Essere antisionisti

articoli di Allan C. Brownfeld,Miko Peled, Davide Longo, Ronnie Barkan, Kamel Hawwash, Peter Beinart, Michael Neumann, Shraga Elam, Gideon Levy

Palestinesi: le ultime vittime dell’Olocausto – Allan C. Brownfeld

Quando discutiamo dell’Olocausto e del massacro nazista di sei milioni di ebrei europei, spesso dimentichiamo il fatto che l’Olocausto ha avuto anche altre vittime, vale a dire i palestinesi, a cui è stato espropriato il paese

Israele e il Giudaismo

Quando discutiamo dell’Olocausto e del massacro nazista di sei miloni di ebrei europei, spesso dimentichiamo il fatto che l’Olocausto ha avuto anche altre vittime, vale a dire i palestinesi, a cui è stato espropriato il paese. Erano vittime innocenti mentre il mondo cercava di creare un posto per gli ebrei che erano stati sfollati dalla tirannia nazista, e desiderava farlo in un modo che non comportasse l’invito di rifugiati ebrei nei propri paesi.

Il sionismo è stato fin dall’inizio un movimento di minoranza tra gli ebrei. E ‘stato creato, osserva Jeff Halper, nel suo nuovo importante libro Decolonizzare Israele, Liberare la Palestina, da “ebrei con poca conoscenza della Palestina e dei suoi popoli, che hanno creato un movimento di ritorno ebraico alla sua patria ancestrale dopo un’assenza nazionale di 2000 anni. Ai loro occhi, gli arabi di Palestina erano solo uno sfondo. La Palestina era, come diceva la famosa frase sionista, “una terra senza popolo”. I sionisti europei sapevano che la terra era popolata, ovviamente, ma per loro gli arabi non costituivano un popolo”

Halper, un antropologo, è un ebreo americano emigrato in Israele e dirige il Comitato Israeliano Contro le Demolizioni delle Case. Fin dall’inizio, sottolinea, “il sionismo ha attratto solo una piccola frazione degli ebrei del mondo nei suoi anni di formazione. Solo il 3% dei 2 milioni di ebrei che hanno lasciato l’Europa dell’Est tra il 1882 e il 1914 andò in Palestina, e molti di loro successivamente sono emigrati in altri paesi”.

Ironicamente, le principali comunità ebraiche alla fine del diciannovesimo e all’inizio del ventesimo secolo rifiutarono il sionismo, mentre fu abbracciato dagli antisemiti come un modo per rimuovere gli ebrei indesiderati dai propri paesi. Per gli ebrei riformati, l’idea del sionismo contraddiceva quasi completamente la loro fede in un giudaismo universale e profetico. Il primo libro di preghiere della Riforma eliminò i riferimenti agli ebrei in esilio e ad un Messia che avrebbe miracolosamente ristabilito gli ebrei di tutto il mondo nella storica terra di Israele. Il nuovo libro eliminò tutte le preghiere per il ritorno a Sion. Il rispettato Rabbino Abraham Geiger sostenne che l’ebraismo si è sviluppato attraverso un processo evolutivo, che ha avuto inizio con la rivelazione di Dio ai profeti ebrei. Quella rivelazione era progressiva; la nuova verità è diventata disponibile per ogni generazione. L’essenza del giudaismo era il monoteismo etico.

Nel 1897, la Conferenza Centrale dei Rabbini Americani adottò una risoluzione che disapprovava qualsiasi tentativo di istituire uno Stato ebraico. La risoluzione dichiarava: “Sion era un bene prezioso del passato, e come tale è un santo ricordo, ma non è la nostra speranza per il futuro. L’America è la nostra Sion”.

Mentre la maggior parte degli ebrei si opponeva al sionismo, molti antisemiti lo abbracciavano. Peter Beinart, editore di Jewish Currents (Correnti Ebraiche), scrive su The Guardian: “Alcuni dei leader mondiali che più ardentemente promossero la statualità ebraica lo fecero perché non volevano ebrei nei loro paesi. Prima di dichiarare, in qualità di Ministro degli Esteri nel 1917, che: “La Gran Bretagna guarda con favore l’istituzione in Palestina di una casa nazionale per il popolo ebraico”, Arthur Balfour ha sostenuto la Legge sugli Stranieri (Aliens Act) del 1905, che limitava l’immigrazione ebraica nel Regno Unito. Due anni dopo la sua famosa dichiarazione, Balfour affermò che il sionismo avrebbe mitigato le miserie secolari create per la civiltà occidentale dalla presenza in mezzo a essa di un Corpo (gli ebrei) che da molto tempo considerava estraneo e persino ostile, ma che era ugualmente incapace di espellere o assimilare”.

In Inghilterra, la maggior parte dei leader ebrei si oppose alla Dichiarazione Balfour. Un membro ebreo del governo di Lloyd George, il Segretario di Stato per l’India Edwin Montagu, ha insistito sul fatto che gli ebrei fossero considerati una comunità religiosa. Ha usato il termine “antisemitismo” per caratterizzare i promotori della Dichiarazione Balfour. Un documento che emise il 23 agosto 1917 era intitolato “L’antisemitismo dell’attuale governo”.

Fin dall’inizio dell’insediamento ebraico in Palestina, i leader sionisti erano piuttosto aperti nel chiarire che volevano “rimuovere” la popolazione nativa del paese. Già nel 1914, Moshe Sharett, un futuro Primo Ministro israeliano, dichiarò: “Abbiamo dimenticato che non siamo venuti in una terra vuota per ereditarla, ma siamo venuti per conquistare un paese da un popolo che lo abita e lo governa lo in virtù della sua lingua e cultura selvaggia. Se cerchiamo di considerare la nostra terra, la Terra di Israele, come solo nostra e permettiamo a qualcuno di fare parte della nostra attività, tutto il contenuto e il significato saranno persi per la nostra impresa.”

David Ben-Gurion ha sostenuto il “trasferimento obbligatorio” dei palestinesi. Nel 1937 istituì un Comitato per il Trasferimento della Popolazione all’interno dell’Agenzia Ebraica. “Trasferimento”, ovviamente, è un eufemismo per la pulizia etnica, ed è stato effettuato a livello di massa nel 1948 e di nuovo nel 1967. Uno dei suoi autori, Yosef Weitz, direttore del Dipartimento per gli Insediamenti del Fondo Nazionale Ebraico, ha scritto: “Deve essere chiaro che non c’è spazio nel paese per entrambi i popoli. L’unica soluzione è una Terra d’Israele senza arabi. Non c’è altro modo che trasferire gli arabi da qui”.

Lo storico israeliano Tom Segev osserva che “La scomparsa degli arabi era al centro del sogno sionista, ed era anche una condizione necessaria per la sua realizzazione. Con poche eccezioni, nessuno dei sionisti ha contestato l’opportunità del trasferimento forzato, o la sua moralità”.

Un altro storico israeliano, Ilan Pappé, scrive: “Nel 1945, il sionismo aveva attirato più di mezzo milione di coloni in un paese la cui popolazione era di quasi due milioni. La popolazione nativa locale non fu consultata né la sua obiezione al progetto di trasformare la Palestina in uno Stato ebraico fu presa ascoltata. Come per tutti i precedenti movimenti coloniali, la risposta a questi problemi era la duplice logica dell’annientamento e della disumanizzazione. L’unico modo per i coloni di espandere la loro presa sulla terra oltre il 7% e garantire una maggioranza demografica esclusiva, era quello di rimuovere i palestinesi dalla loro patria. Il sionismo è quindi un progetto coloniale di insediamento che non è ancora stato completato. Israele sta ancora colonizzando ed espropriando i palestinesi e negando i diritti dei nativi alla loro patria, il crimine commesso dalla dirigenza del movimento sionista, che divenne il governo di Israele, era quello della pulizia etnica”.

La ragione per cui i palestinesi possono essere giustamente considerati come le vittime finali dell’Olocausto è che il crescente antisemitismo in Europa ha fatto sì che molti ebrei, che in precedenza si erano opposti al sionismo, iniziassero a considerare positivamente l’idea di creare uno Stato ebraico in Palestina come un rifugio per i perseguitati. Le organizzazioni ebraiche negli Stati Uniti che si erano sempre opposte al sionismo, iniziarono lentamente a considerarlo più favorevolmente. Senza Hitler, ci sarebbe stato scarso sostegno da parte degli ebrei negli Stati Uniti o nell’Europa occidentale per la creazione di uno Stato ebraico. Senza l’Olocausto, le Nazioni Unite avrebbero avuto poche ragioni per istituire lo Stato di Israele.

Ora, la vittimizzazione dei palestinesi sta diventando più ampiamente compresa. Sia il gruppo israeliano per i diritti umani B’Tselem che Human Rights Watch hanno classificato il trattamento dei palestinesi da parte di Israele come “apartheid”.

L’ondata di opposizione internazionale all’occupazione israeliana e alla sottomissione dei palestinesi viene ampiamente paragonata al movimento che è cresciuto in opposizione all’apartheid in Sud Africa. Jeff Halper sottolinea che, “La causa palestinese ha raggiunto un rilievo globale pari a quello movimento anti-apartheid. I palestinesi sono diventati emblematici dei popoli oppressi ovunque. Israele è uno stato colonizzatore consolidato e forte proprio come lo era il Sudafrica, ma nessuno dei due è stato in grado di sconfiggere o emarginare una popolazione nativa con aspirazioni Stato-nazionali”. Ora, la lotta palestinese ha raggiunto un livello importante della lotta contro l’apartheid nel mondo.

Sempre più israeliani, preoccupati per il trattamento riservato dal loro paese ai palestinesi, lamentano il suo allontanamento dai valori ebraici. Il professor David Shulman dell’Università Ebraica scrive: “Noi siamo, così sosteniamo, i figli dei profeti. Una volta, dicono, eravamo schiavi in Egitto. Sappiamo tutto ciò che si può sapere su schiavitù, sofferenza, pregiudizio, ghettizzazione, odio, espulsione, esilio. Trovo sorprendente che noi di tutti i popoli abbiamo reinventato l’apartheid in Cisgiordania”.

Facendo un collegamento diretto tra l’Olocausto e la sofferenza dei palestinesi, Jane Hirschmann, la cui famiglia è fuggita dalla Germania al tempo dell’Olocausto, scrive quanto segue in una pubblicazione del 14 giugno su Truthout: “Sono un’americana di prima generazione. I miei genitori ebrei sono fuggiti dalla Germania mentre si stavano svolgendo gli orrori dell’Olocausto. Lasciarono la famiglia che morì nei campi. Finita la guerra, la Germania diede a mio padre un risarcimento per la perdita della sua attività e per essere stato perseguitato. Entrambi i miei genitori sono stati riaccolti dal governo tedesco che gli ha detto che potevano riavere il loro passaporto e la cittadinanza. Mi chiedo perché i 750.000 palestinesi costretti a lasciare le loro case e la loro terra nel 1948, quando è stata fondata Israele, non hanno diritto allo stesso trattamento ricevuto dalla mia famiglia dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale”.

Hirschmann conclude: “Ma la guerra contro i palestinesi non è mai finita. Israele continua ancora oggi la sua politica di pulizia etnica. Mi chiedo come sia possibile che le vittime dell’Olocausto e la loro progenie possano perseguitare così brutalmente un altro popolo per motivi razziali? Mi chiedo perché i palestinesi non abbiano gli stessi diritti al risarcimento e al ritorno concessi alla mia famiglia dopo che la Germania si è assunta la responsabilità dei propri crimini. I palestinesi non dovrebbero avere diritto un risarcimento e al ritorno? Non dovrebbero avere lo stesso diritto all’autodeterminazione che Israele stesso rivendica? Mi vergogno profondamente e sono arrabbiata per il fatto che questi atti siano commessi in nome del popolo ebraico e che il mio governo fornisca il denaro e le armi per sostenere questi crimini israeliani.”

L’Olocausto getta una lunga ombra. La dichiarazione “Mai più” è una di quelle che tutti dovremmo prendere a cuore. Ma dovrebbe applicarsi non solo agli attacchi contro gli ebrei, ma a qualsiasi gruppo religioso, razziale o etnico. Oggi sono i palestinesi a essere minacciati da una continua pulizia etnica, ironia della sorte, a causa dell’Olocausto stesso. Sono, purtroppo, le ultime vittime.

Allan C. Brownfeld è un editorialista e redattore associato del Lincoln Review, una rivista pubblicata dall’Istituto di Formazione e Ricerca Lincoln, ed editore di Issues, la rivista trimestrale del Consiglio Americano per l’Ebraismo.

