uscire il più in fretta possibile. Poi un altro colpo ha centrato il secondo piano e ora nessuno mi risponde”.

Poco prima, alle 9.15, Sabah mi aveva rassicurato: “Siamo fuori dalla mappa”, riferendosi alle istruzioni date dall’esercito agli abitanti per lasciare il villaggio di Shuka e i quartieri orientali di Rafah. Ma aveva aggiunto: “Sappiamo che questo non ci garantisce nulla”. Era questione di poche ore, al massimo un giorno, poi anche loro avrebbero dovuto lasciare la casa, la stabilità parziale, il tetto che avevano avuto per qualche mese.

Nessuno dorme

I colpi di artiglieria non prendevano di mira solo le case nella parte orientale della città, mi ha detto Sabah. Il giorno prima l’esercito aveva bombardato una casa a cento metri dalla sua. Il palazzo del comune nel centro della città è stato colpito due volte, in due giorni diversi. Una granata ha colpito anche Tel a-Sultan, un quartiere di rifugiati nella parte occidentale di Rafah. Non c’è da stupirsi quindi se tra i familiari di Sabah nessuno era riuscito a dormire nelle ultime notti.

“Quando c’è una bomba, c’è un sibilo, o un suono acuto di sirena. Quando cadono i proiettili di artiglieria, tutta la casa trema”, mi ha spiegato Sabah. “I teli di nylon sulle finestre, che sostituiscono i vetri infranti tempo fa, crepitano. Dalle case bombardate sentiamo il rombo del cemento in frantumi. Durante il giorno si vede il fumo. Di notte è buio pesto. Chi si ricorda di quando avevamo l’elettricità?”.

Dopo la notte di bombardamenti, quando abbiamo parlato la mattina del 9 maggio, la maggior parte della famiglia stava approfittando del breve momento di calma per dormire, compresa la madre di ottant’anni. Sua moglie stava preparando qualcosa in cucina. “Cosa porterete con voi quando andrete via?”, gli ho chiesto. Lui ha risposto: “Materassi, coperte, vestiti, utensili da cucina. L’acqua, che compriamo nelle taniche una volta alla settimana, basta per altri due giorni. Per questo ci facciamo la doccia solo una volta ogni due settimane. Ci porteremo anche quel poco da mangiare che abbiamo. Stamattina non ho trovato il pane. Il forno in fondo alla strada è chiuso. I proprietari sono scappati”.

Nei giorni precedenti le persone si erano rifugiate nel campo di Shaboura, compresi alcuni amici comuni di Gaza. Ora, a mano a mano che i colpi di artiglieria si avvicinano, i nostri amici hanno cominciato a cercare una tenda e dei veicoli per fuggire più a ovest. È la quarta volta che scappano dall’inizio della guerra. Per Sabah e la sua famiglia è la terza fuga da ottobre. Nella seconda settimana di conflitto hanno abbandonato la città di Gaza per spostarsi nella casa della famiglia di sua moglie, a Khan Yunis. A dicembre, dopo che un missile ha colpito la stanza in cui i dormivano i figli, si sono spostati a Rafah, a casa di sua madre, vedova, rifugiata, nata nel villaggio di Al Bureir (dove oggi si trova il kibbutz Bror Hayil). Ogni sfollamento è la conseguenza dell’avanzata dell’esercito, e ogni avanzata comprime gli sfollati in un’area sempre più piccola della Striscia.

Nel bombardamento dell’8 maggio a Rafah sono morte diverse persone, mi ha detto Sabah. I miliziani palestinesi stavano combattendo sul confine, ha aggiunto: “Non sappiamo quanti di loro sono stati uccisi, ma le persone morte nelle case erano civili”. Mi ha mandato i nomi delle vittime che erano state identificate in ospedale: Jana al Lulu, un anno; Yazid Mohana, un anno; Ahmed Eid, dieci anni; Lana Eid, dodici; Muhammad Eid, diciannove, Rimas al Lulu, ventisette; Bilal Eid, ventisette; Mohammed al Lulu, trentacinque.

Ore di tensione

“Quando muore qualcuno, non piangiamo”, mi ha detto Sabah. “Non ci riusciamo. I nostri occhi sono asciutti, abbiamo pietre al posto delle lacrime. La morte è un sollievo per i morti. Quando è morta mia suocera, non riuscivo a piangere. Tanto era il dolore che ci circondava che neppure mia moglie riusciva a piangere per sua madre, che era già in dialisi. Ci sono centinaia di pazienti con malattie renali che hanno bisogno di dialisi. Prima li curavano all’ospedale Yosef al Najjar, che ora è stato abbandonato su ordine dell’esercito, con tutte le sue costose attrezzature”.

E ha aggiunto: “Le persone chiedono su WhatsApp dove si può fare la dialisi. Un medico ha detto che l’ospedale Nasser a Khan Yunis riprenderà a funzionare fra tre giorni. Ma cosa faranno fino ad allora? Molti anziani muoiono per mancanza di cure o perché non riescono a sopportare le condizioni difficili”. Ora che l’esercito ha preso il controllo del valico di Rafah e l’ha chiuso, i malati e i feriti che sarebbero dovuti andare all’estero per le cure sono rimasti intrappolati nella Striscia di Gaza.

Dopo aver ricevuto il messaggio della figlia di Sabah, ho vissuto un paio d’ore di tensione finché, intorno alle 13.30, Sabah mi ha chiamato. “Quindici minuti dopo aver finito di parlare con te”, ha raccontato, “un colpo di artiglieria ha centrato il primo piano, dove vive mio fratello. In quel momento lui e la sua famiglia non c’erano. Cinque minuti dopo, c’è stato un altro colpo sullo stesso piano”. Dopo altri dieci minuti, quando tutti si stavano preparando a un nuovo esodo, un proiettile ha colpito il secondo piano, dove c’erano nove persone. Nessuno è stato ferito, ma sono rimasti tutti paralizzati dalla paura.

Quando abbiamo parlato per la seconda volta, Sabah e tre suoi familiari erano ancora dentro casa, per raccogliere tutto quello che potevano. Gli altri si sono sparpagliati verso i diversi nuovi punti di rifugio. “Noi andiamo ad Al Mawasi”, mi ha detto lui. Si tratta di una sottile striscia di spiaggia, già piena di tende “vere” e tende di fortuna. Da Muhammad Al Astal, giornalista di radio Al Ajyal, sapevo che ad Al Mawasi non era rimasto neppure un centimetro di terra libera e che, in ogni caso, le tende non si trovavano più.

Nei due giorni precedenti erano stati bombardati i piani superiori degli edifici residenziali nel centro della città. È stata colpita anche una stazione dove si riempiono le bombole di gas, generando una densa nube di fumo nero. Le persone hanno capito che dovevano scappare. Quella mattina Sabah mi aveva detto che “le strade di Rafah ora sono vuote”. Negli ultimi sei mesi e ancora una settimana fa, ha ricordato Sabah, “non si poteva camminare per quanta gente c’era, c’erano bancarelle, bambini che trascinavano contenitori d’acqua, tende sui marciapiedi. Ora sono strade fantasma”. Chi aveva piantato le tende in città le ha chiuse e se l’è portate via, insieme ai materassi e alle stuoie. Qualcuno ha riferito che nella parte est di Rafah le persone in fuga non hanno avuto il tempo di farlo e l’esercito ha incendiato le tende. Il nostro comune amico a Shaboura ha raccontato che le persone hanno cominciato ad andarsene, mentre lui e la sua famiglia erano ancora titubanti. Non hanno una tenda né i soldi per comprarla a un prezzo gonfiato.

