Economia, continuazione della politica con altri mezzi

In «IL SOGGETTO DELL’ECONOMIA» (Ediesse: 318 pagine per 16 euri) Laura Pennacchi sviluppa, a partire da una visione dichiaratamente keynesiana e riformista, una critica puntuale al neoliberismo e alla finanziarizzazione dell’economia: le riflessioni di Gian Marco Martignoni 

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   La crisi economica esplosa nel 2007-08 ha rappresentato la massima espressione del fallimento teorico del neoliberismo e del connesso dogma dell’autoregolazione del mercato. Nonostante ciò, il neoliberismo ha proseguito indisturbato il suo corso egemonico, giacché non si intravede all’orizzonte alcuna alternativa concreta mentre si è verificata una progressiva disintegrazione del blocco sociale “antagonista”. Proprio a partire da questo inconvertibile dato di fatto, Laura Pennacchi sviluppa, a partire da una visione dichiaratamente keynesiana e riformista, una critica puntuale e serrata al neoliberismo e alla finanziarizzazione dell’economia, riservandosi di delineare, nel sesto ed ultimo capitolo del libro, le sue tesi per un nuovo modello di sviluppo.

  Come è noto, risale alla fine degli anni ’70 la rottura del compromesso keynesiano-fordista a opera dei governi Reagan e Thatcher. Quella rottura provocò il rilancio in funzione anti-keynesiana della teoria di Friedrich Von Hayek, unitamente alla restaurazione del potere di classe e l’obbiettivo di privatizzare le funzioni esercitate dallo Stato rispetto alla sicurezza sociale.

L’attacco al principio di terzietà, assegnato storicamente alla mediazione istituzionale, diventa chiave di volta per puntare sia all’individualizzazione del rapporto di lavoro – inficiando quindi la valenza dei contratti collettivi – che alla denormativizzazione, attraverso la contrattualizzazione dei servizi e delle prestazioni garantite dalle amministrazioni pubbliche. Non casualmente l’ideologia del mercato esalta una presunta libertà di scelta di un individuo totalmente sciolto da ogni legame sociale, a cui consegue inevitabilmente un comunitarismo negativo, in quanto privato della dimensione solidaristica.

   Al contempo, il rallentamento dei ritmi di crescita dell’economia e la caduta del saggio di profitto sono fra le cause scatenanti della propensione al consumo privato – il cosiddetto keynesismo privatizzato – nonché della competitività fra economie differenti, tutta giocata sulla compressione dei salari e la flessibilizzazione estrema del mercato del lavoro, in virtù del primato della libera concorrenza.

   Inoltre, poiché si sono fatti sempre più estesi i processi di desoggettivazione, di depoliticizzazione e anche di desindacalizzazione (che purtroppo Pennacchi non affronta come invece sarebbe necessario) – se, come sostengono acutamente Paul Ginsborg e Sergio Labbate nel saggio «Passioni e Politica», il romanticismo neo liberista si configura come «una forma di governo della nostra vita intima» e quindi delle nostre passioni – allora la prevalenza del diritto privato e commerciale rispetto al diritto pubblico comporta una brutale rifeudalizzazione del legame sociale.

  Pertanto, in questo quadro decisamente regressivo per le condizioni delle classi popolari, è senz’altro apprezzabile che Pennacchi proponga, per invertire la tendenza, di soddisfare, mediante il rilancio della pianificazione statale, la domanda sociale attraverso un piano di lavoro, finalizzato a potenziare con i suoi investimenti una serie di consumi collettivi, conseguenti all’adozione di nuovi stili di vita. Purtroppo però il suo accorato appello al rilancio delle politiche keynesiane, anche alla luce del job act renziano e della loi travail francese e dell’allineamento delle forze social-liberiste agli imperativi autoritari delle tecnocrazie europee, non tiene in debita considerazione il mutamento dei rapporti di forza intervenuti in questo quarantennio: non si interroga criticamente quindi su quali soggettività politiche e sociali sia possibile fondare la loro reale praticabilità nell’odierno conflitto di classe.

 

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