Traduzione di Beniamino Rocchetto -Invictapalestina.org

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Le fondamenta antisemite dello Stato Sionista: la storia dei fondatori di Israele, ebrei che odiano se stessi – Miko Peled

Quando alle vittime del sionismo si presenterà finalmente l’occasione di avere giustizia in tribunale, il mondo vedrà quanto fossero veramente crudeli e razzisti i primi sionisti.

“Ebreo che odia se stesso”, insieme ad altri termini come “Traditore, Zhid, Kapo, Nazista e Piccolo Ebreo”, sono tra gli epiteti usati dai sionisti per insultare gli ebrei che si oppongono o rifiutano il sionismo e la sua ideologia razzista.

Un recente episodio della trasmissione radio web del podcast del Rabbino Yaakov Shapiro “Committing High Reason” (Promuovere Nobili Cause) ricorda la storia di Theodor Hertzl, il fondatore del sionismo e dello Stato sionista, e getta nuova luce sul termine “Ebreo che odia se stesso”.

Promuovere Nobili Cause

Il Rabbino Shapiro sostiene tutte le sue affermazioni metodicamente e quando si sente quello che Hertzl, che era egli stesso un ebreo, scrisse sul popolo ebraico, l’unica conclusione è che era la quintessenza “dell’ebreo che odia se stesso”. Non c’è dubbio che odiasse il popolo ebraico e non volesse altro che dissociarsi dall’ebreo “comune”. Inoltre, non era solo: Altri leader sionisti, Vladimir Jabotinsky, Chaim Weizmann e altri, odiavano altrettanto apertamente i loro fratelli ebrei.

Nel 2018, il Rabbino Shapiro ha pubblicato un libro di 1.400 pagine intitolato “The Empty Wagon: Sionism’s Journey from Identity Crisis to Identity Theft” (Il Carro Vuoto: Il Corso Sionista dalla Crisi di Identità al Furto di Identità). Il libro delinea le grandi differenze che esistono tra il giudaismo e la sua principale nemesi, il sionismo. Il libro è stato scritto per gli ebrei ortodossi e in effetti in ogni casa ebraica ortodossa che ho visitato negli ultimi due anni c’era una copia di questa imponente opera. Anche se presuppone una grande quantità di conoscenza sul giudaismo, il libro ha una quantità senza precedenti di informazioni ben documentate, in modo che anche quelli di noi che non sono ferrati nel giudaismo possono imparare molto da esso.

Le informazioni presentate in questo particolare episodio del podcast del Rabbino Shapiro si possono trovare anche nel suo libro, e portano al fatto innegabile che il fondatore del sionismo, e molti dei suoi contemporanei, odiava tutto ciò che riguardava gli ebrei e il giudaismo e odiava il fatto che essi stessi fossero ebrei. Secondo il Rabbino Shapiro e molti altri rabbini ortodossi da lui citati, è stato il loro odio per gli ebrei e non il loro desiderio di salvarli dall’antisemitismo la forza trainante dietro la creazione del sionismo e l’istituzione di uno stato sionista.

Il fondatore del sionismo non solo credeva che i falsi miti antisemiti sugli ebrei fossero veri, ma li giustificava anche. Affermò solo che queste accuse razziste si applicavano agli “altri” ebrei, quelli che non erano laici e “illuminati” come lui.

La storia di Hertzl, così come viene raccontata nelle scuole sioniste sia in Israele che nel mondo, lo fa sembrare il salvatore degli ebrei, un uomo motivato dal desiderio di fare del bene. Tuttavia, uno sguardo più approfondito sull’uomo e sulle sue motivazioni rivela che disprezzava il popolo ebraico e voleva dissociarsi dagli ebrei “comuni” creando uno spazio, una realtà per persone come lui che erano ebrei di nascita ma disprezzavano ciò che significa essere ebreo.

Vladimir Jabotinsky, il padre del sionismo di destra e dell’attuale partito israeliano Likud, è stato un altro classico caso di “ebreo che odia se stesso”. Ha scritto che: “Gli ebrei sono persone molto cattive e odiati, a ragione, dai loro vicini”.

Un altro leader spirituale sionista, Uri Zvi Greenberg, ha scritto: “Quegli odiosi ebrei vengono cacciati da qualsiasi collettivo e Stato sano non perché sono ebrei ma a causa della loro repulsione per l’ebraismo”.

“I sionisti prediligono la violenza mentre il giudaismo ortodosso la disprezza. In una conversazione che ho avuto una volta con il Rabbino Ultraortodosso Dovid Feldman di New York, ho chiesto di questo. Gli ho detto che a persone come me, cresciute dalla dottrina sionista, gli ebrei ortodossi sembrano deboli, pallidi e brutti. Il Rabbino Feldman mi guardò dritto negli occhi e rispose: “Non hai idea di quanto ci impegniamo per mantenere questo aspetto. Essere un ebreo è un’esistenza spirituale-religiosa, non machista.” ”

Maushel (o Moishel)

Nell’edizione del 15 ottobre 1897 del giornale sionista Dei Welt, una pubblicazione fondata da Hertzl, fu pubblicato un saggio, intitolato “Maushe”, su un ebreo antisionista. Il soggetto del saggio era un personaggio di fantasia, un ebreo chiamato da Hertzl “Maushel”, che era un nome dispregiativo per gli ebrei usato dagli antisemiti all’epoca.

Maushel, o Moishel, a seconda della proprio pronuncia, è l’ebreo religioso “comune”. L’articolo era originariamente scritto in tedesco, con una versione inglese pubblicata in un’altra pubblicazione sionista chiamata The Maccabean. Ecco alcuni esempi di come Hertz descrive gli ebrei nel suo saggio:

“Maushel è un antisionista. Lo conosciamo bene e da molto tempo, e ci siamo sempre sentiti disgustati nel vederlo”. Hertzl è tanto più disgustato e dispiaciuto per essere obbligato a riconoscere che Maushel è davvero “del nostro popolo”, anche se non c’è “la minima allusione all’essere orgoglioso del fatto”, che egli lamenta derivare dalla “mescolanza in un periodo oscuro della nostra storia di una classe inferiore di persone con la nostra nazione”.

Hertzl continua dicendo che: “Il disgusto che avevamo per lui era mescolato alla pietà. Abbiamo cercato di spiegare il suo aspetto trasandato e orribile. Ci siamo detti che dovevamo tollerarlo che era nostro sacro dovere civilizzarlo”. Volendo dissociarsi dall’ebreo Maushel, Hertzl dice: “Egli è il terribile compagno dei Giudei e così inseparabile da loro che l’uno è sempre scambiato per l’altro.”

Hertzl continua con il suo evidente odio e scrive che Maushel è “l’antitesi di un essere umano, qualcosa di indicibilmente degradato e ostinato. Maushel, in povertà continua con i suoi sporchi affari, Maushel è un miserabile schnorrer (accattone)”. Poi, tristemente, giustificando gli attacchi antisemiti contro gli ebrei, Hertzl dice: “Maushel ha sempre fornito ragioni per gli attacchi contro di noi”. In altre parole gli ebrei, i “veri ebrei” come Hertzl sono presi di mira dagli antisemiti a causa di questa persona distaccata e sconosciuta che gli antisemiti confondono per un ebreo”.

Inoltre, Hertzl scrive:

“Agli occhi dell’antisemita l’ebreo e Maushel erano un tutt’uno; poi è apparso il sionismo, e così l’ebreo e Maushel hanno dovuto definire il loro ruolo, e ora Maushel ha reso un servizio agli ebrei: Ha lasciato il Movimento perché è un antisionista”.

In altre parole, Hertzl afferma che solo i veri ebrei sono ebrei sionisti laici. Poi continua a confondere l’antisionismo con l’antisemitismo: “Quando la gente dice che gli ebrei non sostengono il sionismo la risposta è no! L’ebreo non può essere un antisionista, solo Maushel lo è.”

Una retorica come questa è molto comune in Israele oggi, secondo cui i veri ebrei sono i sionisti laici e gli ebrei religiosi non sionisti sono descritti con una varietà di termini dispregiativi.”Va bene”, continua Hertzl, “lasciamoci elevare da lui. È un’opportunità per purificarci da questi elementi degradanti”.

La confusione riguardante l’identità ebraica e le affermazioni che il sionismo è parte dell’identità ebraica è molto comune, e in effetti molto preoccupante. Questa profonda incomprensione sia dell’ebraismo che del sionismo può essere fatta risalire chiaramente al fondatore del sionismo, Theodor Hertzl.

Cosa rende ebreo un ebreo?

Il grande saggista ebreo, Rabbi Sa’adiya Ga’on, il cui nome completo era Sa’id Bin Yousef El-Fayyumi, era una delle figure rabbiniche ebraiche più importanti di tutti i tempi. Nacque a Fayyum, nell’alto Egitto, alla fine del nono secolo; ha continuato a studiare a Tabariya, un importante centro di cultura ebraica in Palestina; e in seguito visse, lavorò e scrisse a Baghdad. In quello che è considerato uno dei suoi libri più importanti, “Emunot Ve-Deot”, o “Credenze e opinioni”, che ha scritto in arabo usando lettere ebraiche, Ga’on scrisse che il popolo di Israele, in altre parole gli ebrei, sono una nazione solo in virtù delle loro leggi religiose (ha usato il termine Sharia in arabo per le leggi religiose). In altre parole, un popolo legato dalla fede.

Secondo Hertzl, gli ebrei sono una nazione perché, come ha detto, “i nostri nemici ci hanno accomunato, senza il nostro consenso; la sofferenza ci unisce.” Il primo definisce il popolo ebraico come un gruppo religioso legato da leggi e fede, il secondo come un gruppo indefinito unito dall’odio dei non ebrei.

Un elogio a Hertzl

L’elogio di Vladimir Jabotinsky a Hertzl è stato una monumentale offerta di lode e persino di venerazione. Pubblicato per la prima volta come opuscolo a Odessa nel 1905, è stato scritto in russo e successivamente tradotto in ebraico. In esso, Jabotinsky discute l’eredità di Hertzl, che, nonostante le loro differenze, ammirava profondamente. In un capitolo, Jabotinsky loda le meravigliose caratteristiche di un ebreo e le confronta con quelle che chiama le spregevoli caratteristiche di un ebreo. Invece di dire ebreo, ha usato il termine orribilmente degradante e antisemita “Zhid”.

L’elogio inizia con Jabotinsky che ammette che nessuno ha mai visto un vero ebreo (“Nessuno di noi ha visto il vero ebreo con i suoi occhi”) e continua dicendo che l’ebreo che vediamo intorno a noi oggi non è un ebreo ma uno Zhid (“E così oggi, prendiamo come punto di partenza lo Zhid, e proviamo a immaginare il suo esatto opposto”, nel tentativo di immaginare un ebreo.).

”Poiché lo Zhid è brutto e debole”, scrive il padre del Partito israeliano Likud, “daremo l’immagine ideale della bellezza maschile ebraica; altezza, imponenza, prestanza fisica”, conclude Jabotinsky:

“Lo Zhid è spaventato e oppresso, l’ebreo orgoglioso e indipendente. Lo Zhid è disgustoso per tutti, l’ebraico dovrebbe essere affascinante per tutti. Lo Zhid accetta la sottomissione, gli ebrei dovrebbero sapere come elevarsi. Allo Zhid piace nascondersi agli occhi degli estranei, gli ebrei devono possedere sfrontatezza e superiorità”.

Hertzl, secondo Jabotinsky, era l’esemplare perfetto dell’ebreo che nessuno ha mai visto.

 

Sionismo: Per chi?

Se davvero Hertzl e gli altri leader del sionismo erano ebrei che odiavano se stessi e disprezzavano il “comune” ebreo, qual era la loro motivazione per fondare il sionismo e lavorare così duramente per creare uno Stato sionista?

Nel primo capitolo del suo libro, il Rabbino Shapiro cita uno dei rabbini più rispettati del suo tempo, il Rabbino Chaim Soloveichik, che visse nell’Europa orientale alla fine del diciannovesimo secolo. Secondo la citazione, il rabbino Soloveichik dice che i sionisti volevano creare uno stato per distruggere il giudaismo.

In altre parole, i sionisti erano laici e si consideravano illuminati e superiori all’ebreo “comune”. Disprezzavano gli ebrei osservanti della Torah. Volevano un luogo in cui persone come loro, che non sembravano o non vivevano come ebrei “comuni”, potessero vivere senza avere a che fare con (o addirittura vedere) ebrei osservanti, e dove potessero essere come le altre nazioni.