Secondo Al Astal, gli abitanti sanno che, come a Gaza e a Khan Yunis, i colpi di artiglieria sono il preludio a un’invasione su vasta scala. In un notiziario Al Astal ha affermato che il numero di persone sfollate per la seconda, terza, e anche sesta volta, è molto più alto della stima di 80mila fornita dall’Unrwa, l’agenzia dell’Onu che si occupa dei rifugiati palestinesi. Le persone che hanno provato a scappare in serata, ha raccontato alla radio, non sono riuscite a trovare un posto tra le migliaia di tende e molte si sono trovate per strada di notte senza sapere dove andare. C’erano bambini che piangevano per la sete e donne in lacrime per quei bambini. Non c’è nessuna istituzione o organizzazione che distribuisce acqua, non ci sono servizi igienici, ha detto Al Astal. Durante il giorno le carovane degli sfollati si trascinano lentamente nel caldo intenso. Nella strada verso le macerie di Khan Yunis non c’è un posto all’ombra per ripararsi. I carri armati israeliani hanno spianato e distrutto tutte le terre verdi e fertili che circondavano la città. Le persone fuggono in un deserto di devastazione e sabbia, ha proseguito Al Astal: “Sanno che devono fuggire dall’annientamento, dalla catastrofe. Ma fuggono verso il nulla”. E ha pronunciato la parola olocausto in arabo.

Il 9 maggio, verso le 17, mentre era a casa di sua sorella nel quartiere di Tel a-Sultan, Sabah mi ha mandato un’altra lista di 36 morti, i cui corpi erano stati recuperati dalle macerie a Rafah nelle ventiquattro ore precedenti: c’erano otto bambini, il più piccolo di otto mesi, e sei donne.

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“Ecocidio a Gaza”: la portata della distruzione ambientale equivale a un crimine di guerra? – Kaamil Ahmed, Damien Gayle e Aseel Mousa

L’analisi satellitare rivelata al Guardian mostra le fattorie devastate e quasi la metà degli alberi del territorio rasi al suolo. Oltre al crescente inquinamento dell’aria e dell’acqua, gli esperti affermano che l’assalto di Israele agli ecosistemi di Gaza ha reso l’area invivibile.

In un magazzino fatiscente a Rafah, Soha Abu Diab vive con le sue tre giovani figlie e più di altri 20 membri della famiglia. Non hanno acqua corrente, né combustibile e sono circondati da liquami correnti e accumuli di rifiuti.

Come il resto degli abitanti di Gaza, temono che l’aria che respirano sia carica di sostanze inquinanti e che l’acqua porti malattie. Al di là delle strade della città si trovano frutteti e uliveti rasi al suolo e terreni agricoli distrutti dalle bombe e dai bulldozer.

“Questa vita non è vita”, dice Abu Diab, sfollato da Gaza City. “C’è inquinamento ovunque: nell’aria, nell’acqua in cui facciamo il bagno, nell’acqua che beviamo, nel cibo che mangiamo, nell’area intorno a noi”.

Per la sua famiglia e per migliaia di altre persone, il costo umano dell’invasione israeliana di Gaza, lanciata dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre, è aggravato da una crisi ambientale.

L’entità totale dei danni a Gaza non è stata ancora documentata, ma l’analisi delle immagini satellitari fornite al Guardian mostra la distruzione di circa il 38-48% della copertura arborea e dei terreni agricoli.

Gli uliveti e i poderi sono ridotti a terra battuta; il suolo e le falde acquifere sono stati contaminati da munizioni e tossine; il mare è invaso da liquami e rifiuti; l’aria inquinata da fumo e particolato.

Ricercatori e organizzazioni ambientaliste affermano che la distruzione avrà enormi effetti sugli ecosistemi e sulla biodiversità di Gaza. L’entità e il potenziale impatto a lungo termine del danno hanno portato a chiedere che venga considerato un “ecocidio” e indagato come un possibile crimine di guerra.

Le Forze di Difesa Israeliane (IDF) affermano di seguire il diritto internazionale e di tentare di limitare i danni alle aree agricole e all’ambiente.

“L’IDF non danneggia intenzionalmente i terreni agricoli e cerca di prevenire l’impatto ambientale in assenza di necessità operative”, ha detto al Guardian un suo portavoce.

“E’ rimasta solo terra nuda”

Immagini satellitari, foto e riprese video da terra mostrano come i terreni agricoli, i frutteti e gli uliveti di Gaza siano stati distrutti dalla guerra.

He Yin, un assistente professore di geografia alla Kent State University negli Stati Uniti, che ha studiato i danni ai terreni agricoli in Siria durante la guerra civile del 2011, ha analizzato le immagini satellitari che mostrano che fino al 48% della copertura arborea di Gaza è andata perduta o danneggiata tra il 7 ottobre e il 21 marzo.

Oltre alla distruzione diretta dovuta all’assalto militare, la mancanza di carburante ha portato le persone a Gaza a dover abbattere gli alberi per ricavarne legna  per cucinare o riscaldarsi.

“Sono scomparsi interi frutteti, è rimasto solo il terreno; non vedi una sola pianta”, dice Yin.

Un’analisi satellitare indipendente condotta da Forensic Architecture (FA), un gruppo di ricerca con sede a Londra che indaga sulla violenza di stato, ha trovato risultati simili.

Prima del 7 ottobre, le fattorie e i frutteti coprivano circa 170 km quadrati (65 miglia quadrate), ovvero il 47% della superficie totale di Gaza. Entro la fine di febbraio, la FA stima, in base ai dati satellitari, che l’attività militare israeliana abbia distrutto più di 65 km quadrati, ovvero il 38% di quella terra.

Oltre ai terreni coltivati, più di 7.500 serre costituivano una parte vitale dell’infrastruttura agricola del territorio.

Quasi un terzo è stato completamente distrutto, secondo l’analisi della FA, dal 90% nel nord di Gaza a circa il 40% attorno a Khan Younis.

“Ciò che resta è solo devastazione”

Samaneh Moafi, vicedirettore della ricerca della FA, descrive la distruzione come sistematica.

I ricercatori hanno utilizzato immagini satellitari per documentare un processo ripetuto in più luoghi, dice: dopo i danni iniziali causati dai bombardamenti aerei, le truppe di terra sono arrivate e hanno smantellato completamente le serre, mentre trattori, carri armati e veicoli hanno sradicato frutteti e campi coltivati.

“Ciò che resta è solo devastazione”, dice Moafi. “Una zona che non è più vivibile”.

L’indagine della FA ha esaminato una fattoria a Rast Jabalia, vicino al confine nordorientale di Gaza, coltivata dalla famiglia Abu Suffiyeh negli ultimi dieci anni. Da allora la famiglia è stata sfollata nel sud. La loro fattoria è stata distrutta e i frutteti completamente sradicati, sostituiti da lavori di sterro militari con una nuova strada scavata al suo interno.

“Non c’è quasi nulla da riconoscere lì”, dice un membro della famiglia. “Nessuna traccia della terra che conoscevamo. L’hanno cancellato totalmente.

“Ora è lo stesso di prima: deserto… Non c’è un solo albero. Nessuna traccia di vita precedente. Se andassi lì, non riuscirei a riconoscere il posto”.

Israele ha affermato che potrebbe tentare di rendere permanenti alcune delle sue demolizioni, con alcuni funzionari che propongono la creazione di una “zona cuscinetto” lungo il confine tra Gaza e Israele, dove si trova gran parte dei terreni agricoli.

