Ecuador: i prigionieri politici…
… del governo Correa
di David Lifodi
Ana Cristina, Fadua Elizabeth, Yescenia Abigail, Christiam Royce, Pablo Andrés, Luis Santiago, Victor Hugo, Luis Marcelo, Héctor Javier e Cesar Enrique sono conosciuti più facilmente in Ecuador con l’appellativo dei “dieci di Luluncoto”: dieci attivisti di sinistra in carcere per presunti reati di opinione imputati loro dal governo di Rafael Correa, che in campo internazionale passa come esecutivo rivoluzionario, ma che, in patria, sta assumendo sempre più una linea assai poco condivisibile.
I “dieci di Luluncoto”, il barrio dove sono stati tratti in arresto, a sud di Quito, nell’ambito dell’operazione “Sol Rojo”, sono in carcere con l’accusa di “terrorismo”: l’ipotesi più probabile è che il governo voglia far pagar cara la loro partecipazione ai movimenti che si battono per la tutela dell’acqua e protestano contro la politica di sfruttamento delle risorse minerarie su cui ha scommesso il presidente Correa. Del resto, i movimenti da tempo hanno rotto con Palacio de Carondelet, e lo stesso ha fatto Alberto Acosta, già presidente dell’Assemblea Costituente, che ha presto preso le distanze dalle politiche sviluppiste di Correa fino a candidarsi alle prossime elezioni presidenziali con il suo movimento Unidad Plurinacional. I “dieci di Luluncoto”, studenti, ricercatori, docenti universitari, impiegati e professionisti, sono stati arrestati lo scorso 3 marzo. La polizia ha fatto irruzione ad una loro riunione in cui discutevano sull’organizzazione della Marcha por el Agua, la Vida y la Dignidad de los Pueblos, che avrebbe avuto luogo alcuni giorni dopo, l’8 marzo, per concludersi il 22 attraversando l’intero paese. Sul tavolo avevano una copia della Costituzione dell’Ecuador, il documento “Defiende la democracia”, elaborato proprio dal governo, il quotidiano El Ciudadano e alcuni libri di filosofia del diritto. L’Unidad de Lucha contra el Crimen Organizado (Ulco) è intervenuta in forze: ben cinquanta agenti per arrestare dieci attivisti che il governo ha bollato immediatamente come “golpisti”. Non solo: i dieci sono stati associati, senza alcuna prova, al Grupo de Combatientes Populares (Gcp). Ammanettati, sono stati dati in pasto all’opinione pubblica con l’accusa di “aver attentato alla sicurezza dello stato”. L’Ecuador che tiene testa a stati molto più potenti nel caso Assange, battaglia con Chevron-Texaco e, almeno a parole, sostiene il buen vivir indigeno, non ci fa una bella figura. I familiari dei detenuti e i loro avvocati hanno denunciato innumerevoli irregolarità nel corso del processo, ma le stesse modalità di arresto presentano diversi punti oscuri. Inoltre in Ecuador non esiste alcuna organizzazione di carattere terroristico, se non quelle che sono state fatte passare da Correa come tali per il loro impegno nella difesa delle cause indigene e ambientaliste. Eppure l’azione dell’Ulco, compiuta senza alcun mandato di cattura preventivo, si è trasformata in una sorta di caccia all’uomo in cui ai “dieci di Luluncoto” non è stata fornita alcuna motivazione per l’arresto. L’azione delle forze speciali è ancora più grave se si considera che i dieci stavano solo svolgendo una riunione, come ammesso dagli stessi militari: in Ecuador, finora, la libertà di riunione è consentita. Durante l’arresto agli attivisti sono state sequestrati cellulari, agende, zaini, computer e denaro: gli agenti hanno introdotto nelle loro borse volantini e altro materiale non appartenente al gruppo dei dieci e l’arresto è avvenuto secondo modalità particolarmente violente. La diciottenne Fadua Tapia, in stato di gravidanza, è stata sbattuta a terra e ammanettata senza troppi complimenti, ad altri sono stati spaccati alcuni denti. Il 26 aprile, cinquantatre giorni dopo il sequestro, la polizia ha fatto irruzione nelle case dei familiari dei dieci per una perquisizione dagli esiti tragicomici, se non fosse che i reparti della Ulco si sono presentati negli appartamenti mascherati ed hanno impaurito anziani e bambini. Ciò che è stato spacciato all’opinione pubblica come materiale sovversivo ritrovato nelle abitazioni di questi “pericolosi terroristi” ha riguardato: manuali di diritto costituzionale, cd musicali di protesta, come quelli del cantautore ecuadoriano Jaime Guevara, alcuni volantini (dal testo innocuo) delle organizzazioni sociali di cui fanno parte, un computer della figlia di uno dei detenuti che aveva come salvaschermo la foto del Che Guevara. Si è trattato, quindi, di un’azione che, nel migliore dei casi, potremmo definire ridicola. Eppure i dieci rischiano grosso, anche perché Correa e il suo governo hanno trovato un capro espiatorio per denigrare la Marcha por el Agua e associare i suoi partecipanti al terrorismo, tanto è vero che il presidente si è lamentato ufficialmente con la stampa per non aver dato troppo risalto alla perquisizione del 26 aprile. Il motivo per cui i media non hanno dato grande importanza alla notizia è stato perché la polizia non aveva trovato niente di particolarmente significativo. Proprio oggi si compiono dieci mesi dall’arresto degli attivisti, nel segno di un governo che bolla come “golpista e finanziata dalla Cia” qualsiasi manifestazione di protesta sociale nei suoi confronti. Un altro dato preoccupante che merita attenzione riguarda l’accusa di terrorismo che pende su almeno duecento attivisti sociali che si sono opposti con forza alla militarizzazione di intere zone del paese a cui Correa ha imposto lo stato d’assedio. Alcuni giorni prima della Marcha por el Agua, la Conaie (Confederación de Nacionalidades Indígenas), il Frente Popular (a cui aderiscono donne, campesinos, alcuni movimenti sindacali e piccoli agricoltori) e il Frente Unitario de Trabajadores, che avevano aderito alla manifestazione, sono stati attaccati pesantemente da Correa tramite un discorso violento, discriminatorio e razzista, in seguito al quale molte organizzazioni di sinistra hanno ricevuto minacce, fino al tentativo di infiltrare la polizia nella marcia.
I “dieci di Luluncoto” sono a tutti gli effetti dei prigionieri politici, vittime di un governo che, ossessionato dalla sicurezza di stato, sta calpestando tutti quei diritti di cui pure la Costituzione si era fatta garante, a partire da quello di poter esprimere liberamente la propria opinione passando per la libertà di associazione, riunione e mobilitazione in forma libera e volontaria. Correa è salito a Palacio de Carondelet grazie ai movimenti sociali, ma da molto tempo sembra essersene scordato.