Lo Stato di Israele non è stato creato per l’ebreo “comune”, quello con la barba lunga e i Payot (i riccioli che penzolano dai lati della testa), quelli che vivevano negli shtetl (ghetti) d’Europa. Né lo Stato sionista è stato creato per l’ebreo arabo, ma per l’ebreo laico europeo, che vuole più di ogni altra cosa essere europeo.

In un libro che descrive come i leader sionisti vedevano gli ebrei d’Europa, c’è una foto che mostra gli ebrei al mercato nel ghetto di Nalewni a Varsavia. C’è una citazione attribuita a Chaim Weizmann, uno dei principali leader del movimento sionista e in seguito il primo Presidente dello Stato di Israele. La dicitura recita: “Eretz Yisrael (la Terra di Israele, o Palestina) non era destinata ai venditori ambulanti di Nalewski, a Varsavia”. Questi sono gli ebrei che Hertzl e gli altri leader sionisti disprezzavano.

Quando alle vittime del sionismo si presenterà finalmente l’occasione di avere giustizia in tribunale, il mondo vedrà quanto fossero davvero crudeli e razzisti i primi sionisti. Il mondo vedrà che Israele, l’attuale Stato Sionista, è un riflesso perfetto di ciò che erano i primi sionisti: Razzisti, violenti e ostili.

Oggi in Israele gli ebrei ultra-ortodossi che si oppongono al sionismo sono disprezzati e ridicolizzati; gli ebrei non religiosi e antisionisti vengono emarginati; e i palestinesi sono solo un semplice danno collaterale, il prezzo che deve essere pagato affinché la visione di Hertzl e degli altri “ebrei che odiano se stessi” possa diventare una realtà.

 

Miko Peled è scrittore collaboratore di MintPress News, autore di pubblicazioni e attivista per i diritti umani nato a Gerusalemme. I suoi ultimi libri sono “The General’s Son. Journey of an Israeli in Palestine” e “Injustice, the Story of the Holy Land Foundation Five”.

 

Traduzione: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org

 

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PERCHÉ SI PUÒ CRITICARE ISRAELE SENZA ESSERE ANTISEMITI – DAVIDE LONGO

Negli ultimi giorni il tema dell’antisemitismo è tornato alla ribalta in Europa. È dello scorso 19 febbraio la notizia della profanazione di un cimitero ebraico in Francia, e nemmeno a una settimana prima risalgono gli insulti al filosofo Alain Finkielkraut durante una manifestazione dei Gilet gialli. Se il primo caso è sicuramente un atto di antisemitismo esplicito – un reato in crescita preoccupante in Francia e Germania – il secondo, seppur diretto al filosofo in maniera verbalmente violenta, potrebbe essere letto come un gesto di critica alla politica di Israele. L’evento ha aperto un dibattito sull’antisemitismo in cui questa ideologia razzista è stata spesso confusa con l’antisionismo, sia da politici francesi che dalla stampa.

Antisemitismo e antisionismo, però, non sono posizioni assimilabili. L’antisemitismo come lo conosciamo oggi è nato circa a metà Ottocento, anche se le sue radici risalgono al Medioevo: si tratta di un’ideologia che considera gli ebrei geneticamente inferiori rispetto alle popolazioni dell’Europa occidentale o degli Stati Uniti d’America. Il termine venne coniato da Wilhelm Marr, conservatore tedesco e fondatore della Lega Antisemita, che nel 1879 scrisse Der Weg zum Siege des Germanentums über das Judentum (La strada verso la vittoria del Germanismo sul Giudaismo). Le idee di Marr ebbero grande diffusione in Francia, dove nello stesso periodo stava crescendo un diffuso movimento d’opinione antiebraico che culminò nell’Affaire Dreyfuss. L’antisemitismo si propagò in tutta Europa fino alla Russia, dove, a inizio Novecento, l’Ochrana, la polizia segreta zarista, scrisse i Protocolli dei Savi Anziani di Sion, un grande classico del complottismo recentemente tornato alla ribalta in Italia per le dichiarazioni dell’onorevole Lannutti. Si tratta di un falso storico attribuito a una fantomatica organizzazione massonico-ebraica che avrebbe avuto l’obiettivo di impadronirsi del mondo. Diffuso tra la popolazione dell’Impero, il pamphlet doveva screditare soprattutto i dirigenti dei partiti antizaristi e in particolare menscevichi e bolscevichi che erano in larga parte di origine ebraica. Negli ambienti conservatori europei, a questa cospirazione venne imputata, ad esempio, l’organizzazione della Rivoluzione Russa del 1905 e, alcuni anni dopo, perfino la Rivoluzione d’Ottobre.

In generale si può definire l’antisemitismo un’ideologia razzista costruita attorno all’idea del capro espiatorio: agli ebrei venivano imputati tutti i mali del mondo, dalle crisi politiche a quelle economiche, dalle rivoluzioni contro l’ordine costituito alle sconfitte militari. Negli anni successivi, questa narrazione attorno alle comunità ebraiche costituì l’humus dello sviluppo delle politiche razziali del regime nazista tedesco o di quello fascista in Italia. Questa narrazione infatti ancora oggi sopravvive nelle organizzazioni neofasciste e neonaziste e pare stia avendo un certo revival anche nell’Est Europa.

L’antisionismo invece è un fenomeno del tutto diverso. Prima del 1948, anno della fondazione dello Stato di Israele, il sionismo era un movimento nazionalista ebraico che propagandava la necessità della costruzione di uno Stato ebraico in Palestina, all’epoca sotto mandato britannico, in contrapposizione all’ondata di antisemitismo che stava interessando l’Europa. I sionisti consideravano gli ebrei un popolo con una propria identità nazionale, e non soltanto un gruppo religioso. Ne conseguiva che anche gli ebrei avessero diritto a uno Stato in cui determinarsi. Questa idea non era però condivisa da tutti gli ebrei d’Europa: molti di loro si sentivano tedeschi, italiani, francesi da generazioni. Non consideravano la propria religione un fattore etnicizzante, o comunque un fattore abbastanza forte da renderli una comunità separata da quella nazionale in cui erano inseriti. Ma la crescita dell’antisemitismo in Europa e la Shoah spinsero molti di loro ad abbracciare l’idea di uno Stato nazionale ebraico.

La nascita di Israele dopo la seconda guerra mondiale diede via a una guerra fra i partiti sionisti e gli abitanti della Palestina, che vennero cacciati dalle terre dove doveva sorgere il nuovo Stato, in quello che si potrebbe dire un processo di pulizia etnica, come lo definì lo storico israeliano Ilan Pappe. La creazione da zero di un’identità nazionale si concretizzò nella distruzione degli insediamenti palestinesi, in massacri indiscriminati, in un esodo forzato da quelle terre. I loro abitanti ancora chiamano quegli avvenimenti “Nakba”, termine ebraico il cui significato (“tragedia”) lo rende drammaticamente simile al termine Shoah, usato per le persecuzioni naziste ai danni degli ebrei.

Già all’epoca, numerosi intellettuali si schierarono contro queste politiche discriminatorie nei confronti dei palestinesi che, sempre secondo lo storico Ilan Pappe, erano state decise dalla leadership dei partiti sionisti già negli anni Trenta. Albert Einstein, insieme ad altri intellettuali ebrei tra cui Hannah Arendt, pubblicò una lettera di protesta sul New York Times il 4 dicembre 1948, pochi mesi dopo la dichiarazione d’indipendenza di Israele, mentre centinaia di villaggi palestinesi venivano demoliti dopo l’espulsione dei loro abitanti. La lettera denunciava il nuovo partito di destra Herut e il suo giovane leader Menachem Begin, a cui in seguito venne conferito il Premio Nobel per la Pace. Herut proveniva dall’Irgun, il famigerato gruppo terroristico noto per i numerosi attacchi contro le comunità arabe palestinesi. Nella lettera, Einstein e colleghi descrivevano Herut come un partito politico che, per la sua organizzazione, i metodi, la filosofia politica e l’approccio populista era strettamente affine a quello nazista e fascista. Anche un sopravvissuto alla Shoah fece sentire la propria voce: Marek Edelman, che combatté nella rivolta del Ghetto di Varsaviasi oppose alla creazione di uno Stato ebraico restando a vivere in Polonia fino alla fine dei suoi giorni.

Dopo il 1948 il sionismo, avendo formalmente raggiunto il proprio obiettivo, divenne un movimento internazionale di sostegno all’esistenza dello Stato di Israele e alle sue politiche di discriminazione nei confronti del popolo palestinese, giustificate in nome della difesa del diritto all’autodeterminazione del popolo ebraico. Allo stesso modo anche oggi l’antisionismo è sostenuto da numerosi ebrei che di certo non possono essere tacciati di antisemitismo. Prendiamo come esempio Norman G. Finkelstein: storico e politologo statunitense di origini ebraiche, ha dichiarato più volte che la Shoah – che vide coinvolta tutta la sua famiglia – non può essere paravento per le violenze che Israele perpetra ai danni dei palestinesi. Lo stesso Noam Chomsky, uno dei più grandi linguisti viventi, si è opposto al sionismo ebraico, spiegando i legami fra la nascita di Israele e gli interessi geopolitici degli Stati Uniti d’America, ma anche con il cosiddetto sionismo cristiano di numerosi membri delle amministrazioni americane sotto Roosvelt, Truman, Wilson. Chomsky fa esplicito riferimento a figure come Harold Ickes che, in quanto cristiano osservante, credeva che il ritorno in Palestina degli ebrei fosse il compimento di uno dei dettami dell’Antico Testamento. Ickes fece di tutto per favorire la fine della diaspora ebraica, e paragonò i coloni sionisti in Palestina ai profughi protestanti che giunsero in America nel 1620 a bordo della nave Mayflower.

Ma non si tratta solo di voci isolate fra gli intellettuali: nel 2011 migliaia di manifestanti israeliani e palestinesi hanno marciato a Gerusalemme per dichiararla capitale di tutti, multireligiosa e multiculturale. Nel 2014, in una lettera pubblicata dal New York Times, 327 tra sopravvissuti e discendenti di vittime della Shoah hanno condannato gli attacchi dell’esercito israeliano contro la Striscia di Gaza nell’ambito dell’operazione Piombo Fuso. Del resto a Gerusalemme esistono da decenni gruppi di ebrei ortodossi che si oppongono all’esistenza stessa dello Stato d’Israele: è il caso dei Neturei Karta che rifiutano di prendere parte alle elezioni per la Knesset e di ricevere fondi dallo Stato sulla base di una rigida interpretazione della Torah. Come ha spiegato lo storico Furio Biagini in un suo recente volume, questo movimento religioso ha migliaia di affiliati sparsi in tutto il mondo, dal quartiere di Mea Shearim a Gerusalemme fino a comunità negli Usa e in Italia.

C’è quindi un movimento d’opinione internazionale che critica le politiche dello Stato di Israele e discute sulle possibili soluzioni della situazione in Palestina. Un movimento che ha molte anime, ma che non può essere in alcun modo assimilato al razzismo e all’antisemitismo.

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Chi sono i veri antisemiti? (intervista di Nicola Carella a Ronnie Barkan)

 

Ronnie Barkan è un dissidente israeliano e un attivista della campagna per i diritti del popolo palestinese Bds e dei movimenti contro le politiche di colonialismo, occupazione militare e apartheid del governo israeliano. Attualmente vive a Berlino dove, insieme ad altri due attivisti, sta sostenendo un processo per aver definito pubblicamente le politiche di Israele «crimini contro l’umanità».

Ronnie, per inquadrare innanzitutto il tuo attivismo, quali sono a grandi linee gli obiettivi politici che ti spingono ad agire in un contesto come quello tedesco in generale e berlinese in particolare?