Alcune demolizioni hanno già lasciato il posto alle infrastrutture militari israeliane. Gli investigatori open source Bellingcat affermano che circa 1.740 ettari (4.300 acri) di terreno sembrano essere stati bonificati nell’area a sud di Gaza City dove è apparsa una nuova strada, denominata da Israele come Route 749, che attraversa il territorio nella sua intera larghezza.

L’esercito israeliano afferma che la strada era una “necessità militare” costruita per “stabilire un punto d’appoggio operativo nell’area e consentire il passaggio di forze e attrezzature logistiche”.

Un portavoce dell’IDF ha detto: “Hamas spesso opera all’interno di frutteti, campi e terreni agricoli”. Hanno aggiunto che: “L’IDF è impegnata a mitigare i danni civili e ambientali durante l’attività operativa”.

Con gli alberi rasi al suolo, anche il suolo rimasto è minacciato da pesanti bombardamenti e demolizioni. Secondo il Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (UNEP), i pesanti bombardamenti delle aree popolate possono contaminare a lungo termine il suolo e le falde acquifere, sia attraverso le munizioni stesse, sia quando gli edifici crollati rilasciano materiali pericolosi come amianto, prodotti chimici industriali e carburante nell’aria circostante, nel suolo e nelle acque sotterranee.

Dall’inizio della guerra, Israele ha sganciato decine di migliaia di bombe su Gaza, e analisi satellitari di gennaio indicavano che tra il 50% e il 62% di tutti gli edifici erano stati danneggiati o distrutti.

A gennaio 2024, l’UNEP ha stimato che i bombardamenti avevano lasciato 22,9 milioni di tonnellate di detriti e materiali pericolosi, gran parte delle macerie contenenti resti umani.

“Si tratta di una quantità estremamente grande di detriti, soprattutto per un’area così piccola”, afferma. “I componenti dei detriti e delle macerie possono contenere sostanze nocive come amianto, metalli pesanti, contaminanti del fuoco, ordigni inesplosi e sostanze chimiche pericolose”.

Cumuli di rifiuti e acqua avvelenata

L’area intorno al magazzino che Abu Diab affitta con la sua famiglia è una terra desolata. Le acque reflue fuoriescono da una casa bombardata nelle vicinanze e i rifiuti si sono accumulati, come è successo ovunque vicino alla città meridionale di Rafah, che ora ospita gran parte della popolazione di Gaza.

“Le fognature e i rifiuti intorno alla casa sono una grave tragedia. Gatti e cani sono attratti dai rifiuti e poi li spargono lungo le strade”, afferma.

Le continue condizioni di conflitto e assedio hanno portato al collasso totale delle già fragili infrastrutture civili di Gaza, tra cui lo smaltimento dei rifiuti, il trattamento delle acque reflue, la fornitura di carburante e la gestione dell’acqua.

Wim Zwijnenburg, che indaga per l’organizzazione pacifista olandese PAX l’impatto dei conflitti sull’ambiente, afferma: “La guerra generalmente distrugge tutto. A Gaza, le persone stanno esponendosi a ulteriori rischi derivanti dall’inquinamento e dall’inquinamento delle falde acquifere. È la distruzione di tutto ciò da cui dipende la popolazione civile”.

Il comune di Gaza ha elencato i danni alle infrastrutture, rilevando che dal 7 ottobre si sono accumulate 70.000 tonnellate di rifiuti solidi. Discariche improvvisate sono spuntate sul territorio man mano che si accumulavano i rifiuti non raccolti; L’Unrwa, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi, che raccoglie i rifiuti nei campi, non è in grado di operare. Zwijnenburg afferma che PAX ha identificato almeno 60 discariche informali di rifiuti nella zona centrale e meridionale di Gaza.

Ameer, residente a Rafah, afferma che le persone sono sopraffatte dall’inquinamento atmosferico poiché utilizzano legno o plastica per accendere fuochi, le auto funzionano con olio da cucina e dai fumi lasciati dai bombardamenti stessi.

“L’odore è terribile e il fumo proveniente dalle auto è insopportabile – mi ha fatto star male per giorni”, dice. “L’odore degli esplosivi e questi gas terribili derivanti dai bombardamenti in corso stanno causando gravi danni sia alle persone che all’ambiente”.

Quando Israele ha interrotto il rifornimento di carburante a Gaza dopo il 7 ottobre, le conseguenti interruzioni di corrente hanno impedito che le acque reflue potessero essere pompate negli impianti di trattamento, portando a 100.000 metri cubi di liquami al giorno riversati in mare, dice l’UNEP.

“Un atto di ecocidio”

La portata e l’impatto a lungo termine della distruzione hanno portato a chiedere che Israele venga indagato come potenziale crimine di guerra e classificato come ecocidio, che copre i danni arrecati all’ambiente da azioni deliberate o negligenti.

Secondo lo Statuto di Roma, che disciplina la Corte penale internazionale, è un crimine di guerra lanciare intenzionalmente un attacco eccessivo sapendo che causerà danni diffusi, gravi e a lungo termine all’ambiente naturale. Le convenzioni di Ginevra richiedono che le parti in guerra non utilizzino metodi di guerra che causano “danni gravi, diffusi e a lungo termine all’ambiente naturale”.

Saeed Bagheri, docente di diritto internazionale all’Università di Reading, afferma che, sebbene ci siano disaccordi su come applicare questi articoli, ci sono già basi sufficienti per indagare sui danni arrecati all’ambiente di Gaza.Perdita di vegetazione a Gaza tra il 2021 e il 2024 e perdita di serre nel 2024. Immagini: Architettura forense

Abeer al-Butmeh, coordinatore della Rete delle ONG ambientaliste palestinesi, afferma: “L’occupazione israeliana ha completamente danneggiato tutti gli elementi della vita e tutti gli elementi ambientali a Gaza – hanno completamente distrutto l’agricoltura e la fauna selvatica.

“Quello che sta accadendo è, sicuramente, un ecocidio”, dice. “Israele  danneggiando completamente l’ambiente di Gaza nel lungo termine, non solo nel breve termine.

“I palestinesi hanno un forte legame con la terra: sono molto legati alla loro terra e anche al mare”, afferma. “La gente a Gaza non può vivere senza pesca, senza agricoltura.

La FA afferma: “La distruzione dei terreni agricoli e delle infrastrutture a Gaza è un atto deliberato di ecocidio.

“Le fattorie e le serre prese di mira sono fondamentali per la produzione alimentare locale per una popolazione già sotto un assedio decennale. Gli effetti di questa sistematica distruzione agricola sono esacerbati da altri atti deliberati di privazione di risorse critiche per la sopravvivenza palestinese a Gaza”.

Traduzione di Grazia Parolari “Tutti gli esseri senzienti sono moralmente uguali” – Invictapalestina.org

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La distruzione di Gaza: reazione o progetto preparato da tempo? – Giovanni Vighetti

Non si tratta di fare disquisizioni semantiche sul termine genocidio: quello che avviene in Palestina, nonostante il cerchiobottismo dei paesi occidentali che non prendono posizione contro l’attuale Governo d’Israele che vede nella guerra, coinvolgendo la popolazione civile, l’unico mezzo per la soluzione del conflitto, è sotto gli occhi di tutti: il popolo palestinese è oggetto di un massacro indiscriminato e sospinto drammaticamente verso una nuova Nakba, ad iniziare dall’espulsione manu militari dalla Striscia di Gaza. Contemporaneamente in Cisgiordania aumentano le violenze dei coloni ebrei contro i Palestinesi, e non solo da parte degli ultraortodossi, con l’esproprio forzato di terre, uccisioni impunite e sostenute dall’esercito israeliano (IDF Israel Defense Force) che, come tutti gli eserciti che entrano in guerra, si è macchiato di gravi e ripetute violazioni del diritto internazionale umanitario.

