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… cioè “Ravenna, articolo uno Costituzione”: le riflessioni di Enrico Caravita, che lavora da portuale, su tragedie nuove e vecchie
1 – è una che fa
2 – il momento del coglione
3 – alcuni “fattacci” di cronaca nel porto di Ravenna
4 – altri fatti… per la cronaca
5 – la tragedia
6 – riflessioni
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È una che fa
Modo di dire che credo possa essere applicato in tutti i campi, nella vita come nel lavoro. In certi ambiti lavorativi, a esempio nel mio, gli errori si pagano carissimi, anche con la vita.
Occorre quindi: occhio, pazienza e fortuna.
Per occhio si intende, conoscenza del lavoro. Per pazienza, agire con saggezza. E per fortuna, beh ne capite tutti l’importanza.
Addentriamoci nel significato dei termini citati. Per conoscenza si intende know-how (https://it.wikipedia.org/wiki/Know-how) cioè il giusto mix fra la conoscenza e l’esperienza. Per agire con prudenza, bisogna seguire tutte le procedure “in sicurezza”. E per fortuna che non ci giri le spalle.
Insomma avere più occhi e più attenzioni. Non agire in modo avventato, non accorpare e/o saltare le procedure da rispettare in quel dato ambiente di lavoro, con quel macchinario e quella merce.
Il momento del coglione
L’abbiamo avuto tutti e potremmo averlo nuovamente. Per tante ragioni: stanchezza, distrazione, sufficienza, incompetenza, irruenza… Credo che se occhio, pazienza e fortuna saranno con noi magari il momento del coglione sarà solo un momento di spavento.
…
“Noi”? Vuol dire che il mio lavoro non va mai eseguito da solo. Ci dovrà sempre essere una persona che vigilerà su di me e viceversa.
Perché? Per essere “in sicurezza”.
Immaginate se alle mie quotidiane mansioni lavorative, venissero accorpati altri lavori. Sarebbe un disastro, un “omicidio” logico.
Ah, dimenticavo, io faccio il portuale: carico e scarico le navi che attraccano al porto: materiale inerte, sfuso, ferroso che dalle stive delle navi passa alla banchina (https://it.wikipedia.org/wiki/Banchina) e viceversa. La banchina è zona deputata appunto a carico o scarico delle merci. Ogni terminal portuale ha la sua banchina con piazzali, magazzini, silos. Tutti luoghi dove il materiale viene stipato, immagazzinato per poi essere venduto.
Quindi ci sono altre attività lavorative dopo lo scarico delle merci, con le loro procedure di Sicurezza affinché si svolgano secondo la legge che al porto viene fatta rispettare dall’Autorità Portuale (http://www.port.ravenna.it/pagina-porto-1/).
Alcuni fattacci di cronaca nel porto di Ravenna:
– TRAGEDIA AL PORTO DI RAVENNA: MUORE TRAVOLTO DA UN MEZZO D’OPERA
http://www.ravennatoday.it/cronaca/incidente-mortale-lavoro-porto-ravenna-13-aprile-2017.html
– L’ALTRA EMILIA ROMAGNA INTERROGA LA GIUNTA REGIONALE: C’È CAPORALATO NEL PORTO DI RAVENNA?
http://www.ravennanotizie.it/articoli/2017/04/04/laltra-emilia-romagna-interroga-la-giunta-regionale-c-caporalato-nel-porto-di-ravenna.html
– INCIDENTE AL TERMINAL MARCEGAGLIA: CADONO 2 COILS DA 10 METRI DI ALTEZZA
Altri fatti… per la cronaca
Poi ci sono piccoli infortuni e altri che avrebbero potuto avere tragiche conseguenze. Uno di questi mi ha visto “primo testimone” o “possibile infortunato” martedì 18 aprile.
Succede infatti che durante lo sbarco (https://www.google.it/search?q=coils+acciaio&tbm=isch&tbo=u&source=univ&sa=X&ved=0ahUKEwi407Ks0sTTAhVE2RoKHVH2AW4QsAQIKQ&biw=1106&bih=765) due coils cascano a terra, sulla banchina, da circa 5/6 metri, vicino a dove ero. La mia mansione, quel mattino, era la “spunta”. Dovevo cioè spuntare tutti i coils o altro materiale che stava uscendo dalla nave. Dopo la spunta, i materiali sarebbero stati spostati in magazzini o nei piazzali adiacenti la banchina.
A un certo punto i coils cascano dalla gru che li sta movimentando. In che modo? In parole semplici: scivolano. In via ufficiale, i miei responsabili insieme ai responsabili del terminal in cui operavamo stanno ricostruendo i fatti e cercando le responsabilità. Quindi non sta a me stabilire di chi sia la colpa.