Credo che il nostro ruolo di attivisti debba essere volto superare le ingiustizie sistemiche e affermare i diritti o i valori per i quali crediamo valga la pena lottare. In secondo luogo, come individuo, sono anche nato in un contesto specifico, in cui i miei diritti e i miei privilegi mi vengono consegnati e garantiti a spese degli «altri». Tutto ciò che riguarda la creazione del progetto sionista in Palestina ruota attorno a questa semplice nozione: i privilegi per un gruppo etnico sono a spese di tutti gli altri, specialmente se gli altri sono gli indigeni di quella terra. Chiunque pensi che lo Stato di Israele sia stato istituito per qualsiasi altro scopo è quantomeno poco informato sulla questione. Esattamente per come qualsiasi persona bianca consapevole dell’apartheid in Sudafrica o durante la schiavitù in Nord America, il mio parlare e agire per l’abolizione del sionismo è qualcosa di naturale, è il risultato diretto e più ovvio dell’essere nato in quel sistema di oppressione. La ragione poi per cui concentro i miei sforzi in lungo e largo qui a Berlino è perché la vedo come l’ultimo bastione permanente del sionismo. Penso che piuttosto che imparare dal suo orribile passato, la Germania in generale, e Berlino in particolare, quasi non vogliano mai guardarsi allo specchio. E per questo sostengono attivamente uno Stato la cui politica ufficiale è quella di praticare crimini contro l’umanità. Poiché larga parte della cosiddetta «sinistra tedesca» è in prima linea nell’assalto ai palestinesi in nome di una presunta protezione dello Stato criminale sionista, per i pochi dissidenti israeliani che sono in giro è ancora più urgente prendere parola proprio su quel terreno in cui l’intero spettro politico tedesco risulta ambiguo.

A questo proposito tu sei tra gli animatori a Berlino della campagna internazionale Bds. E recentemente il Bundestag ha votato una mozione in cui si definiva la campagna Bds antisemita. Una definizione particolarmente odiosa e un’accusa molto grave. Come hai letto, da ebreo, dissidente israeliano e attivista della campagna questo voto? E quali riscontri ha qui in Germania la campagna Bds?

Durante le sessioni dello scorso maggio al Bundestag, c’è stato un voto unanime contro la campagna Bds. Non un singolo parlamentare, nemmeno uno, ha votato contro l’equiparazione tra Bds e antisemitismo. Tre mozioni sono state presentate al parlamento. L’Afd, una coalizione Cdu-Spd-Verdi e la Linke hanno votato ciascuno per la propria mozione ma contro quelle quasi identiche presentate dai gruppi loro concorrenti. Per quanto ne so, nessun parlamentare ha scelto di esprimere una voce dissenziente. La maggior parte delle persone si aspetterebbe che io, in quanto dissidente israeliano, individui come avversari più insidiosi un partito espressamente razzista come Afd o magari il movimento anti-Deutsch che è ultra-sionista e soffre evidentemente di dissonanza cognitiva. Ma, paradossalmente, la minaccia di gran lunga maggiore alla libertà di espressione in Germania viene da una tradizione politica ben diversa; da chi ha creato le condizioni perché si arrivasse ai recenti attacchi contro le voci filo-palestinesi e il movimento Bds. E tra questi attacchi ci sono anche i tentativi di criminalizzare gli attivisti per reati d’opinione difficilmente dimostrabili senza quel genere di voto politico. Tra questi tentativi c’è anche il procedimento penale contro di me e altri compagni per aver stigmatizzato apertamente i crimini israeliani. Amaramente devo ammettere che i principali avversari che abbiamo di fronte fanno parte della sinistra tedesca. È il partito Die Linke e la sua ala di pubbliche relazioni, la Rosa Luxemburg Stiftung che, oltre a svergognare l’eredità della stessa Luxemburg, oggi è il nostro principale antagonista. Hanno alle spalle una storia decennale di falsa equiparazione tra Bds e l’antisemitismo e di isolamento delle voci che chiedono la piena uguaglianza in Israele-Palestina. Proprio come per la cosiddetta «sinistra» israeliana, anche quella tedesca giustifica il suo attacco ai diritti dei palestinesi con una facciata democratica e pseudo-liberale. Diventa fondamentale che gli attivisti, i militanti, gli elettori siano informati in maniera seria e per questo sono preziosi i giornalisti così coraggiosi e rigorosi da confutare discorsi colmi di menzogne. Retoriche che formalmente affermano di voler promuovere pace e giustizia mentre agiscono instancabilmente per proteggere e perpetuare sette decenni di crimini israeliani contro l’umanità. E le mistificazioni e accuse contro il movimento Bds non sono solo odiose per queste ragioni ma anche perché utili a distogliere l’attenzione da casi molto reali di antisemitismo e razzismo nell’estrema destra.

Andando oltre i partiti qual è la sensibilità sulle politiche sioniste nella società tedesca, nei media, nei movimenti sociali, nella sinistra diffusa?

Dal mio soggettivo punto di vista non esiste una sinistra politica tedesca, così come non ce n’è una in Israele e per ragioni molto simili. Ho scelto di stabilirmi qui proprio perché vedo questo contesto come il posto più sionista del mondo. È vero, ovviamente, che qui è necessario lottare non solo contro il sionismo o altre forme di suprematismo. Ma per esempio, la società tedesca incoraggia l’obbedienza e non mette mai in discussione l’autorità; e da questo punto di vista c’è ancora molta strada da fare. Il largo supporto politico, acritico e miope, all’impresa criminale sionista si presenta come una «soluzione semplice» per la società tedesca; un’adesione che libera psicologicamente l’intera società dal riflettere nel profondo sul proprio razzismo strutturale e sulla propria cieca obbedienza all’autorità. A dire il vero, ad alcuni giornalisti di testate importanti è stato necessario fare espressamente divieto dal diritto di critica verso le scelte del governo israeliano, ma su questa questione si va persino oltre. Esemplare a tal proposito è la definizione della Staatsräson tedesca – la ragione di Stato – una definizione suprema al di sopra di qualsiasi legge scritta, compresa la Costituzione, che tutela il singolo essere umano. Nella Staatsräson si sostiene che il compito fondamentale e la ragione reale per l’esistenza della Germania post-nazista è garantire l’esistenza dello Stato sionista, non importa a quale prezzo. Questo supporto fideistico da parte di un’intera società, il sostegno a uno Stato che commette crimini contro l’umanità elevato a ragione di Stato ufficiale è, credo, davvero molto significativo. E spiega efficacemente il motivo per cui ho deciso di stabilirmi qui e quanto importante sia il ruolo politico che i dissidenti israeliani come me possono svolgere in questo contesto.

Nelle recenti elezioni inglesi le accuse di antisemitismo contro Jeremy Corbyn e il Labour Party hanno avuto un peso importante quasi quanto il tema principale, la Brexit. Ora negli Usa sembra si ripeta lo schema contro la campagna di Bernie Sanders. Che idea ti sei fatto su questo imporsi nel dibattito politico di una nuova «emergenza antisemitismo»?

La cosa più urgente da dire è che oggi non esiste alcuna emergenza antisemitismo nella politica inglese. Anzi semplicemente non è mai esistita. E anche se non esisteva nella realtà, era ovunque nei media britannici e globali. Ma per i sionisti probabilmente potrebbe essere emersa una crisi antisionista. Le false accuse di antisemitismo, provenienti da organizzazioni sioniste, non si sono infatti fermate nemmeno dopo le recenti elezioni nel Regno Unito. Mentre parliamo, il Board of Deputies, che è una rabbiosa organizzazione sionista che pretende di rappresentare tutti gli ebrei, sta portando avanti l’assalto agli esponenti del Partito laburista britannico critici nei confronti del sionismo. E lo fanno con una campagna che vuole imporre loro di sottoscrivere un elenco di dieci impegni. Potremmo facilmente smontare i dieci impegni, evidenziando le bugie e la manipolazioni presenti in ognuno.

Sfortunatamente, però, la maggior parte dei media non si farà mai carico di un impegno così gravoso. Questo poiché è comunque più comodo rigurgitare il discorso esistente basato sulle menzogne. Discorso che parte sempre dall’accettazione della strumentale sovrapposizione tra ebraismo e ideologia sionista suprematista, riferendosi allo Stato sionista come «lo Stato ebraico», con il suo intrinseco sistema di apartheid e regime suprematista cui riferirsi come «democrazia israeliana» e così via. Gli stessi attacchi contro Corbyn sono ora rivolti contro Sanders e hanno la stessa validità. Dobbiamo ricordare che rappresentano una visione che è incompatibile col progetto sionista e per questo non si fermeranno davanti a nulla per toglierlo di mezzo. Basterebbe anche solo un leader di un paese della Nato che metta in discussione la legittimità anche solo di alcuni aspetti del sistema di oppressione sionista, per provocare un potenziale effetto domino. Come nel caso delle calunnie contro Corbyn, ora anche contro Sanders sono i cosiddetti referenti progressisti del «sionismo liberale» a guidare questa implacabile campagna di delegittimazione. E come è stato dimostrato con Corbyn, l’unica risposta efficace a tali tentativi può essere solo con toni non dispiaciuti e senza concedere nulla se non diritti pieni e uguali per tutte e tutti.

Però è innegabile che in diversi contesti, penso all’Italia, ma anche agli Stati uniti come alla Germania c’è effettivamente un aumento significativo di azioni antisemite, no?

Certo, è così. Questo innanzitutto perché c’è un diffuso sentire razzista «anti-qualcosa» e persino un ritorno evidente di forme più o meno esplicite di fascismo. Ed è un sentire in aumento in tutto il mondo. E include ovviamente anche l’antisemitismo. Ma la forma di razzismo di gran lunga più presente ed evidente in Germania è l’islamofobia. Per comprendere le ragioni dell’aumento degli atti di razzismo basterebbe osservare il consenso delle retoriche di odio di leader come Bolsonaro e Trump, Orban e Netanyahu, solo per citarne alcuni. Insieme all’ascesa delle forze fasciste, tuttavia, esiste una concreta possibilità per l’affermarsi di un movimento antirazzista globale, basato sui diritti e quindi universale. Il movimento Bds ne è un brillante esempio, ma per una voce globale deve ancora esserci l’incontro di altri gruppi oppressi ed emarginati come anche di altri indigeni di tutti i continenti. Di recente a Berlino abbiamo organizzato una marcia anticoloniale che ha riunito molti gruppi da tutto il mondo, incluso ovviamente il Bds palestinese. Stiamo davvero osservando la globalizzazione di una lotta antifascista davanti ai nostri occhi e ci sono molte ragioni per essere ottimisti, ma allo stesso tempo realisticamente abbiamo ancora molta strada da fare. Oltre a tutti questi processi, c’è anche uno straordinario aumento di un sentimento antisionista in tutto il mondo. Non è ancora prevalente in Germania, ma nei luoghi in cui la consapevolezza pubblica dei crimini israeliani è maggiore, vi sono crescenti critiche nei confronti del sionismo e delle sue pratiche criminali. Questo cambiamento nell’opinione pubblica è molto preoccupante per le organizzazioni sioniste che a loro volta rilanciano provando a confondere il sionismo con l’ebraismo, imponendo alla sinistra di assumere che essere antisionisti (e quindi antirazzisti) equivale a essere antisemiti. La nostra risposta a ciò dovrebbe semplicemente essere la negazione di ogni e possibile legame tra sionismo ed ebraismo.

Tuttavia c’è qualcosa che ancora non mi torna, probabilmente sono legato a schemi superati. Qualche giorno fa, per esempio, avete organizzato come Bds un presidio di fronte al Bundestag. Come prevedibile c’è stata una contro manifestazione, abbastanza piccola a dire il vero. C’è una foto dei contro-manifestanti che mi ha colpito. In primo piano c’è un sionista che sventola una bandiera israeliana, indossa un cappello da baseball con scritto «Make America Great Again». E fin qui visti i rapporti tra Trump e Israele potrebbe non esserci contraddizione. Ma alle sue spalle c’è un militante naziskin con testa rasata, tatuaggi e simboli che si richiamano alla destra neonazista tedesca. Come è possibile? Non c’è una contraddizione nell’alt-right e nei movimenti sovranisti globali che sventolano una bandiera con la stella di David e si richiamano alle forme più classiche di antisemitismo? 