Va detto che se Hamas, nella sua Costituzione, non riconosce il diritto di esistenza allo Stato di Israele è altrettanto vero che Israele da sempre nega il diritto all’esistenza di uno Stato palestinese: due popoli in piena dicotomia che, per ragioni opposte, hanno rifiutato la soluzione dei due Stati che rimane l’unica strada per cercare una via d’uscita dallo storico e devastante conflitto tra Israele e il popolo palestinese (https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2024/05/07/antisemitismo-e-critica-di-israele-di-cosa-parliamo/). Strada obbligata ma da sempre in salita e controvento sia per il fanatismo di Hamas sia per quello di Israele perché va sottolineato che le dichiarazioni del primo ministro di Israele Netanyahu sono perfettamente in linea, a distanza di oltre trent’anni, con quelle dell’ex primo ministro di Israele Ariel Sharon: «Non si restituisce ciò che ci appartiene. E la Giudea e la Samaria ci appartengono: da migliaia, migliaia di anni. Da sempre. La Giudea e la Samaria sono Israele! E così la Striscia di Gaza. […] No, lo ripeto, non permetteremo mai di installarvi un secondo Stato palestinese. Mai! Non fatevi illusioni» (intervista a Oriana Fallaci, settembre 1982).

La violenza di Hamas è stata feroce e inumana ma non giustifica la reazione spropositata, altrettanto feroce e inumana di Israele sul popolo palestinese. Probabilmente si dovrebbe smettere di utilizzare il termine “reazione” perché oggettivamente è ben difficile credere – e in effetti ben pochi ci credono – all’alibi politico e militare israeliano dell’essere stati colti di sorpresa dalla tragedia del 7 ottobre. Israele è il Paese che realizza, ed utilizza tramite il Mossad, la tecnologia di spionaggio più avanzata e i già noti software-spia Pegasus e Predator (in grado di aggirare qualunque difesa degli smartphone utilizzandoli poi, ad esempio, come telecamere e microfoni per carpire qualunque tipo di informazione) oggi risultano superati dal software-spia della israeliana start up Toka, in grado di inserirsi in qualunque telecamera di sorveglianza di qualunque città, avendo così il controllo di quanto avviene, con la possibilità di modificare le immagini in diretta o registrate e alterare quindi la realtà senza lasciare alcuna traccia. Non è immaginabile che questi sistemi di controllo non siano utilizzati proprio sull’area di Gaza, su cui l’intelligence israeliana attua del resto anche un ferreo controllo “tradizionale”, e la preparazione dell’atto terroristico del 7 ottobre non è stata compiuta da una cellula di pochi militanti ma con un’azione corale che ha coinvolto migliaia di elementi e ha richiesto mesi di esercitazioni che, clamorosamente, oggi si scopre essersi svolte alla luce del sole e apparse anche su Telegram.

«Un indizio è un indizio, due indizi sono una coincidenza, ma tre indizi fanno una prova» è una frase famosa di Aghata Christie. In questo caso gli indizi che possono sostenere la tesi che Israele fosse al corrente dell’attacco ma non l’abbia prevenuto per poterlo poi utilizzare nella rappresaglia su Gaza, e in generale contro i palestinesi, sono più di tre: 1) nelle settimane precedenti il 7 ottobre la CIA aveva rilanciato report degli stessi servizi israeliani che segnalavano movimenti anomali a Gaza; 2) l’intelligence egiziana già a fine settembre aveva segnalato che stava per succedere qualcosa di grosso; 3) Yigal Carmon, storico agente segreto del Mossad e già consigliere per l’antiterrorismo per gli ex primi ministri Shamir e Rabin ha confermato, in una intervista apparsa sul Corriere della Sera del 2 novembre 2023, di avere avvertito della minaccia imminente di Hamas con interventi circostanziati di MEMRI, il suo centro di analisi di fonti aperte del Medio Oriente; 4) per mesi dal bunker della base di Nahal Oz, non distante da Gaza, sono stati inviati avvertimenti su strani pattugliamenti degli jihadisti, che evidentemente sono serviti per individuare i punti dove squarciare la recinzione e invadere il sud del Paese; 5) il New York Times ha pubblicato un’indiscrezione clamorosa sull’attuale fase della guerra in Palestina: secondo il quotidiano americanoIsraele sarebbe stato a conoscenza del piano d’attacco di Hamas un anno prima del 7 ottobre 2023. I militari di Tel Aviv avrebbero infatti avuto tra le mani un documento – intitolato Muro di Gerico” – con tutti i dettagli sul piano terroristico di Hamas, che poi è stato fedelmente eseguito!

Oggi il Governo reazionario di Israele, fortemente sbilanciato sulla visione degli ultraortodossi, estremista («È la nostra terra per diritto divino») e razzista («I palestinesi sono animali, non sono umani, non hanno ragione di vivere»: frase pronunciata da Eli Ben-Dahan Viceministro della Difesa di Israele), punta a utilizzare al massimo la congiuntura di guerra per ridimensionare i territori e la presenza dei palestinesi sia con la totale distruzione ed occupazione di Gaza sia con l’ampliamento esponenziale degli insediamenti dei coloni in Cisgiordania, dove, nel silenzio generale, è in corso l’altra faccia, non meno violenta, della stessa guerra che mira alla deportazione in Giordania del popolo palestinese con la parola d’ordine «Nakba shtaim» (seconda Nakba). E l’ormai prossima invasione militare di Rafah va drammaticamente in questa direzione.

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Sì, è un genocidio! – Amos Goldberg

Sì, è un genocidio. È difficile e doloroso ammetterlo, ma nonostante tutto, e nonostante tutti i nostri sforzi per pensare diversamente, dopo sei mesi di guerra brutale non possiamo più evitare questa conclusione. La storia ebraica sarà d’ora in poi macchiata dal marchio di Caino per il “più orribile dei crimini”, che non potrà essere cancellato dalla sua fronte. È così che sarà considerata nel giudizio della storia per le generazioni a venire.

Da un punto di vista giuridico, non si sa ancora cosa deciderà la Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia, anche se, alla luce delle sue sentenze emesse fino ad ora e alla luce dei rapporti sempre più diffusi di giuristi, organizzazioni internazionali e giornalisti investigativi, la traiettoria del futuro giudizio sembra abbastanza chiara. Già il 26 gennaio, la Corte internazionale di giustizia ha stabilito in modo schiacciante (14 voti contro 2) che Israele potrebbe commettere un genocidio a Gaza. Il 28 marzo, dopo che Israele ha deliberatamente affamato la popolazione di Gaza, la Corte ha emesso ulteriori ordini (questa volta con il voto di 15 a 1, con l’unico dissenso del giudice israeliano Aharon Barak) chiedendo a Israele di non negare ai palestinesi i loro diritti protetti dalla Convenzione sul genocidio. Il rapporto ben argomentato e ragionato della relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani nei Territori palestinesi occupati, Francesca Albanese, è giunto a una conclusione più decisa e costituisce un ulteriore tassello per comprendere che Israele sta effettivamente commettendo un genocidio. Il rapporto dettagliato e periodicamente aggiornato del dottor Lee Mordechai [Heb], che raccoglie informazioni sul livello di violenza israeliana a Gaza, è giunto alla stessa conclusione. Importanti accademici come Jeffrey Sachs, professore di economia alla Columbia University (ebreo con un atteggiamento adesivo nei confronti del sionismo tradizionale), con cui i capi di Stato di tutto il mondo si consultano regolarmente su questioni internazionali, parlano del genocidio israeliano come di qualcosa di scontato. Eccellenti reportage investigativi come quello [Heb] di Yuval Avraham in Local Call, e in particolare la sua recente indagine sui sistemi di intelligenza artificiale utilizzati dall’esercito per selezionare gli obiettivi ed eseguire gli assassinii, avvalorano ulteriormente questa accusa. Il fatto che l’esercito abbia permesso, ad esempio, l’uccisione di 300 persone innocenti e la distruzione di un intero quartiere residenziale per eliminare un comandante di brigata di Hamas dimostra che gli obiettivi militari sono quasi obiettivi incidentali per l’uccisione di civili e che ogni palestinese a Gaza è un obiettivo da uccidere. Questa è la logica del genocidio.