Sta a me raccontare quel che ho visto e vissuto, magari trarne insegnamento sia come lavoratore che come uomo.
Il know-how, di cui ho scritto sopra, che determina le procedure di sicurezza è come l’utopia, che è come l’orizzonte …
L’utopia è là, all’orizzonte.
Mi avvicino di due passi, lei si allontana di due passi
faccio dieci passi e l’orizzonte si sposta di dieci passi
Per quanto cammini, mai la raggiungerò
Allora a cosa serve l’utopia? Serve a questo: a camminare.
Eduardo Galeano
Tornando a martedì 18 aprile. Quello che noto, e forse mi salva la vita, è che il gruista mi ha appena fatto montare alla gru il doppio C cioè il terminale con cui la gru solleva i coils. Con il doppio C si sbarcano due coils alla volta. Io, da terra, sulla banchina, non so quali coils verranno sbarcati. Riesco a vedere ciò che sta uscendo dalla nave solo quando la gru ha il materiale fuori dalle stive ed è girata verso la zona in cui vado a operare, che abbiamo adibito alla spunta. Quando vedo i due coils, mi accorgo che sono entrambi più lunghi del doppio C montato. Mi accorgo anche che i due coils sono avvolti dal cellophane e ciò aumenta il rischio di scivolamento dei coils stessi con il C. Allora mi fermo e mi allontano per mettere una distanza fra me e il carico movimentato dalla gru. Così quando i coils cadono mi trovo “in sicurezza”… Occhio, pazienza e fortuna hanno avuto la meglio, me la sono cavata con un momento di spavento.
La tragedia
È avvenuta giovedì 13 aprile: è morto un camionista. Molto vicino alla banchina. È morto per un errore, per sfortuna.
È morto.
Ma bisogna elaborare il lutto. Capire se c’è stato un errore o più errori. Noi sulla carta, nei sit-in, nelle camere mortuarie, nei salotti, leggendo i quotidiani dobbiamo interrogarci e domandarci se si poteva fare di più chiedendo a chi di dovere – Autorità portuale e amministratori (cioè il sindaco) – aiuto, sostegno e maggiori controlli.
“Il pericolo nel mio lavoro esiste. Non credo potrà mai essere azzerato ma si può e si deve ridurre il più possibile”. Questa frase la ricordo bene, è stata pronunciata durante il corso di formazione quando sono stato assunto.
Torno al triangolo: occhio, pazienza e fortuna.
Per chiedere se quel giorno siano state rispettate tutte le norme di sicurezza, cioè:
– il camionista che doveva caricare poteva stare lì?
– il camion era nella zona di carico o in una zona non adibita?
– il carrello elevatore poteva transitare in quella strada?
– il carrello può essere usato per spostare il materiale da un punto all’altro oppure deve solo caricare la merce su navette che la spostino in altri luoghi del terminal?
– il fondo stradale all’interno dei terminal è idoneo alla movimentazione di materiali molto pesanti?
Riflessioni
La Cooperativa Portuale di Ravenna (https://www.cpravenna.it/cooperativa) per cui lavoro e di cui sono socio ha una lunga storia, segnata anche da morti legate al luogo di lavoro, per amianto ad esempio e altre sostanze con cui veniamo a contatto quotidianamente.
Il fatto che in passato il lavoro dei “portuali” fosse tramandato di padre in figlio certifica in qualche modo, a mio parere, un valore che va oltre il semplice: “Figlio mio vieni con me che ti insegno un mestiere”. Perché sì, il lavoro portuale era e rimane pericoloso ma era ben retribuito. Così nel corso degli anni (dal 1929 in cui nasce la Compagnia Portuale) i soci della Compagnia hanno lavorato affinché la sicurezza fosse un valore su cui scommettere e su cui investire, affinché diventasse un vanto.
Voi che state leggendo non dovete pensare a un racconto da “Libro Cuore”… Voglio solo trasmettervi quello che ho imparato, in modo diretto e indiretto, quando sono entrato a far parte, prima come lavoratore interinale, poi come socio, di questa cooperativa. Oltre al lavoro quotidiano c’è sempre stato, e ancora resiste, un impegno sociale che in passato come nel presente continuamente si rinnova e si ripete, vedi l’evento del Maiale Solidale – giunto alla quinta edizione – per aiutare chi ha più bisogno (https://www.facebook.com/events/1879136952299874) o l’acquisto di un holter pressorio per il reparto di Pediatria dell’Ospedale Civile di Ravenna (http://www.ravennawebtv.it/w/7-800-euro-raccolti-grazie-allevento-benefico-organizzato-a-porto-fuori-domenica-scorsa/; http://www.ravennatoday.it/cronaca/la-compagnia-portuale-dona-un-holter-pressorio-alla-pediatria-dell-ospedale.html) e una rete sociale che attraverso lo sport, le arti e il Cral (http://www.csrcportualiravenna.it/?page_id=9) funge da collante aggregativo per coloro che vivono nella città. Questo in Compagnia Portuale re-esiste ancora, nonostante i tempi di crisi economica e di valori.