Non esiste contraddizione all’interno dell’alt-right. Essere antisemiti e sionisti è un fenomeno più che naturale. I primi sionisti erano esplicitamente anti ebraici e discutevano degli ebrei religiosi in Europa nei modi antisemiti più razzisti che si possano immaginare. Per questo cercarono di creare un «nuovo ebreo» che non aveva nulla a che fare con la religione ebraica e tutto con una forma moderna di nazionalismo e suprematismo. Il nazionalismo è un elemento estraneo al giudaismo e la falsa nozione di «nazionalismo ebraico» è una delle tante creazioni del sionismo che si allontanano dal giudaismo. Richard Spencer ha ragione al 100% quando si definisce «sionista bianco». A differenza dei cosiddetti sionisti liberali, Spencer in realtà è coerente. Il sionismo è semplicemente una forma di supremazia etnica che vuole parlare a nome di tutti gli ebrei, proprio come il Kkk afferma di parlare a nome dei cristiani o l’Isil a nome dei musulmani. La dissonanza cognitiva non riguarda Spencer ma ogni singolo «sionista liberale» come l’intera redazione del quotidiano Haaretz che gravita intorno a uno specifico ragionamento liberal sionista basato su menzogne. A differenza dei sionisti onesti e non pentiti come Spencer o la destra israeliana, i sionisti liberali devono costantemente mantenere una narrazione falsa per apparire eticamente morali e sionisti allo stesso tempo. Questo per due ragioni. In primo luogo, quel genere di discorso nasce da un bisogno quasi «psicologico» di raccontarsi come il volto umano e eticamente accettabile in una situazione evidentemente disumana. In secondo luogo, è funzionale a convincere l’opinione pubblica mondiale, anche in modo molto efficace, che esista qualcosa di legittimo nel progetto sionista per la Palestina. Così hanno creato con successo un mito: la possibilità che esista uno stato sionista che non sia profondamente contrario ai principi democratici di uguaglianza, multiculturalismo e rispetto dei diritti delle minoranze. Questo è un modo comprovato di disinformazione nello Stato di Israele, in cui non vengono inventati i fatti ma piuttosto si agisce su come raccontarli. Nel discorso pubblico si crea così una sorta di «area intermedia», di compromesso fittizio, in una dialettica avvincente tra due polarità: un suprematismo non apologetico da una parte e le persone che da questo vengono oppresse e sottomesse.

Concludendo spostiamoci proprio in Palestina. Da dissidente israeliano e attivista Bds come giudichi l’attuale situazione israelo-palestinese?

Per valutare la situazione in Palestina, anche nota come Israele, è importante comprendere il modo in cui si è lì imposto il progetto sionista. Questo problema fondamentale non ha mai riguardato la «terra», ma piuttosto quali fossero le persone a cui concedere il diritto di vivere su quella terra. Sono dei «nostri» o dei «loro»? Questo è il cuore della questione e la ragione fondamentale da cui nasce tutto ciò che sappiamo. Lo Stato di Israele è stato costruito letteralmente sulla Palestina e in particolare a spese della sua popolazione indigena. Alcuni furono espulsi sette decenni fa e a loro fu negato, e lo è fino a oggi, il ritorno alla propria terra; altri sono controllati giorno e notte da un esercito che nega i loro diritti più elementari, incluso il diritto alla vita; e un terzo gruppo vive come cittadini o residenti di seconda classe soggiogati, in uno Stato il cui principio fondamentale è negare loro i diritti riservati esclusivamente ai padroni della terra. In totale, quindi, ci sono tre distinti gruppi più o meno delle stesse dimensioni che vengono direttamente interessati da questo sistema di oppressione: parliamo di 20 milioni di persone in tutto. Un primo gruppo composto da chi beneficia di un sistema costruito esclusivamente nel suo interesse; un altro terzo della popolazione soggiogato o sotto una brutale occupazione militare. E l’ultimo terzo completamente assente dal territorio. A questi viene negato il diritto a tornare a casa da settant’anni per una e una sola ragione: «loro» non sono dei «nostri». Direi che tutto sommato poco è cambiato politicamente nel sistema Israele-Palestina. Ciò che sta cambiando, anche molto rapidamente, è però l’intera percezione della situazione. Questo per le forzature della destra israeliana al potere da una parte e per l’allargamento del consenso intorno alla campagna Bds nell’opinione pubblica globale. In altre parole tutto sta diventando più chiaro ed esplicito rispetto al passato. Ora che il discorso strumentale del «sionista liberale» sta finalmente perdendo peso politico, l’opinione pubblica come anche i rappresentanti politici di tutto il mondo si trovano in una condizione in cui sono obbligati a prendere una posizione: con gli oppressori o con gli oppressi? Con l’apartheid o la democrazia? Con i «diritti» da garantire solo a un gruppo esclusivo o a tutte le figlie e tutti i figli di questa terra?

Una novità si è prodotta proprio in questi ultimi giorni: il Piano di Trump. Come si inserisce questa novità nella tua valutazione? E quali sono gli elementi più significativi secondo te del piano presentato dal Presidente degli Usa?

Il Piano Trump contiene in realtà pochissime cose nuove o sorprendenti. Oltre al modo grottesco in cui è stato presentato, ci sono solo due punti realmente degni di nota. In primo luogo, il piano è la conseguenza ovvia e prevedibile della legge sullo «Stato nazionale ebraico», votata nel luglio 2018. In secondo luogo, è interessante prestare attenzione non solo a ciò che è stato detto, ma anche a ciò che è stato deliberatamente omesso. Iniziamo dal primo punto. Al contrario di quanto molti media scrissero rispetto alla legge sullo «Stato nazionale ebraico», nei testi giuridici israeliani poco o niente veniva modificato. Tutto ciò che era specificato nel testo di legge non era una novità, ma, anzi, era lì da sempre. La differenza è che alcune prassi giuridiche venivano solo rese esplicite. In particolare nel quadro giuridico dello Stato sionista, i diritti della razza/gruppo etnico vengono definiti dalla distinzione fondamentale tra diritti «nazionali» e diritti di «cittadinanza». Grazie a questa distinzione è stata possibile l’emersione progressiva di un regime di apartheid. Fondamentalmente si è creato un sistema legale a doppio livello che distingue tra alcune persone che vanno ricercate e richiamate verso lo Stato di Israele e altre persone che vanno espulse in quanto indesiderate. Un sistema che offre i diritti più alti e i privilegi più importanti a un gruppo esclusivo – definito secondo il concetto di «nazionalità»  e contemporaneamente crea una fragile parvenza democratica offrendo a tutti i diritti di «cittadinanza». La legge dello Stato nazionale ebraico è servita solo al governo israeliano di destra per disvelare l’unica sostanziale differenza tra destra e sinistra israeliana. Quella tra forme esplicite e implicite di suprematismo. La legge infatti non cambia nulla rispetto al passato, ma ha valore rispetto a una pianificazione del futuro! Così nell’articolo 1, al comma c) si stabilisce che: «La realizzazione del diritto all’autodeterminazione nazionale nello Stato di Israele è unica prerogativa per il popolo ebraico». Con questa nuova Legge fondamentale approvata, praticamente impossibile da modificare, viene resa di fatto irrilevante l’intera questione della demografia o «la necessità di separarsi» dai palestinesi. E mentre la cosiddetta sinistra israeliana ha un disperato bisogno di creare uno stato palestinese o forzare un’autonomia dai palestinesi al fine di segregarne il maggior numero per mantenere il proprio Stato «razzialmente» puro, l’ala destra, che non si vergogna del proprio suprematismo, ha gioco più facile. Tutto ciò che serve è garantire che loro, e solo loro, resteranno i padroni della terra in futuro, indipendentemente dai futuri assetti demografici: i diritti «nazionali». Questo pone le basi per qualsiasi futura annessione di terra ma senza l’ossessione di porre attenzione al gioco dei numeri. Consentirebbe l’annessione immediata dell’Area C ma persino dell’intera Cisgiordania. Consentirebbe anche, se lo si desiderasse, il ritorno dei 6 milioni di rifugiati palestinesi nella diaspora, perché nei fatti espulsi da qualunque possibilità di esercitare diritti politici o effettivo potere decisionale. Consentirebbe formalmente di dare «piena cittadinanza» alla popolazione annessa assicurandosi che i sionisti rimangano i padroni della terra. E il piano Trump è pionieristico da questo punto di vista perché fa un primo e significativo passo verso una serie di cosiddette annessioni legali e democratiche. E qui passiamo al secondo aspetto rilevante che riguarda il Piano di Trump: le omissioni necessarie verso i sionisti israeliani. YNet, la più grande piattaforma di notizie israeliana, ha scelto di pubblicare il discorso di Trump-Netanyahu ma, attraverso una piccola correzione, ha avuto la premura di censurare una frase di Trump. Sfortunatamente non erano le sue dichiarazioni da macho a Mike Pompeo, ma si trattava piuttosto di questo impegno: «Nessun palestinese o israeliano verrà sradicato da casa sua». Nella psiche collettiva israeliana quella frase è incomprensibile perché totalmente inaccettabile. E quel passaggio era tutto sommato persino un impegno controproducente giacché l’intero obiettivo del Piano è annettere legalmente la terra, cosa che inevitabilmente richiederà lo sradicamento forzato, ancora una volta, dei palestinesi dalle loro case. La novità è che questa volta ciò potrà avvenire sotto l’ombrello legale di un corpus normativo democratico in un cambio di un paradigma ancora al di là dall’essere compreso realmente sia in Israele sia nell’opinione pubblica globale.

* Ronnie Barkan è un attivista ebreo israeliano, co-fondatore dell’associazione Boycott from Within e del gruppo Anarchists against the Wall, tra i principali portavoce del movimento Bds. Per scrivergli o seguirlo su Twitter: @ronnie_barkan. Nicola Carella è ingegnere e attivista. Dal 2012 vive a Berlino occupandosi di welfare, precarietà e cambiamenti macroeconomici.
Fonte: Jacobin Italia

 

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I palestinesi non vogliono antisemiti nei loro cortei – Kamel Hawwash

 

Come presidente della Palestine Solidarity Campaign [Campagna di Solidarietà con la Palestina] in Gran Bretagna sono stato orgoglioso di lavorare con i nostri partner per organizzare sabato un corteo stimato in 150.000 partecipanti da Marble Arch [arco di trionfo nei pressi di Hide Park, ndtr.] di Londra all’ambasciata israeliana a Kensington. Con noi c’erano il Palestinian Forum in Gran Bretagna, i Friends of Al-Aqsa [Amici di Al-Aqsa], la coalizione Stop the War [Ferma la guerra, ndtr.], CND e l’associazione musulmana della Gran Bretagna.

Discorso dopo discorso abbiamo espresso il nostro rifiuto dei letali bombardamenti di Israele contro Gaza che hanno fatto seguito ai tentativi di compiere una pulizia etnica a Sheikh Jarrah a danno degli abitanti palestinesi e all’indicibile violenza inflitta ai fedeli nella moschea di Al-Aqsa. C’è stato anche un supporto unanime ai palestinesi che si sono uniti nella Palestina storica come mai prima d’ora. L’apartheid israeliano, il colonialismo di insediamento, il razzismo e l’occupazione colpiscono tutte le aree della Palestina sotto occupazione. Nessun luogo è risparmiato dall’aggressione e dall’ oppressione sioniste, compresi quei palestinesi che hanno la cittadinanza israeliana perché nel 1948 sono rimasti nella loro terra in quello che ora è Israele.

C’è stato anche ripudio nei confronti dei leader dalla cosiddetta comunità internazionale, che sono rimasti in silenzio riguardo alla violenza inflitta ai palestinesi a Sheikh Jarrah, a Bab El-Amoud (la Porta di Damasco) e all’interno del complesso di Al-Aqsa. Gli stessi dirigenti, compresi tra gli altri il presidente USA e i rappresentanti dei governi britannico, francese e tedesco, si sono affrettati a sincronizzare il loro orologio discriminatorio contro i palestinesi quando il primo razzo è stato lanciato da Gaza verso Israele.

Il loro discorso è stato semplicemente che Israele ha il diritto all’autodifesa. Non è stata fatta alcuna menzione al diritto dei palestinesi all’autodifesa – in effetti il nostro diritto legittimo di resistere all’occupazione israeliana – come se fossimo persone inferiori. Invece gli americani hanno sostenuto che solo Paesi o Stati hanno il diritto all’autodifesa. La Palestina ha chiesto il riconoscimento come Stato da decenni. Tuttavia i principali Paesi del mondo, come gli USA, la Gran Bretagna, la Francia e la Germania, hanno ignorato questa richiesta, nonostante alcuni dei loro parlamenti abbiano approvato risoluzioni che impongono ai governanti di riconoscere lo Stato di Palestina.

Tuttavia questa è semantica e non dovrebbe essere utilizzata come scusa per negare al popolo palestinese il diritto all’autodifesa perché farlo sconvolgerebbe lo status quo favorevole a Israele. Cosa importante, la Corte Penale Internazionale ha accettato di avere giurisdizione sui Territori Palestinesi Occupati perché la Palestina è riconosciuta dall’ONU come Stato osservatore ed è stata ammessa allo Statuto di Roma. Quindi è uno Stato ed ha il diritto all’autodifesa.