Sì, lo so: “Sono tutti antisemiti o ebrei che odiano se stessi”. Solo noi israeliani, con la mente alimentata dagli annunci del portavoce dell’IDF ed esposta solo alle immagini setacciate per noi dai media israeliani, vediamo la realtà com’è. Come se non fosse stata scritta una letteratura interminabile sui meccanismi di negazione sociale e culturale delle società che commettono gravi crimini di guerra. Israele è davvero un caso paradigmatico di tali società, un caso che sarà ancora insegnato in tutti i seminari universitari del mondo che trattano l’argomento.

Ci vorranno anni prima che il tribunale dell’Aia emetta il suo verdetto, ma non dobbiamo guardare a questa situazione catastrofica solo attraverso le lenti giuridiche. Ciò che sta accadendo a Gaza è un genocidio perché il livello e il ritmo delle uccisioni indiscriminate, della distruzione, delle espulsioni di massa, degli sfollamenti, della carestia, delle esecuzioni, della cancellazione delle istituzioni culturali e religiose, dello schiacciamento delle élite (compresa l’uccisione di giornalisti) e della disumanizzazione generalizzata dei palestinesi creano un quadro complessivo di genocidio, di un deliberato schiacciamento consapevole dell’esistenza palestinese a Gaza. Nel modo in cui normalmente intendiamo tali concetti, la Gaza palestinese come complesso geografico-politico-culturale-umano non esiste più. Il genocidio è l’annientamento deliberato di una collettività o di una parte di essa, non di tutti i suoi individui. Ed è quello che sta accadendo a Gaza. Il risultato è senza dubbio un genocidio. Le numerose dichiarazioni di sterminio da parte di alti funzionari del Governo israeliano e il tono generale di sterminio del discorso pubblico, giustamente sottolineato dall’editorialista di Haaretz Carolina Landsman, indicano che questa era anche l’intenzione.

Gli israeliani pensano, erroneamente, che per essere considerato tale un genocidio debba assomigliare all’Olocausto. Immaginano treni, camere a gas, forni crematori, fosse di sterminio, campi di concentramento e di sterminio e la sistematica persecuzione a morte di tutti i membri del gruppo di vittime fino all’ultimo. Un evento del genere non si è verificato a Gaza. In modo simile a quanto accaduto nell’Olocausto, la maggior parte degli israeliani immagina che il collettivo delle vittime non sia coinvolto in attività violente o in un conflitto vero e proprio, e che gli assassini li sterminino a causa di una folle ideologia senza senso. Questo non è il caso di Gaza. Il brutale attacco di Hamas del 7 ottobre è stato un crimine atroce e terribile. Circa 1.200 persone sono state uccise o assassinate, tra cui più di 850 civili israeliani (e stranieri), compresi molti bambini e anziani. Circa 240 israeliani vivi sono stati rapiti a Gaza e sono state commesse atrocità come lo stupro. Si tratta di un evento con effetti traumatici profondi, catastrofici e duraturi per molti anni, certamente per le vittime dirette e la loro cerchia immediata, ma anche per la società israeliana nel suo complesso. L’attacco ha costretto Israele a rispondere per autodifesa. Tuttavia, sebbene ogni caso di genocidio abbia un carattere diverso, nella portata e nelle caratteristiche dell’omicidio, il denominatore comune della maggior parte di essi è che sono stati compiuti per un autentico senso di autodifesa. Dal punto di vista giuridico, un evento non può essere sia autodifesa che genocidio. Queste due categorie giuridiche si escludono a vicenda. Ma storicamente la legittima difesa non è incompatibile con il genocidio, anzi di solito ne è una delle cause principali, se non la principale.

A Srebrenica – su cui il Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia ha stabilito in due diversi gradi di giudizio che si è trattato di un genocidio nel luglio 1995 – sono stati uccisi “solo” 8.000 uomini e giovani bosniaci musulmani, di età superiore ai 16 anni. Le donne e i bambini erano stati espulsi prima. Le forze serbo-bosniache furono responsabili dell’omicidio, la loro offensiva ebbe luogo nel mezzo di una sanguinosa guerra civile, durante la quale entrambe le parti commisero crimini di guerra (anche se i serbi ne commisero molti di più) e che scoppiò in seguito alla decisione unilaterale dei croati e dei musulmani bosniaci di staccarsi dalla Jugoslavia e di creare uno Stato bosniaco indipendente, in cui i serbi erano una minoranza. I serbi bosniaci, con il triste ricordo delle persecuzioni e degli omicidi della Seconda guerra mondiale, si sono sentiti minacciati. La complessità del conflitto, in cui nessuna delle due parti era innocente, non ha impedito alla Corte penale internazionale di riconoscere il massacro di Srebrenica come un atto di genocidio, superiore agli altri crimini di guerra commessi dalle parti, poiché questi crimini non possono giustificare il genocidio. La Corte ha spiegato che le forze serbe hanno intenzionalmente distrutto, attraverso l’omicidio, l’espulsione e la distruzione, l’esistenza bosniaco-musulmana a Srebrenica. Oggi, tra l’altro, i musulmani bosniaci vivono di nuovo lì e alcune delle moschee distrutte sono state ripristinate. Ma il genocidio continua a perseguitare i discendenti degli assassini e delle vittime.

Il caso del Ruanda è totalmente diverso. Per lungo tempo, nell’ambito della struttura di controllo coloniale belga, basata sul divide et impera, il gruppo minoritario tutsi ha governato e oppresso il gruppo maggioritario hutu. Tuttavia, negli anni ’60 la situazione si è ribaltata e, dopo l’indipendenza dal Belgio nel 1962, gli hutu hanno preso il controllo del Paese e hanno adottato una politica oppressiva e discriminatoria nei confronti dei tutsi, anche questa volta con il sostegno delle ex potenze coloniali. A poco a poco, questa politica divenne intollerabile e nel 1990 scoppiò una brutale e sanguinosa guerra civile, iniziata con l’invasione di un esercito tutsi, il Fronte Patriottico Ruandese, composto principalmente da tutsi fuggiti dal Ruanda dopo la caduta del dominio coloniale. Di conseguenza, agli occhi del regime hutu, i tutsi vennero identificati collettivamente con un vero e proprio nemico militare. Durante la guerra, entrambe le parti commisero gravi crimini sul suolo ruandese e su quello dei Paesi limitrofi in cui la guerra si estese. Nessuna delle due parti era assolutamente innocente o assolutamente malvagia. La guerra civile si è conclusa con gli Accordi di Arusha, firmati nel 1993, che avrebbero dovuto coinvolgere i Tutsi nelle istituzioni governative, nell’esercito e nelle strutture statali. Ma questi accordi sono crollati e nell’aprile del 1994 l’aereo del presidente hutu del Ruanda è stato abbattuto. Ancora oggi non si sa chi abbia abbattuto l’aereo e si ritiene che si tratti di combattenti hutu. Tuttavia, gli hutu erano convinti che il crimine fosse stato commesso da combattenti della resistenza tutsi, e questo era percepito come una vera e propria minaccia per il Paese. Il genocidio dei Tutsi era alle porte. La motivazione ufficiale dell’atto di genocidio era la necessità di eliminare una volta per tutte la minaccia esistenziale tutsi.