Mi torna in mente un uomo che fu sindaco della città di Tuzla (città della ex Jugoslavia ora della Bosnia-Erzegovina) durante la guerra “civile” dei Balcani che ebbi la fortuna di intervistare nel 2007. Quest’uomo, Selim Bešlagić (https://www.balcanicaucaso.org/aree/Bosnia-Erzegovina/Selim-Beslagic-sotto-accusa-37977) mi disse che riuscì a tenere uniti gli abitanti della città nonostante le diverse religioni (cattolica, ortodossa e musulmana) grazie, molto probabilmente, al lavoro che gli uomini svolgevano. Tuzla è una città mineraria, ricca di sale e di carbone. Per la tipologia stessa del lavoro in miniera gli uomini avevano uno spirito di fratellanza particolare, cosa che non accadeva nel resto del Paese e che contribuì agli odi e di conseguenza alla disgregazione della Jugoslavia.
Io, come lavoratore socio della cooperativa portuale di Ravenna, sto riscontrando da anni il perseguimento da parte di alcuni dei privati, del massimo profitto a scapito della sicurezza. Non che sia questa una novità ma oggi rispetto al passato il potere politico non svolge più il lavoro di filtro e di contrappeso al potere economico.
A noi portuali della Cooperativa viene imputato di essere troppo costosi ma io in passato ho lavorato per una coop che mi impiegava all’interno di uno dei capannoni di un grande terminal e dunque posso confrontare l’abissale differenza di spesa per la formazione professionale, i dispositivi di protezione individuale, gli affiancamenti con lavoratori esperti ecc.
La differenza tra “Noi” e Loro – cioè quelli che non sanno cos’è il lavoro e il pericolo nel porto – è enorme.
Noi sappiamo quanto costi investire in sicurezza e quanto ricada sulle tariffe applicate a chi richiede la professionalità della Cooperativa Portuale. Ciò negli anni ha messo i portuali al centro di invidie anche da parte di lavoratori di altre aziende o di altre cooperative. Ne è nata un’immagine del “portuale” come se facesse il prezioso e valutasse il proprio lavoro come più qualificato degli altri solo per spocchia e non per un reale valore, frutto dell’investimento – dal 1929 a oggi – in sicurezza.
C’è stato un momento in cui l’immagine del portuale sembrava distorta agli occhi dell’opinione pubblica e gli standard raggiunti, in campo di sicurezza, per qualcuno erano “privilegi”. E invece sono standard che dovevano e devono essere mantenuti affinché la sicurezza sia al primo posto sul luogo di lavoro.
Sappiamo però come sta andando: la crisi economica vera o presunta ha abbassato il costo del lavoro e di conseguenza io che cerco il massimo profitto, dove andrò a tagliare? Anche nella sicurezza.
Come posso concludere? Di certo bisogna chiedere che istituzioni, Autorità Portuale e associazioni di categoria vigilino e difendano le regole di sicurezza. Se non lo si fa, piangere i morti è ipocrisia.
LA VIGNETTA – che è stata scelta dalla “bottega” – è di GIULIANO SPAGNUL.
Scritto molto efficace, di forte intensità. Una riflessione che mette a “nudo” le grandi potenzialità di rischio che quotidianamente incorrono ai lavoratori impegnati nelle aree portuali. Quindi, l’esigenza prioritaria di rispettare le regole e le dinamiche della sicurezza. Il recentissimo incidente, purtroppo mortale, lo impone a tutti i Soggetti coinvolti nella gestione delle attività lavorative.
Da ex RLS ( Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza) comprendo bene le sollecitazioni di Enrico Caravita. Specie per un ambito lavorativo, come il mio ( comparto installazioni e collaudi delle TLC – Telecomunicazioni-) dove le attività si svolgevano nella gran parte delle situazioni in maniera difficoltosa, in ambienti interni -“tribolati”- ed esterni: da terra, su altezze variegate, strade, campagne, colline/montagne, sottosuolo/gallerie, tralicci. Attività lavorative caratterizzati da continui quotidiani rischi – potenzialmente sempre in agguato- , dalla nocività, ambientale o derivate dai prodotti utilizzati.