Le persone possono avere diverse opinioni su cosa significhi autodifesa. Nel caso di Israele, sembra che utilizzerà ogni mezzo violento a disposizione per mettere in atto quello che considera il suo diritto. Tuttavia basta guardare alle distruzioni e devastazioni provocate a Gaza. Non c’è una giustificazione di “autodifesa” per il massacro di uomini, donne e bambini innocenti con quelle che dovrebbero essere armi intelligenti che costano milioni di dollari. Non ci sono scuse per la demolizione di grattacieli che ospitano centinaia di persone, indipendentemente dal fatto che l’esercito abbia o meno avvertito gli abitanti per telefono o con razzi “leggeri” che stava per privarli di una casa. Non ci sono scuse per aver fatto saltare in aria il grattacielo che ospitava gli uffici di mezzi di comunicazione come Al Jazeera, che ha informato del barbaro bombardamento. Non ci sono scuse per la distruzione di banche e altre infrastrutture della società civile. Israele ha fatto tutto ciò per “autodifesa”. Non sono sicuro che distruggere una banca o privare i palestinesi della propria casa possa rendere i cittadini israeliani più sicuri.

Questa è una violenza assolutamente folle contro una popolazione imprigionata, assediata, senza un posto in cui rifugiarsi nella zona più densamente popolata al mondo. Israele ha di nuovo traumatizzato un’intera generazione che crescerà pronta ad unirsi alla resistenza.

Né io né la PSC vogliamo vedere qualcuno ucciso o ferito a causa dell’insistenza di Israele nel negare ai palestinesi il loro diritto all’autodeterminazione nella loro patria e il legittimo diritto dei rifugiati di tornare a casa.

Né vogliamo la sorprendente solidarietà cui abbiamo assistito nelle strade di Londra, Brighton, Birmingham, Manchester e Newcastle e in molti altri luoghi in Gran Bretagna e altrove, segnata da alcuni come espressione di odio verso gli ebrei, che non hanno niente a che vedere con gli eventi che si sviluppano in Palestina, derivanti dalle ripugnanti politiche e pratiche di Israele.

In quanto antirazzista e anche presidente di un’organizzazione di solidarietà antirazzista, io e la mia organizzazione prendiamo le distanze da ogni tentativo di accusare gli ebrei britannici delle azioni di Israele. Quest’ultimo è guidato dalle politiche della sua dirigenza di estrema destra e dall’ideologia sionista che ha insediato Israele nella mia patria, la Palestina, con l’aiuto e la complicità della Gran Bretagna.

Né io la PSC o i nostri alleati vogliamo che i razzisti prendano parte alle nostre manifestazioni e raduni. Cosa ancora più importante, il popolo palestinese non vuole l’appoggio di razzisti che tentano di utilizzare la nostra causa per vomitare il proprio odio contro gli ebrei.

Quindi sono rimasto realmente scioccato e sconvolto quando ho visto un filmato ampiamente diffuso domenica sulle reti sociali in cui la bandiera della pace, la bandiera palestinese, copriva automobili in cui alcuni antisemiti hanno attraversato zone ebraiche a Londra e gridato oscenità razziste. Ciò non è stato fatto in nome dei palestinesi, lo condanno incondizionatamente e chiedo alle autorità di prendere ogni misura necessaria per fronteggiare questi razzisti.

Ho pubblicato immediatamente questo tweet:

“Questa gente non parla per i palestinesi e non abbiamo bisogno né vogliamo il loro appoggio. Il nostro problema riguarda il sionismo, non gli ebrei. Non voglio che partecipino alle nostre manifestazioni o cortei.”

Non è questo il momento per discutere sulla definizione di antisemitismo, ma rifiuto il tentativo di proteggere Israele attraverso nuove definizioni di questa piaga razzista. Per me è semplice: l’antisemitismo è l’odio contro gli ebrei perché sono ebrei. Detesto ogni forma di razzismo. Credo fermamente che noi, palestinesi britannici, stiamo fianco a fianco con gli ebrei britannici nel rifiuto di ogni forma di razzismo, esattamente come facciamo con ogni altra minoranza.

Sfileremo di nuovo a Londra il prossimo sabato e ci saranno cortei e marce in tutta la Gran Bretagna e nel mondo. La nostra rabbia sarà rivolta contro Israele, non contro gli ebrei britannici o di altri luoghi. Dico a quanti vengono alle manifestazioni: non portate cartelli con immagini antisemite o che fanno riferimento al nazismo. Non gridate slogan antisemiti. Contestate quelli che lo fanno, perché non li vogliamo ed essi non aiutano la nostra causa. Portate cartelli che appoggino i palestinesi e sventolate la bandiera palestinese.

Non vogliamo antisemiti nella nostra società e non vogliamo antisemiti nei cortei e nei raduni in solidarietà con i palestinesi o negli eventi filo-palestinesi. Per il bene dei nostri fratelli e sorelle palestinesi, rendiamo gli eventi palestinesi zone libere dall’antisemitismo e concentriamoci e facciamo pressione contro l’apartheid israeliano. Palestina libera.

 

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)

 

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SFATARE IL MITO CHE L’ANTISIONISMO SIA ANTISEMITA – Peter Beinart

 

È un momento sconcertante e allarmante per un ebreo, sia perché l’antisemitismo è in aumento sia perché così tanti politici stanno rispondendo ad esso non proteggendo gli ebrei ma vittimizzando i palestinesi.

Il 16 febbraio, i membri del movimento di protesta dei gilet gialli francese hanno lanciato insulti antisemiti all’illustre filosofo ebreo francese Alain Finkielkraut . Il 19 febbraio sono state trovate svastiche su 80 lapidi in Alsazia. Due giorni dopo, il presidente francese, Emmanuel Macron, dopo aver annunciato che l’Europa stava “affrontando una rinascita dell’antisemitismo mai vista dalla seconda guerra mondiale”, ha svelato nuove misure per combatterlo.

Tra questi c’era una nuova definizione ufficiale di antisemitismo. Tale definizione, prodotta dall’International Holocaust Remembrance Alliance nel 2016, include tra i suoi “esempi contemporanei” di antisemitismo “chi nega al popolo ebraico il diritto all’autodeterminazione”. In altre parole, l’antisionismo è odio per gli ebrei. In tal modo, Macron si è unito a Germania, Gran Bretagna, Stati Uniti e circa 30 altri governi. E come loro, ha commesso un tragico errore.

L’antisionismo non è intrinsecamente antisemita – e affermare che lo sia usa la sofferenza ebraica per cancellare l’esperienza palestinese. Sì, l’antisemitismo sta crescendo. Sì, i leader mondiali devono combatterlo ferocemente. Ma nelle parole di un grande pensatore sionista , “questo non è il modo”.

 

L’argomento che l’antisionismo è intrinsecamente antisemita poggia su tre pilastri. Il primo è che l’opposizione al sionismo è antisemita perché nega agli ebrei ciò di cui gode ogni altro popolo: un proprio stato. “L’idea che tutti gli altri popoli possano cercare e difendere il loro diritto all’autodeterminazione ma gli ebrei no”, ha dichiarato il leader della minoranza al Senato degli Stati Uniti Chuck Schumer nel 2017, “è antisemita”.

Come ha affermato lo scorso anno David Harris, capo dell’American Jewish Committee : “Negare al popolo ebraico, a tutti i popoli della terra, il diritto all’autodeterminazione è sicuramente discriminatorio”.

Tutti i popoli della terra? I curdi non hanno un loro stato. Né baschi, catalani, scozzesi, kashmiri, tibetani, abkhazi, osseti, lombardi, igbo, oromo, uiguri, tamil e quebecchesi, né dozzine di altri popoli che hanno creato movimenti nazionalisti per cercare l’autodeterminazione ma non sono riusciti a raggiungerla.

Eppure quasi nessuno suggerisce che opporsi a uno stato curdo o catalano fa di te un bigotto anti-curdo o anti-catalano. È ampiamente riconosciuto che gli stati basati sul nazionalismo etnico – stati creati per rappresentare e proteggere un particolare gruppo etnico – non sono l’unico modo legittimo per garantire l’ordine pubblico e la libertà individuale. A volte è meglio promuovere il nazionalismo civico, un nazionalismo costruito attorno ai confini piuttosto che al patrimonio: rendere l’identità spagnola più inclusiva dei catalani o l’identità irachena più inclusiva dei curdi, piuttosto che spartire quegli stati multietnici.

Potresti pensare che i leader ebrei lo capirebbero. Potresti pensare che lo capirebbero perché molti degli stessi leader ebrei che chiamano l’autodeterminazione nazionale un diritto universale sono abbastanza a loro agio nel negarlo ai palestinesi.

 

L’argomento numero due è una variazione su questo tema. Forse non è bigotto opporsi alla ricerca di uno stato da parte di un popolo. Ma è bigotto togliere quella statualità una volta raggiunta. “Una cosa è sostenere, nella discutibile corte dei “se” storici, che Israele non avrebbe dovuto nascere”, ha affermato l’editorialista del New York Times Bret Stephens all’inizio di questo mese . Tuttavia, “Israele è ora la casa di quasi 9 milioni di cittadini, con un’identità che è tanto distintamente e orgogliosamente israeliana quanto gli olandesi sono gli olandesi o i danesi i danesi. L’antisionismo propone niente di meno che l’eliminazione di quell’identità e l’espropriazione politica di coloro che la amano”.Ma non è bigotto cercare di trasformare uno stato basato sul nazionalismo etnico in uno basato sul nazionalismo civico, in cui nessun gruppo etnico gode di privilegi speciali.

 

Nel 19° secolo, gli afrikaner crearono diversi paesi progettati per soddisfare la loro ricerca di autodeterminazione nazionale, tra cui il Transvaal e lo Stato Libero di Orange. Poi, nel 1909, quei due stati afrikaner si fusero con due stati dominati da bianchi di lingua inglese per diventare l’Unione del Sudafrica (in seguito Repubblica del Sudafrica), che offriva una sorta di autodeterminazione nazionale ai sudafricani bianchi.

Il problema, ovviamente, era che le versioni dell’autodeterminazione sostenute dal Transvaal, dallo Stato Libero di Orange e dal Sudafrica dell’apartheid escludevano milioni di persone di colore che vivevano all’interno dei loro confini.

La situazione è cambiata nel 1994. Con la fine dell’apartheid, il Sudafrica ha sostituito un nazionalismo etnico afrikaner e un nazionalismo razziale bianco con un nazionalismo civico che comprendeva persone di tutte le etnie e razze. Inaugurò una costituzione che garantiva “il diritto dell’intero popolo sudafricano all’autodeterminazione”.

Non era bigottismo, ma il suo contrario.

Non considero Israele uno stato di apartheid . Ma il suo nazionalismo etnico esclude molte delle persone sotto il suo controllo. Stephens osserva che Israele contiene quasi 9 milioni di cittadini. Quello che non menziona è che Israele contiene anche quasi 5 milioni di non cittadini: palestinesi che vivono sotto il controllo israeliano in Cisgiordania e Gaza (sì, Israele controlla ancora Gaza ) senza diritti fondamentali nello stato che domina le loro vite.

Uno dei motivi per cui Israele non dà la cittadinanza a questi palestinesi è perché, in quanto stato ebraico progettato per proteggere e rappresentare gli ebrei, vuole mantenere una maggioranza ebraica, e dare il voto a 5 milioni di palestinesi metterebbe in pericolo questo.

Anche tra i 9 milioni di cittadini israeliani, circa 2 milioni – i cosiddetti “arabi israeliani” – sono palestinesi. Stephens dice che rovesciare il sionismo significherebbe la “spoliazione politica” degli israeliani. Ma, secondo i sondaggi, la maggior parte dei cittadini palestinesi di Israele la vede in modo opposto. Per loro, il sionismo rappresenta una forma di espropriazione politica. Poiché vivono in uno stato che privilegia gli ebrei, devono sopportare una politica di immigrazione che permetta a qualsiasi ebreo nel mondo di ottenere la cittadinanza israeliana istantanea, ma rende praticamente impossibile l’immigrazione palestinese in Israele.

Vivono in uno stato il cui inno nazionale parla dell’“anima ebraica”, la cui bandiera presenta una stella di David e che, per tradizione, esclude i partiti palestinesi di Israele dalle sue coalizioni di governo. Una commissione istituita nel 2003 dallo stesso governo israeliano ha descritto la “gestione del settore arabo” da parte di Israele come “discriminatoria”.

Finché Israele rimane uno stato ebraico, nessun cittadino palestinese può dire in modo credibile a suo figlio o a sua figlia che possono diventare primo ministro del paese in cui vivono. In questo modo, la forma di nazionalismo etnico di Israele – il sionismo – nega l’uguaglianza ai non ebrei che vivono sotto il controllo israeliano.