Il caso dei Rohingya, che l’amministrazione Biden ha recentemente riconosciuto come genocidio, è di nuovo molto diverso. Inizialmente, dopo l’indipendenza del Myanmar (ex Birmania) nel 1948, i Rohingya musulmani erano considerati cittadini alla pari e parte dell’entità nazionale, prevalentemente buddista. Ma nel corso degli anni, e soprattutto dopo l’instaurazione della dittatura militare nel 1962, il nazionalismo birmano si è identificato con diversi gruppi etnici dominanti, principalmente buddisti, di cui i Rohingya non facevano parte. Nel 1982 e successivamente sono state emanate leggi sulla cittadinanza che hanno privato la maggior parte dei Rohingya della loro cittadinanza e dei loro diritti. Erano visti come stranieri e come una minaccia per l’esistenza dello Stato. I Rohingya, tra i quali in passato ci sono stati piccoli gruppi di ribelli, si sono sforzati di non farsi trascinare nella resistenza violenta, ma nel 2016 molti hanno ritenuto di non poter impedire la loro privazione della cittadinanza, la repressione, la violenza dello Stato e della folla contro di loro e la loro graduale espulsione, e un movimento Rohingya clandestino ha attaccato le stazioni di polizia del Myanmar. La reazione è stata brutale. Le incursioni delle forze di sicurezza del Myanmar hanno espulso la maggior parte dei Rohingya dai loro villaggi, molti sono stati massacrati e i loro villaggi completamente cancellati. Quando nel marzo 2022 il Segretario di Stato Antony Blinken ha letto la dichiarazione al Museo dell’Olocausto di Washington 2022, riconoscendo che ciò che è stato fatto ai Rohingya è stato un genocidio, ha detto che nel 2016 e 2017, circa 850.000 Rohingya sono stati deportati in Bangladesh e circa 9.000 di loro sono stati uccisi. Questo è stato sufficiente per riconoscere che quanto è stato fatto ai Rohingya è l’ottavo evento di questo tipo che gli Stati Uniti considerano un genocidio, a parte l’Olocausto.

Il caso dei Rohingya ci ricorda ciò che molti studiosi di genocidi hanno stabilito in termini di ricerca e che è molto rilevante per il caso di Gaza: un legame tra pulizia etnica e genocidio. Il legame tra i due fenomeni è duplice ed entrambi sono rilevanti per Gaza, dove la stragrande maggioranza della popolazione è stata espulsa dai propri luoghi di residenza e solo il rifiuto dell’Egitto di assorbire masse di palestinesi sul proprio territorio ha impedito loro di lasciare Gaza. Da un lato, la pulizia etnica segnala la volontà di eliminare il gruppo nemico a qualsiasi costo e senza compromessi, e quindi scivola facilmente nel genocidio o ne fa parte. Dall’altro lato, la pulizia etnica di solito crea condizioni (ad esempio, malattie e carestie) che permettono o causano lo sterminio parziale o completo del gruppo di vittime. Nel caso di Gaza, le “zone di rifugio sicuro” sono spesso diventate trappole mortali e zone di sterminio deliberato, e in questi rifugi Israele affama deliberatamente la popolazione. Per questo motivo, non sono pochi i commentatori che ritengono che la pulizia etnica sia l’obiettivo dei combattimenti a Gaza.

Anche il genocidio degli armeni durante la Prima Guerra Mondiale aveva un contesto. Durante gli anni di declino dell’Impero Ottomano, gli armeni svilupparono una propria identità nazionale e chiesero l’autodeterminazione. Il loro diverso carattere religioso ed etnico, così come la loro posizione strategica al confine tra l’impero ottomano e quello russo, li rendeva una popolazione pericolosa agli occhi delle autorità ottomane. Già alla fine del XIX secolo si verificarono orribili episodi di violenza contro gli armeni, per cui alcuni armeni simpatizzavano con i russi e li vedevano come potenziali liberatori. Piccoli gruppi armeno-russi collaborarono addirittura con l’esercito russo contro i turchi, invitando i loro confratelli oltre confine a unirsi a loro, il che portò a un’intensificazione del senso di minaccia esistenziale agli occhi del regime ottomano. Questo senso di minaccia, sviluppatosi durante una profonda crisi dell’impero, fu un fattore importante nello sviluppo del genocidio armeno, che diede inizio anche a un processo di espulsione.

Anche il primo genocidio del XX secolo fu eseguito da un concetto di autodifesa da parte dei coloni tedeschi nei confronti delle popolazioni Herero e Nama nell’Africa sud-occidentale (l’attuale Namibia). A seguito della severa repressione da parte dei coloni tedeschi, i locali si ribellarono e in un brutale attacco uccisero circa 123 (forse più) uomini disarmati. Il senso di minaccia nella piccola comunità di coloni, che contava solo poche migliaia di persone, era reale e la Germania temeva di aver perso la sua capacità di deterrenza nei confronti dei nativi. La risposta fu adeguata alla minaccia percepita. La Germania inviò un esercito guidato da un comandante sfrenato e anche lì, per un senso di autodifesa, la maggior parte di questi uomini delle tribù fu uccisa tra il 1904 e il 1908: alcuni con uccisioni dirette, altri in condizioni di fame e sete imposte dai tedeschi (di nuovo con la deportazione, questa volta nel deserto di Omaka) e altri ancora in crudeli campi di internamento e di lavoro.

Processi simili si sono verificati durante l’espulsione e lo sterminio delle popolazioni indigene in Nord America, soprattutto nel corso del XIX secolo.

In tutti questi casi, gli autori del genocidio hanno avvertito una minaccia esistenziale, più o meno giustificata, e il genocidio è avvenuto in risposta. La distruzione della collettività delle vittime non era contraria a un atto di autodifesa, ma a un autentico motivo di autodifesa.

Nel 2011 ho pubblicato su Haaretz un breve articolo [Heb] sul genocidio nell’Africa sud-occidentale, che si concludeva con le seguenti parole: «Possiamo imparare dal genocidio degli Herero e dei Nama come la dominazione coloniale, basata su un senso di superiorità culturale e razziale, possa sfociare, di fronte a una ribellione locale, in crimini orribili come l’espulsione di massa, la pulizia etnica e il genocidio. Il caso della ribellione degli Herero dovrebbe servire da spaventoso segnale di avvertimento per noi qui in Israele, che ha già conosciuto una Nakba nella sua storia».

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Le università trasformate in fabbriche da disciplinare – Branko Milanovic

Sono molti i casi di cui sono stato testimone, e di cui ho letto, in cui la polizia sgombera le università dagli studenti in protesta. Gli agenti arrivano per ordine delle autorità scontente delle oasi di libertà create dagli studenti. Arrivano armati, picchiano le ragazze e i ragazzi, e pongono fine alla protesta. Le amministrazioni universitarie si schierano con gli studenti, invocano «l’autonomia dell’Università» (ovvero il diritto a essere esenti dal controllo poliziesco), si dimettono o vengono rimossi. Questo di solito è il canovaccio.

