Ecuador, disprezzo Chevron per le vite umane
di David Lifodi
Il distretto ecuadoriano di Sucumbíos può essere paragonato, a buon diritto, a Chernobyl: qui, per quasi un trentennio, la multinazionale statunitense Chevron (ex Texaco, società con la quale si fuse nel 2001) ha sversato miliardi di litri di materiali tossici derivanti dall’estrazione del petrolio, provocando non solo l’inquinamento di corsi d’acqua e foreste, ma anche un aumento abnorme della mortalità in questi territori, una volta incontaminati. La sentenza storica che condannava Chevron al risarcimento record di oltre nove miliardi di dollari per disastro ecologico e umanitario ai circa trentamila abitanti del distretto di Sucumbíos rischia, però, di rimanere una chimera.
Questa non è la solita storia che parla dell’arroganza di un’impresa petrolifera nei confronti di uno stato e della sua popolazione: qui la situazione è diversa, e assai più grave. Chevron ha cercato di manipolare ad ogni costo tutti i gradi della giustizia ecuadoriana ed ha dimostrato di non tenere in nessun conto la dignità umana della gente di Sucumbíos. Due esempi. Il primo: di fronte all’aumento anomalo dei casi di morti per cancro nell’intera regione, Chevron si è giustificata sostenendo che la malattia mortale si era diffusa nel dipartimento di Sucumbíos “a causa della mancanza di pulizia ed igiene da parte degli indigeni”. Questo è razzismo, al pari del netto rifiuto a farsi giudicare dal tribunale “di un paese del terzo mondo”. Il secondo esempio risale a Febbraio 2010. Quel giorno Chevron tentò di dimostrare che i trentamila di Sucumbíos, cioè la parte lesa, facevano parte di un’organizzazione criminale il cui unico fine era quello di estorcere denaro alla compagnia: per condurre questa operazione i vertici di Chevron si appellarono alla legge federale speciale statunitense denominata Rico (Racketeer Influenced and Corrupt Organizations), utilizzata negli Usa per debellare il crimine organizzato. L’allora Texaco giunse in Ecuador nel 1964: da allora ha costruito centinaia di pozzi, ma anche vere e proprie stazioni dedite all’estrazione e alla produzione petrolifera, principalmente nei distretti settentrionali dell’Amazzonia ecuadoriana. La giunta militare, che a quell’epoca governava il paese, concesse a Texaco 1.500.000 ettari di foreste dove poter agire in maniera indisturbata, con buona pace delle etnie indigene Siona, Secoya, Cofán, Kichwa e Huaorani. Questa area così estesa finì ben presto per trasformarsi in una zona franca di smaltimento di rifiuti tossici. Il colosso petrolifero statunitense agiva più o meno così: perforava i pozzi e costruiva degli enormi contenitori (ribattezzati “piscine” per la loro ampiezza e profondità) in cui era immagazzinata l’acqua tossica ed inquinata utilizzata per estrarre il petrolio. Le “piscine” venivano allestite il più vicino possibile ai fiumi, in modo tale da poter effettuare sversamenti di milioni di litri di acqua tossica lungo i corsi d’acqua, una forma di smaltimento assai semplice e, soprattutto, economica. Quando Chevron-Texaco abbandonò l’Ecuador, siamo nel 1990, nei distretti di Sucumbíos ed Orellana si contarono 627 “piscine” colme di rifiuti tossici e trentamila persone da allora soffrono di gravi problemi di salute. Adesso la multinazionale Usa non solo rifiuta di chiedere scusa alle comunità indigene e contadine, la cui vite sono state sconvolte dalle attività di estrazione petrolifera, ma si aggrappa a due cavilli allo scopo di evitare il maxirisarcimento a cui è stata condannata. Un trattato bilaterale tra Stati Uniti ed Ecuador, firmato nei primi anni ’90, scagionerebbe Chevron nel caso in cui la compagnia Usa dimostri di aver riempito almeno un terzo delle “piscine” con gli scarti dell’estrazione petrolifera. E’ paradossale, ma in virtù di questo cavillo Chevron potrebbe salvarsi: eppure la costruzione delle stesse “piscine” rappresenta una delle cause più evidenti di inquinamento ambientale. Chevron non si ferma, ma si permette addirittura di far causa ai popoli indigeni ed indica come principale responsabile del disastro ambientale PetroEcuador, impresa statale che operò con Texaco fino all’uscita di quest’ultima dal paese. Da allora l’estrazione petrolifera è stata condotta proprio dall’azienda di stato: fin troppo facile per Chevron scaricare tutte le colpe su PetroEcuador, che ha comunque le sue belle responsabilità. E’ provato che Texaco ha speso oltre 40 milioni di dollari per chiudere almeno duecento pozzi in cui erano state scaricate sostanze tossiche. Lo svelò, quattro anni fa, il geologo ecuadoriano indipendente Richard Cabrera, nominato dal tribunale per effettuare una prima stima economica dello scempio ambientale. “Chevron gioca sporco”, spiega Pablo Fajardo, l’avvocato che difende i diritti dei dannati di Sucumbíos, e non basta una pagina web del sito ufficiale, dedicata a testimoniare il rispetto dell’azienda per le comunità locali, a ripulire la propria immagine di fronte alla catastrofe umanitaria (ed ambientale) provocata nel corso di quasi trenta anni. Nel 2005 Chevron evitò per un soffio un’ispezione della magistratura nella stazione petrolifera di Guanta (sempre nel dipartimento di Sucumbíos), diffondendo una voce, dimostratasi poi infondata, che gli indigeni volessero attaccare gli ispettori e prendere in ostaggio i rappresentanti dell’impresa statunitense. A più riprese Fajardo ha messo in crisi il potente team legale di avvocati pagati dalla Chevron, che alla fine ha dovuto accettare in prima istanza l’obbligo di risarcire i cittadini di Sucumbíos e si è dovuta piegare alla sentenza della Corte d’Appello di New York, decisa a consegnare il caso alla giurisdizione ecuadoriana. Le mancate scuse da parte di Chevron alle comunità locali, ritenute un obbligo da parte della Corte di Sucumbíos entro lo scorso 3 Febbraio, hanno significato per la multinazionale petrolifera il raddoppiamento delle sanzioni economiche, giunte a diciotto milioni di dollari.
Eppure questa infinita controversia legale sembra ben lontana dal concludersi, nonostante Chevron risulti colpevole e la sua immagine sia uscita fortemente indebolita dall’intera vicenda: non poco per una multinazionale che fa del biglietto da visita il suo principale aspetto promozionale.