La mia soluzione preferita sarebbe che la Cisgiordania e Gaza diventassero uno stato palestinese, dando così ai palestinesi in quei territori la cittadinanza in un loro paese etnicamente nazionalista (anche se si spera democratico).

Cercherei anche di rendere il nazionalismo etnico israeliano più inclusivo, tra le altre cose, aggiungendo una strofa all’inno nazionale israeliano che riconosca le aspirazioni dei suoi cittadini palestinesi.

Ma, in un mondo post-Olocausto in cui l’antisemitismo rimane spaventosamente diffuso, voglio che Israele rimanga uno stato con un obbligo speciale di proteggere gli ebrei.

Cercare di sostituire il nazionalismo etnico di Israele con il nazionalismo civico, tuttavia, non è intrinsecamente bigotto. L’anno scorso, tre membri palestinesi della Knesset hanno presentato un disegno di legge per trasformare Israele da stato ebraico in uno “stato per tutti i suoi cittadini”. Come ha spiegato uno di quei membri della Knesset, Jamal Zahalka, “Non neghiamo a Israele il suo diritto di esistere come casa per gli ebrei. Stiamo semplicemente dicendo che vogliamo basare l’esistenza dello stato non su privilegi degli ebrei, ma sulle basi dell’uguaglianza… Lo stato dovrebbe esistere nel quadro dell’uguaglianza, e non nel quadro della preferenza e della superiorità”.

Si potrebbe obiettare che è ipocrita che i palestinesi cerchino di abrogare lo stato ebraico all’interno dei confini originari di Israele mentre si promuove lo stato palestinese in Cisgiordania e a Gaza. Ci si potrebbe anche chiedere se la visione di Zahalka dell’uguaglianza ebraica e palestinese in uno stato post-sionista sia ingenua, dato che potenti movimenti palestinesi come Hamas non vogliono l’uguaglianza ma il dominio islamico.

Queste sono critiche ragionevoli. Ma Zahalka e i suoi colleghi – che affrontano discriminazioni strutturali in uno stato ebraico – sono antisemiti perché vogliono sostituire il sionismo con un nazionalismo civico che promette uguaglianza a persone di tutti i gruppi etnici e religiosi?

Ovviamente no.

 

Ecco, infine, un terzo argomento sul perché l’antisionismo è uguale all’antisemitismo. È che, in pratica, le due animosità semplicemente vanno insieme. “Naturalmente è teoricamente possibile distinguere l’antisionismo dall’antisemitismo, così come è teoricamente possibile distinguere il segregazionismo dal razzismo”, scrive Stephens. Così come virtualmente tutti i segregazionisti sono anche razzisti, suggerisce, virtualmente tutti gli antisionisti sono anche antisemiti. Raramente ne trovi uno senza l’altro.

Ma questa affermazione è empiricamente falsa. Nel mondo reale, l’antisionismo e l’antisemitismo non sempre vanno d’accordo. È facile trovare antisemitismo tra persone che, lungi dall’opporsi al sionismo, lo abbracciano con entusiasmo.

Prima della creazione di Israele, alcuni dei leader mondiali che più ardentemente hanno promosso lo stato ebraico lo hanno fatto perché non volevano ebrei nei loro paesi. Prima di dichiarare, come ministro degli Esteri nel 1917, che la Gran Bretagna “guarda con favore l’istituzione in Palestina di un focolare nazionale per il popolo ebraico”, Arthur Balfour ha sostenuto l’Atto sugli stranieri del 1905, che limitava l’immigrazione ebraica nel Regno Unito.

E due anni dopo la sua famosa dichiarazione, Balfour disse che il sionismo avrebbe «attenuato le miserie secolari create per la civiltà occidentale dalla presenza in mezzo a essa di un Corpo [gli ebrei] che troppo a lungo considerava estraneo e persino ostile, ma che era ugualmente incapace di espellere o di assorbire”.

Negli anni ’30, il governo polacco adottò una strategia simile. Il suo partito di governo, che escludeva gli ebrei, addestrava combattenti sionisti nelle basi militari polacche. Perché? Perché voleva che gli ebrei polacchi emigrassero. E uno stato ebraico darebbe loro un posto dove andare. Trovi echi di questo sionismo antisemita tra alcuni cristiani americani di destra che sono molto più amichevoli con gli ebrei di Israele che con gli ebrei degli Stati Uniti. Nel 1980, Jerry Falwell, uno stretto alleato dell’allora primo ministro israeliano, Menachem Begin, ha scherzato sul fatto che gli ebrei “possono fare più soldi accidentalmente di quanto tu possa fare apposta”.

L’attuale primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, nel 2005 disse: “non abbiamo un amico più grande al mondo di Pat Robertson” – lo stesso Pat Robertson che in seguito definì l’ex giudice dell’aeronautica statunitense Mikey Weinstein un “piccolo radicale ebreo” per aver promosso la libertà di religione nell’esercito americano.

Dopo essere stato criticato dall’Anti-Defamation League (ADL) nel 2010 per aver definito George Soros un “burattinaio” che “vuole mettere l’America in ginocchio” e “raccoglierci profitti osceni”, Glenn Beck si è recato a Gerusalemme per un raduno pro-Israele.

Più di recente, Donald Trump – che nel 2015 disse alla Republican Jewish Coalition: “Non mi sosterrai perché non voglio i tuoi soldi” – ha invitato il pastore di Dallas Robert Jeffress, che ha detto che gli ebrei andranno all’inferno per non accettare Gesù, a guidare una preghiera alla cerimonia di inaugurazione dell’ambasciata americana a Gerusalemme.

Nel 2017, Richard Spencer, che dirige la folla nei saluti nazisti, si è definito un “sionista bianco” che vede Israele come un modello per la patria bianca che vuole negli Stati Uniti.

Alcuni dei leader europei che hanno a che fare più sfacciatamente nell’antisemitismo – l’ungherese Viktor Orbán, l’austriaco Heinz-Christian Strache del partito di estrema destra della Libertà e Beatrix von Storch dell’Alternativa per la Germania, che promuove la nostalgia per il Terzo Reich – sostengono pubblicamente anche il sionismo.

 

Se l’antisemitismo esiste senza l’antisionismo, l’antisionismo esiste anche chiaramente senza l’antisemitismo. Considera il Satmar, la più grande setta chassidica del mondo. Nel 2017, 20.000 uomini Satmar – una folla più numerosa di quella che ha partecipato alla conferenza politica dell’American Israel Public Affairs Committee di quell’anno – hanno riempito il Barclays Center di Brooklyn per un raduno volto a dimostrare, nelle parole di un organizzatore: “Sentiamo fortemente che non dovrebbe esserci e non potrebbe esserci uno Stato di Israele prima che venga il Messia”.

L’anno scorso, Satmar Rebbe Aaron Teitelbaum ha detto a migliaia di seguaci: “Continueremo a combattere la guerra di Dio contro il sionismo e tutti i suoi aspetti”. Dì quello che vuoi di Rebbe Teitelbaum e dei Satmar, ma non sono antisemiti.

Nemmeno Avrum Burg. Burg, l’ex presidente della Knesset, nel 2018 ha dichiarato che la crescita degli insediamenti in Cisgiordania aveva reso impossibile la soluzione dei due stati. Pertanto, ha affermato, gli israeliani devono “lasciare il paradigma sionista e passare a un paradigma più inclusivo. Israele deve appartenere a tutti i suoi residenti, compresi gli arabi, non solo agli ebrei”.

Altri progressisti ebrei israeliani, tra cui l’ex vicesindaco di Gerusalemme Meron Benvenisti, l’editorialista di Haaretz Gideon Levy e gli attivisti del Movimento della Federazione, hanno seguito un percorso simile.

Si possono mettere in dubbio le loro proposte? Ovviamente. Sono antisemiti? Ovviamente no. Certamente, alcuni antisionisti sono davvero antisemiti: David Duke, Louis Farrakhan e gli autori del Patto di Hamas del 1988 certamente si qualificano. Così fanno i teppisti del movimento dei gilet gialli in Francia che hanno definito Finkielkraut una “sporca merda sionista”.

In alcuni distretti, c’è una tendenza crescente e riprovevole a usare il fatto che molti ebrei sono sionisti (o semplicemente si presume che siano sionisti) per escluderli dagli spazi progressisti. Le persone che hanno a cuore la salute morale della sinistra americana combatteranno questo pregiudizio negli anni a venire.

Ma mentre è probabile che l’antisemitismo antisionista sia in aumento, lo è anche l’antisemitismo sionista. E, almeno negli Stati Uniti, non è chiaro se gli antisionisti abbiano più probabilità di nutrire atteggiamenti antisemiti rispetto alle persone che sostengono lo stato ebraico.

Nel 2016, l’ADL ha valutato l’antisemitismo chiedendo agli americani se erano d’accordo con affermazioni come “Gli ebrei hanno troppo potere” e “Agli ebrei non importa cosa succede a nessuno tranne che ai loro simili”. Ha rilevato che l’antisemitismo era più alto tra gli anziani e i poco istruiti, affermando: “Gli americani più istruiti sono notevolmente privi di opinioni pregiudizievoli, mentre gli americani meno istruiti hanno maggiori probabilità di avere opinioni antisemite. L’età è anche un forte elemento di propensioni antisemite. Anche i giovani americani – sotto i 39 anni – sono notevolmente privi di opinioni pregiudizievoli”.

Nel 2018, tuttavia, quando il Pew Research Center ha esaminato l’atteggiamento degli americani nei confronti di Israele, ha scoperto lo schema inverso: gli americani di età superiore ai 65 anni – la stessa coorte che ha espresso il maggior antisemitismo – ha anche espresso la maggiore simpatia per Israele. Al contrario, gli americani sotto i 30 anni, che secondo l’ADL nutrivano un minimo antisemitismo, erano meno simpatetici con Israele.

Analogamente con l’istruzione. Gli americani che possedevano un diploma di scuola superiore o meno – la coorte educativa più antisemita – erano i più filo-israeliani. Gli americani con “diplomi post-laurea” – i meno antisemiti – erano i meno filo-israeliani.

Secondo l’evidenza statistica, questo è difficilmente ermetico. Ma conferma ciò che chiunque ascolti i commenti politici progressisti e conservatori può capire: i progressisti più giovani sono altamente universalisti. Diffidano di qualsiasi forma di nazionalismo che sembri esclusivo. Questo universalismo li rende sospettosi sia del sionismo che del nazionalismo cristiano bianco che negli Stati Uniti a volte sfuma nell’antisemitismo.

Al contrario, alcuni vecchi sostenitori di Trump, che temono un globalismo omogeneo, ammirano Israele per aver preservato l’identità ebraica mentre bramano di preservare l’identità cristiana americana in modi che escludano gli ebrei.

Se l’antisemitismo e l’antisionismo sono entrambi concettualmente diversi e, in pratica, spesso sposati da persone diverse, perché politici come Macron rispondono al crescente antisemitismo definendo l’antisionismo una forma di bigottismo?

Perché, in molti paesi, è quello che i leader ebraici della comunità vogliono che facciano.

 

È un impulso comprensibile: che le persone minacciate dall’antisemitismo definiscano l’antisemitismo. Il problema è che, in molti paesi, i leader ebrei servono sia come difensori degli interessi ebraici locali sia come difensori del governo israeliano. E il governo israeliano vuole definire l’antisionismo come bigottismo perché così facendo aiuta Israele a uccidere impunemente la soluzione dei due stati.

Per anni, Barack Obama e John Kerry hanno avvertito che se Israele avesse continuato la crescita degli insediamenti in Cisgiordania che rendeva impossibile uno stato palestinese, i palestinesi avrebbero smesso di chiedere uno stato palestinese accanto a Israele e avrebbero invece chiesto uno stato tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo, né ebreo né palestinese, che sostituisce Israele.

Definire l’antisionismo come antisemitismo riduce questa minaccia. Significa che se i palestinesi e i loro sostenitori risponderanno, alla fine della soluzione dei due stati, chiedendo uno stato paritario, alcuni dei governi più potenti del mondo li dichiareranno bigotti.

Il che lascia Israele libero di rafforzare la propria versione di uno stato, che nega i diritti fondamentali di milioni di palestinesi. Mettere a tacere i palestinesi non è un modo particolarmente efficace per combattere il crescente antisemitismo, gran parte del quale proviene da persone che non amano né i palestinesi né gli ebrei. Ma, altrettanto importante, mina la base morale di quella lotta.