Nell’attuale ondata di manifestazioni per la libertà di parola in corso negli Stati uniti la novità, per me, è che gli amministratori delle Università abbiano chiamato la polizia perché attaccasse gli studenti. In almeno un caso, a New York, la polizia era confusa dal fatto di essere stata coinvolta, e riteneva che questo fosse controproducente. Si potrebbe comprendere una simile attitudine da parte degli amministratori all’interno di un paese autoritario, nel quale sono stati nominati da chi è al potere per mantenere l’ordine nei campus. In quel caso, ovviamente, in qualità di obbedienti funzionari, sosterrebbero la polizia nelle sue attività di sgombero, anche se difficilmente avrebbero l’autorità di farla intervenire. Ma negli Usa gli amministratori universitari non sono nominati da Biden, né dal Congresso. Perché dunque attaccano i propri studenti? Sono forse delle persone malvagie che amano picchiare i più giovani?

La risposta è no. Non lo sono. Fanno semplicemente il lavoro sbagliato. Non vedono il proprio ruolo come quello che è tradizionalmente il ruolo delle università, e cioè di trasmettere alle generazioni più giovani i valori di libertà, moralità, compassione, abnegazione, empatia o qualunque altra qualità sia considerata desiderabile.

Il loro ruolo oggi è di essere gli amministratori delegati di fabbriche che vengono chiamate Università. In queste fabbriche si trova un materiale grezzo chiamato studenti che a loro volta esse, a intervalli regolari di un anno, trasformano in laureati. Di conseguenza, ogni turbativa del processo di produzione è equiparabile a un’interferenza in una catena di approvvigionamento. Deve essere eliminata il prima possibile affinché la produzione possa riprendere. Gli studenti laureandi devono essere «messi fuori», i nuovi fatti entrare, i loro soldi intascati, vanno trovati i donatori, e assicurati più fondi. Se interferiscono col processo, gli studenti devono venire disciplinati, se necessario con la forza. Deve essere fatta intervenire la polizia, e l’ordine ripristinato.

Agli amministratori non interessano i valori, ma i profitti. Il loro lavoro è equivalente a quello del Ceo di Walmart, Cvs o Burger King. Si servono delle chiacchiere sui valori, o su «ambienti intellettualmente stimolanti», «discussioni vibranti» (o qualsiasi cosa!), come viene descritto in un articolo uscito di recente su The Atlantic, allo stesso modo dei consueti discorsi promozionali, sul rendimento, in cui i dirigenti delle compagnie oggi si cimentano continuamente. Non tutti credono in questi discorsi. Ma è d’obbligo tenerli. È un’ipocrisia ampiamente accettata. Il punto è che un simile livello di ipocrisia non è ancora all’ordine del giorno nelle Università perché non le si considerava, per ragioni storiche, esattamente alla stregua di fabbriche di salsicce. Il loro ruolo avrebbe dovuto essere quello di produrre persone migliori. Ma questo è stato dimenticato nella corsa al profitto e ai soldi dei donatori. Così le fabbriche di salsicce non possono fermarsi, e la polizia deve intervenire.

Per gentile concessione dell’autore, professore alla City University di New York. Traduzione di Giovanna Branca

L’articolo è tratto da il manifesto del 5 maggio

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L’Impero Statunitense alimenta deliberatamente odio e violenza in Medio Oriente – Caitlin Johnstone

A volte vedo persone esprimere perplessità sul fatto che gli Stati Uniti appoggino un Genocidio in Medio Oriente sapendo che ciò radicalizzerà la regione contro di loro, pensando erroneamente che ciò vada contro gli obiettivi strategici degli Stati Uniti.

E vorrei chiedergli: avete dormito nell’ultimo quarto di secolo? Non avete visto come l’Impero Statunitense utilizza il radicalismo causato dalla violenza militare in Medio Oriente per giustificare un maggiore espansionismo militare nella regione, portando ad ulteriore violenza militare?

Questo è ciò che è stata la cosiddetta “Guerra al Terrorismo” dall’11 settembre. I dati mostrano inequivocabilmente che l’interventismo militare guidato dagli Stati Uniti in Medio Oriente in nome della lotta al “terrorismo” porta in realtà più persone ad unirsi a organizzazioni designate dagli Stati Uniti come terroristiche e a commettere più attacchi terroristici, perché nulla potrà radicalizzarli contro gli Stati Uniti e i suoi alleati come veder uccidere e sfollare i loro cari proprio davanti ai loro occhi . Ma l’interventismo continua comunque. Perché? Perché il Medio Oriente, ricco di risorse, è una regione geostrategica cruciale per il dominio planetario, e l’Impero Statunitense vuole avere lì una maggiore presenza militare.

In realtà è una brillante truffa auto-rinforzante. Funziona così:

Passo 1: Uccidere persone in Medio Oriente in nome della lotta contro il “terrorismo”.

Passo 2: Questo fa sì che le persone odino noi e i nostri alleati e vogliano vendicarsi con la violenza.

Passo 3: Designare queste persone come “terroristi”.

Passo 4: Inviare più macchine da guerra nella regione per combattere il “terrorismo”.

Passo 5: Uccidere più persone in Medio Oriente in nome della lotta al “terrorismo”.

Vedete come questo ciclo si ripeterebbe ancora e ancora, portando a un sempre maggiore espansionismo militare statunitense in Medio Oriente? Questo è esattamente ciò a cui abbiamo assistito, ed è esattamente ciò che vuole l’Impero Statunitense.

Perché pensate che l’Impero Statunitense spenda così tanta energia per sostenere le dittature in tutto il Medio Oriente, nonostante affermi di sostenere la democrazia? In questo modo possono imporre la loro volontà sulla regione senza conseguenze significative in termini di controllo geostrategico. Possono far piovere liberamente esplosivi militari sull’Asia occidentale senza perdere alleati e fiancheggiatori, e tutto ciò che accadrà sarà una marea di odio radicalizzato in tutta la popolazione, cosa che comunque desiderano.

Se le nazioni ricche di petrolio del Medio Oriente avessero mai un governo democratico, i loro governi si allontanerebbero rapidamente dalle alleanze e dai partenariati ufficiali e non ufficiali con gli Stati Uniti e Israele, e con ogni probabilità formerebbero un proprio potente blocco a sostegno dei propri interessi. Poiché l’Impero aiuta a sopprimere la volontà delle persone in quella regione installando e sostenendo invece dittatori, l’unica risorsa che alcune persone sentono di avere per vedere la loro volontà attuata in quella direzione è la violenza non statale conosciuta come “terrorismo”.

Un giorno ci sarà un attacco violento su larga scala contro gli Stati Uniti come rappresaglia per il loro Genocidio a Gaza, e la risposta degli Stati Uniti sarà con assoluta certezza un maggiore espansionismo militare in Medio Oriente. Tutto ciò si adatta perfettamente agli amministratori dell’Impero Statunitense. Lo vogliono e lavorano attivamente per realizzarlo.

L’Impero centralizzato degli Stati Uniti rende il mondo più odioso, più violento, più pericoloso e più offensivo. L’Umanità non potrà conoscere la pace finché questa struttura di potere che domina il mondo non sarà stata gettata nella pattumiera della storia.

Traduzione: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org

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Dal fiume al deserto: le mie riflessioni sui 76 anni di Israele – Gilad Atzmon

Gli storici spesso ci dicono che la Storia non si ripete mai. Il filosofo sostiene al contrario che la storia troppo spesso si ripete per una ragione molto ovvia. Spesso i suoi protagonisti sono le stesse persone.