Mi sono velocemente ritornate alla memoria una considerevole serie di vicissitudini che nel corso degli anni si sono verificate nel contesto nazionale. Alto il tasso di infortuni. Diversi gli incidenti mortali. Quante lotte sindacali, scioperi e proteste in variegate forme, per avere a disposizione le attrezzature necessarie, il rispetto delle leggi, la giusta composizione numerica delle squadre, e quant’altro di fondamentale per preservare l’integrità fisica e la salute. Per quanto siano passati ormai parecchi anni conservo una ricca documentazione, di merito e cronologica, sulla materia.
Il dato è, purtroppo, che nel corso degli ultimi anni la situazione nazionale sugli infortuni in Italia non ha avuto mutazioni sostanziali ….anzi. Il numero degli infortuni è sempre molto rilevante. Di certo si è allentata l’attenzione sociale e politica, le normative di legge sono diventate più “leggere”, le regolamentazioni sono più flessibili, le componenti di vigilanza delle strutture preposte ai controlli sono state ridotte, in molti casi si sono incrementati a dismisura le dinamiche dei sub-appalti con tutte le conseguenze del caso.
Resoconto 2015: INCIDENTI COMPLESSIVI, 637.000; 1.246 denunce di infortunio con esito mortale ( 1142 NEL 2014) di cui 641 nei luoghi di lavoro, più i lavoratori deceduti in incidenti in itinere.).
In questi primi mesi del 2017 i morti sul lavoro sono in aumento: al 4 maggio, duecento nei luoghi di lavoro
Molto interessante la testimonianza di Enrico Caravita, che ha nitidamente fotografato una delle attività più rischiose sul piano della sicurezza, evidenziando purtroppo la dicotomia che si genera- per via del primato assegnato dal profitto alla logica della competizione al ribasso dei costi – tra lavoratori organizzati e lavoratori disorganizzati, stante la catena infernale dei sub-appalti. Sono d’accordo anche sulla sua conclusione del ragionamento -in particolare sul concetto di ipocrisia, che fa il paio cxon il senno di poi dopo ogni evento mortale – , aggiungendo solo che in materia di sicurezza va riaffermato teoricamente e praticamente il sacrosanto principio della “non delega”.
C’è molto da lavorare sugli spunti che da Caravita sia guardando il passato che il futuro;
metto da parte il passato in quanto il discorso può essere meglio approfondito se vogliamo fare una disamina retroattiva delle malattie professionali e di quanto sono state riconosciute o disconosciute;
sul presente:
il camionista morto; esprimere cordoglio dopo il fatto è un fatto scontato; il problema è:
chi ha fatto la valutazione dei rischi; quali erano i contenuti e le previsioni di questa valutazione; è stata validata da una struttura pubblica di vigilanza? E’ mai possible che non ci fosse una barriera e/o spazio tra la macchina operativa che ha investito e la portiera da cui è sceso il camionista?
Vale la pena di costituirsi parte civile, di seguire la inchiesta e di verificare se alla fine la Ausl individua la fattibilità di disposizioni/prescrizioni; in altri termini si poteva fare qualcosa per aumentare la sicurezza (es.spazi compartimentati per operazioni diverse ?)
sulla questione dei “quasi infortuni” (un carico che cade e non colpisce nessuno): sono decenni che è acquisita la necessità di registrare questi eventi e di discuterli coni lavoratori;
ovviamente discutere il “quasi infortunio” serve a capir la dinamica dello stesso e a prendere le misure perchè la prossima volta il “quasi infortunio” non procuri un infortunio vero e proprio;
a Bologna ci fu un infortunio mortale in una azienda in cui una macchina lanciava periodicamente schegge di ferro , questa azienda aveva dichiarato di aver adottato un sistema di monitoraggio dei “quasi incidenti”; era falso , cioè sulla carta; alla fine le schegge lanciate nell’ambiente non erano occasione di registrazione e discussione;
tralascio altri particolari,
alla fine un lavoratore, e peraltro non addetto a quella macchina, ma che transitava nei pressi della stessa rimase ucciso da una scheggia;
condanna penale, risarcimento “misero” , lavoratore morto.
Dunque; torniamo alle “origini”: gruppo omogeneo, validazione consensuale , non delega;
e gruppo omogeneo , non come è stato raccontato al processo Enichem (lavoratori e sindacato che poi riferisce alla azienda) ma gruppo omogeneo con gli ispettori dell’organo di vigilaza; contestualmente : non delega e validazione consensuale.
Siamo “all’antica” perché sappiamo che il self-help è una prassi credibile proposta e praticata dalla cultura femminista;
ma il self-help aziendale è semplicemente una cosa che non esiste .
Vito Totire