Negli ultimi 10 giorni ho lavorato in Polonia facendo concerti, registrazioni e seminari. Amo questo Paese, mi è sempre sembrato casa: è bello, è pulito, ha una ricca storia e anche una prospettiva di futuro. Le persone sono gentili ed educate, un po’ vecchio stile. La Polonia, come altri Paesi dell’Europa dell’Est, mi ha sempre ricordato ciò che il mio Paese natale avrebbe voluto essere ma non è mai stato.

Tra un impegno lavorativo e l’altro ero in tournée in campagna. Camminando lungo la splendida riva del fiume Vistola a Toruń mi sono chiesto: “Come avevano potuto i miei antenati accettare la folle idea di fuggire da questo magnifico e bellissimo Paese e trasferirsi nel deserto come pionieri sionisti?”.

La verità è che i cosiddetti primi sionisti prevedevano un disastro. Non potevano prevedere un lieto fine per gli ebrei dell’Europa dell’Est. Molto spesso concordavano con l’argomentazione “antisemita” secondo cui c’è qualcosa di profondamente inquietante nella vita della diaspora ebraica. I primi sionisti laburisti in realtà accusavano l’identità ebraica della diaspora di non essere proletaria. Crearono l’Aliya (Migrazione) e predicarono l’Aliya. Sono “ascesi” nella promessa di un nuovo futuro, un universo in cui gli ebrei diventassero ordinari e proletari. Herzl, egli stesso un borghese ebreo assimilato, definì il sogno sionista in poche parole: diventare “un popolo come tutti gli altri”. I sionisti laburisti desideravano amare i loro vicini e si aspettavano di essere ricambiati. Volevano liberarsi della propria coscienza, ma rimanere ebrei. Volevano davvero l’irraggiungibile. Non poteva funzionare; quando si sceglie di liberarsi dell’ebraicità, non rimane più nulla.

Quando mio nonno sbarcò sulla costa di Tel Aviv nel 1936 era già un devoto terrorista dell’Irgun. Mio nonno era un revisionista di destra. È finito in un conflitto perché lui stesso era il conflitto. Poteva comprendere la sua essenza solo in termini di battaglia. Ha combattuto gli inglesi, gli arabi, i sionisti laburisti, gli antisemiti, i comunisti, in breve: ha combattuto contro tutti.

Tuttavia, l’inizio di Israele era promettente. I nuovi Ebrei erano innamorati della loro trasformazione proletaria, ma le crepe si aprirono presto. La Nakba del 1948 segnò, di fatto, la fine di Israele. Era un peccato che non poteva essere espiato. Lo scontro tra le due realtà non poteva che aggravarsi. Ai nuovi ebrei mancava la necessaria affinità culturale e spirituale per l’armonia e la riconciliazione. I palestinesi, da parte loro, si rifiutarono di scomparire. La loro Resistenza non ha fatto altro che crescere.

Gli intelligenti tra i nuovi ebrei videro tutto fin dall’inizio. Alcuni addirittura pensavano che la scelta del linguaggio della Bibbia come nuovo mezzo di comunicazione israelita potesse riversare la brutalità dell’Antico Testamento nella nascente nazione. Le persone che parlano la lingua di Dio, sostenevano, a un certo punto potrebbero pensare di essere Dio stesso. Vi ricorda qualcosa?

Alcuni israeliani non approvavano la Nakba, la Pulizia Etnica della popolazione nativa del Paese, ma in generale il neonato Stato Ebraico si sentiva a suo agio con il conflitto emergente con gli arabi. Perché? Perché il DNA della sopravvivenza ebraica è sintonizzato sull’azione all’interno di un ambiente ostile ed esilico. Se il nemico non ci fosse, semplicemente lo inventerebbero. Ciò è davvero tragico, ma spiega perché non esiste una soluzione collettiva alla questione ebraica: ciò che unisce gli ebrei tra loro li separa dagli altri. Alcuni di conseguenza si resero conto già nei primi giorni di Israele che il sionismo, che in pratica prometteva di “risolvere la questione ebraica”, la aveva semplicemente spostata in un nuovo luogo.

Negli ultimi 20-30 anni ogni israeliano pensante che poteva assicurarsi una cittadinanza straniera lo ha fatto. Gli israeliani e soprattutto i discendenti dei pionieri sionisti dell’Europa dell’Est potevano vedere che la fine stava arrivando. Potevano vedere che il progetto era fallito. Centinaia di migliaia di israeliani, compresi i miei parenti, si sono assicurati il ​​passaporto polacco poiché la cittadinanza polacca garantisce alle persone la residenza nell’Unione Europea. Sono praticamente pronti a emigrare di nuovo.

A 127 anni dal il Primo Congresso Sionista, a poco più di un secolo dalla Dichiarazione Balfour e 76 anni dopo l’adempimento della promessa sionista, tutti gli indizi indicano che gli ebrei stanno per emigrare nuovamente. Gli israeliani vedono il loro Paese strangolato da un fronte unito di Resistenza. Possono vedere che i loro nemici sono feroci e seguono una strategia. Possono vedere che la loro stessa dirigenza è paralizzata e divisa. Naturalmente si sono accorti che il mondo volta loro le spalle, vedono il loro simbolo nazionale diventare agli occhi di molti la nuova svastica.

Mi ci sono voluti anni per accettare che la storia ebraica possiede un’affascinante dinamica meccanica. A differenza della storia di altri popoli che presenta un elemento di imprevedibilità, la storia ebraica funziona come un orologio. I disastri si ripetono in cicli quasi matematicamente accurati. Questi cicli storici sono definiti ripetutamente da un crescente senso di impunità e arroganza che alla fine si scontra con un’improvvisa ondata di rabbia tutt’intorno. Questi eventi avvengono sempre in quel momento epico e vittorioso in cui tutti i nemici sembrano essere sconfitti, soppressi, messi a tacere, incarcerati e viene formalmente annunciata “un’era dell’oro ebraica”. In questo momento grandioso, un evento del 7 ottobre spunta dal nulla, uno tsunami di violento risentimento. Tragicamente la maggior parte degli ebrei non riesce a comprendere la dinamica viziosa del loro orologio storico per la stessa ragione per cui gli ingranaggi all’interno dell’orologio non ne comprendono il significato.

Ho capito questo meccanismo temporale dell’orologio mentre camminavo lungo il fiume Vistola pensando a ciò che diceva Eraclito. Eraclito diceva che nessun uomo entra mai due volte nello stesso fiume, perché il fiume non è mai lo stesso, ed egli non è lo stesso uomo. Mi è venuto in mente che alcune persone in realtà entrano nello stesso fiume, non due o tre volte, ma di volta in volta, nel corso della loro intera storia, in precisi cicli storici ripetuti.

Gli storici spesso ci dicono che la Storia non si ripete mai. Il filosofo sostiene al contrario che la storia troppo spesso si ripete per una ragione molto ovvia. Spesso i suoi protagonisti sono le stesse persone.

Gilad Atzmon è uno scrittore e musicista britannico di musica jazz, ed un attivista anti-sionista. Attualmente vive a Londra.

Traduzione: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org

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redaz
una teoria che mi pare interessante, quella della confederazione delle anime. Mi racconti questa teoria, disse Pereira. Ebbene, disse il dottor Cardoso, credere di essere 'uno' che fa parte a sé, staccato dalla incommensurabile pluralità dei propri io, rappresenta un'illusione, peraltro ingenua, di un'unica anima di tradizione cristiana, il dottor Ribot e il dottor Janet vedono la personalità come una confederazione di varie anime, perché noi abbiamo varie anime dentro di noi, nevvero, una confederazione che si pone sotto il controllo di un io egemone.

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