L’antisemitismo non è sbagliato perché è sbagliato denigrare e disumanizzare gli ebrei. L’antisemitismo è sbagliato perché è sbagliato denigrare e disumanizzare chiunque. Il che significa, in definitiva, che qualsiasi sforzo per combattere l’antisemitismo che contribuisce alla denigrazione e alla disumanizzazione dei palestinesi non è affatto una lotta contro l’antisemitismo.

 

Questo articolo è stato originariamente pubblicato su Forward

Peter Beinart è professore associato di giornalismo e scienze politiche alla City University di New York, redattore collaboratore dell’Atlantic e editorialista senior di Haaretz. I suoi libri includono La crisi del sionismo (2012)

 

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Che cos’è l’antisemitismo? Michael Neumann

Un articolo interessante e divertente di Michael Neumann, professore di filosofia alla Trent University, Ontario, Canada, uscito per la prima volta su Counterpunch il 4 giugno 2002.  

Ogni tanto, qualche intellettuale ebreo di sinistra tira un profondo respiro, spalanca il proprio grande cuore, e ci annuncia che la critica a Israele o al sionismo non è antisemitismo. In silenzio, queste persone si complimentano con se stesse per il proprio coraggio. Con un lieve sospiro, cancellano ogni ombra della preoccupazione che forse ai goyim – per non parlare degli arabi – non sia il caso di mettere in mano questa pericolosa informazione.

Qualche volta sono i gentili al loro seguito, il cui ethos, se non la cui identità, aspira all’ebraicità, a sobbarcarsi questo compito. Per non sbilanciarsi troppo, si affrettano poi a ricordarci che l’antisemitismo resta comunque qualcosa da prendere molto sul serio. Il fatto che Israele, con l’approvazione di una nutrita maggioranza di ebrei, stia combattendo una guerra – una guerra razziale, contro i Palestinesi – è proprio la ragione principale per stare in guardia. Chi lo sa? Si potrebbe sempre sollevare qualche ombra di risentimento!

Io la penso diversamente. Ritengo che non si dovrebbe quasi mai prendere sul serio l’antisemitismo, e che qualche volta dovremmo perfino riderci sopra. Credo che l’antisemitismo sia sostanzialmente irrilevante a proposito del conflitto israelo-palestinese, se non forse come distrazione dai problemi reali. Io sostengo che certe affermazioni siano vere; sostengo anche la loro sensatezza. Non credo che farle sia una cattiveria gratuita come strappare la coda alle lucertole.

Antisemitismo, tecnicamente e strettamente parlando, non significa odio per i semiti: questo è confondere le definizioni con l’etimologia. Antisemitismo significa odio per gli ebrei. Ma su questo punto, immediatamente, ci troviamo a dover fare i conti con il secolare “gioco delle tre carte” dell’identità ebraica: “Ecco: la nostra è una religione! No: un’etnia! No: un’entità culturale! Cioè, scusate… una religione!” Appena ci stanchiamo di questo gioco, veniamo subito risucchiati nell’altro: “Antisionismo è antisemitismo!”, che prontamente si alterna con quello di: “Non confondiamo sionismo con ebraismo! Come osi, antisemita?!”

Bene, cerchiamo di essere sportivi. Cerchiamo di dare dell’antisemitismo un definizione tanto estesa quanto potrebbe mai desiderarlo un qualsiasi sostenitore di Israele: antisemitismo può essere l’odio per la razza ebraica, o per la cultura, o per la religione ebraica, oppure odio per il sionismo. Odio, ma anche disapprovazione, o opposizione, o lieve antipatia. Ma i sostenitori di Israele non troveranno questo gioco divertente come si aspettano. Gonfiare il significato di antisemitismo fino a includere qualunque cosa che possa danneggiare politicamente Israele è una spada a doppio taglio. Può essere comodo per colpire i propri nemici, ma il problema è che l’inflazione delle definizioni, come qualunque altra inflazione, svaluta la moneta. Più cose si definiscono antisemite, meno orribile suonerà il concetto di antisemitismo. Questo accade perché, mentre nessuno può impedirci di gonfiare le definizioni, continuiamo a non poter modificare i fatti. Nello specifico, nessuna definizione di antisemitismo potrà cancellare la versione dei fatti, sostanzialmente dalla parte dei palestinesi, che qui sostengo, come fanno la maggior parte degli europei, molti israeliani, e un numero crescente di nordamericani.

Che differenza fa questo? Supponiamo, per esempio, che un israeliano di destra dica che le colonie rappresentano la realizzazione di aspirazioni che sono fondamentali per il popolo ebraico, e che opporsi ad esse è antisemitismo. Possiamo accettare questa posizione, che certamente è difficile da confutare. Ma non possiamo nemmeno abbandonare la convinzione, ben fondata, che gli insediamenti israeliani stiano soffocando il popolo palestinese e spegnendo ogni speranza di pace.  Dunque, fare acrobazie sulle definizioni non serve a niente: possiamo solo dire: al diavolo le aspirazioni fondamentali del popolo ebraico, le colonie sono inaccettabili. Dobbiamo anche aggiungere che, dal momento che siamo moralmente obbligati a opporci alle colonie, siamo obbligati a essere antisemiti. Grazie all’inflazione delle definizioni, certe forme di “antisemitismo” sono diventate un obbligo morale. Diventa ancora peggio quando è l’antisionismo ad essere bollato come antisemita, perché le colonie, se anche non rappresentano le aspirazioni fondamentali del popolo ebraico, sono un’estensione del tutto plausibile del sionismo. Opporsi alle colonie vuol dire quindi opporsi al sionismo, e dunque, secondo la definizione allargata, è antisemita. Più il concetto di antisemitismo viene espanso fino a includere l’opposizione alle politiche di Israele, più esso sembra una cosa positiva. E, dati i crimini di cui deve rispondere il sionismo, c’è un altro semplice passaggio logico da fare: l’antisionismo è un obbligo morale, dunque se essere antisionisti è antisemitismo, l’antisemitismo stesso diventa un obbligo morale.

 

Quali sono questi crimini? Perfino gli apologeti di Israele, in maggioranza, hanno smesso di negarli, limitandosi a insinuare che farli notare è un po’ antisemita. Dopotutto, Israele non è peggio di altri. Primo: e allora? Impariamo all’età di sei anni che “lo fanno tutti” non è una scusa valida. Ce lo siamo dimenticato? Secondo, i crimini non diventano peggiori solo perché considerati indipendentemente dal loro scopo. è vero, altri popoli hanno massacrato dei civili, li hanno lasciati morire per mancanza di cure mediche, hanno demolito le loro case, distrutto i loro raccolti, e li hanno usati come scudi umani. Ma Israele lo fa per validare l’affermazione inesatta di Israel Zangwill del 1901, secondo cui “La Palestina è una terra senza un popolo; gli Ebrei sono un popolo senza terra”. Spera di creare una terra totalmente svuotata dai gentili, un’Arabia deserta in cui i bambini ebrei possano ridere e giocare in mezzo a un deserto chiamato pace.

Molto prima dell’era di Hitler, i sionisti arrivarono da luoghi lontani migliaia di chilometri per spogliare dei loro beni persone che non avevano mai fatto loro nulla di male, e di cui riuscirono a ignorare la stessa esistenza. Le atrocità dei sionisti non facevano parte del piano iniziale. Emersero man mano che il razzismo inconsapevole di un popolo perseguitato sfociava nell’ideologia di superiorità razziale di un popolo persecutore. Questa è la ragione per cui chi guidò le violenze, le mutilazioni e le uccisioni di bambini a Deir Yassin sarebbe poi diventato primo ministro di Israele. Ma questi omicidi non furono abbastanza. Oggi, quando Israele potrebbe avere la pace senza pagare alcun prezzo, continua a condurre un’altra campagna di spoliazione, rendendo lentamente, deliberatamente, la Palestina un luogo invivibile per i palestinesi, e vivibile per gli ebrei. Il suo obiettivo non è la difesa o l’ordine pubblico, ma l’estinzione di un popolo. In verità, Israele ha abbastanza abilità di pubbliche relazioni da farlo con un grado di violenza americano piuttosto che hitleriano. Si tratta di un genocidio più delicato, più gentile, che dipinge i suoi responsabili come vittime.

Israele sta costruendo uno stato razziale, non religioso. Io, come pure i miei genitori, sono sempre stato ateo. Eppure ho diritto, per la mia nascita biologica, alla cittadinanza israeliana; magari voi siete i più fervidi credenti nel Giudaismo, ma questo diritto non lo avete. I palestinesi vengono vessati e uccisi per me, non per voi. Sono spinti verso la Giordania, a morire in una guerra civile. E dunque no, sparare ai civili palestinesi non è la stessa cosa che sparare ai civili vietnamiti o ceceni. I palestinesi non sono un “danno collaterale” in una guerra contro comunisti ben armati o forze separatiste: gli si spara perché Israele pensa che tutti i palestinesi debbano dileguarsi o morire, così che le persone con un nonno ebreo possano tracciarsi le suddivisioni di proprietà sulle macerie delle loro case. Questo non è il tragico errore di una superpotenza arrogante e pasticciona, ma un male emergente, la strategia deliberata di uno stato concepito e impegnato in nome di un nazionalismo etnico sempre più aggressivo. Ha al suo attivo relativamente pochi cadaveri, ma le sue armi nucleari potrebbero uccidere probabilmente venticinque milioni di persone in poche ore.

Intendiamo dire che è antisemitismo accusare non solo gli israeliani, ma gli ebrei in generale, di complicità in questi crimini contro l’umanità? Di nuovo, forse no, perché ci sono argomenti più che ragionevoli a sostegno di queste affermazioni. Paragoniamole, ad esempio, con l’affermare che i tedeschi in generale furono complici di certi crimini. Questo non ha mai voluto dire che tutti i tedeschi, fino all’ultimo uomo, donna, bambino e ritardato mentale, fossero colpevoli. Vuol dire che la maggior parte dei tedeschi lo fu. La loro colpa non fu, ovviamente, quella di aver spinto prigionieri nudi dentro le camere a gas. Fu quella di aver sostenuto gli individui che pianificarono quegli atti, oppure – come molta letteratura ebraica moralistica, sopra le righe, ci spiega – quella di aver negato l’orrore che si dispiegava attorno a loro, quella di aver rinunciato a parlare e a resistere, quella del consenso passivo. è da notare che, in questo caso, il fatto che ogni forma di resistenza attiva potesse essere estremamente pericolosa non è valido come scusante.

Bene, non c’è praticamente nessun ebreo che oggi possa correre dei rischi per il fatto di parlare chiaro. E il parlare chiaro è l’unica forma di resistenza che si richiede. Se molti ebrei parlassero chiaro, la cosa avrebbe un effetto enorme. Ma la stragrande maggioranza degli ebrei non lo fa; e, nella maggior parte dei casi, non lo fa perché sostiene Israele. A questo punto, la stessa nozione di responsabilità collettiva dovrebbe forse essere abbandonata; forse, qualche persona intelligente cercherà di convincerci che dobbiamo farlo. Ma al momento presente, l’evidenza per la complicità ebraica sembra molto più forte di quella per la responsabilità tedesca. Dunque, se non è razzista, ed è ragionevole, affermare che i tedeschi sono stati complici di crimini contro l’umanità, non è razzista, ed è ragionevole, dire lo stesso degli ebrei. E se anche il concetto di responsabilità collettiva fosse da abbandonare, il dire che la maggior parte delle persone ebree adulte sostiene uno Stato che commette crimini di guerra sarebbe sempre ragionevole, perché è semplicemente la verità. Quindi, se dire queste cose è antisemitismo, può apparire ragionevole essere antisemiti.

In altri termini, c’è da fare una scelta. O si usa la parola antisemitismo adattandola alle proprie intenzioni politiche, o la si usa come termine di condanna morale, ma non si possono fare entrambe le cose. Se si vuole evitare che l’antisemitismo finisca con il diventare qualcosa di ragionevole o di eticamente accettabile, esso deve essere univocamente definito, senza polemica. Saremmo al sicuro, se confinassimo l’idea di antisemitismo all’odio esplicitamente etnico per gli ebrei, a chi attacca qualcuno solo perché è nato ebreo. Ma saremmo inutilmente al sicuro: neppure i nazisti affermavano di odiare la gente solo perché era nata ebrea. Sostenevano di odiare gli ebrei perché essi aspiravano a dominare gli ariani. Chiaramente, una visione simile deve essere considerata comunque antisemita, sia che appartenga ai cinici razzisti che l’hanno concepita, sia agli stupidi che l’hanno mandata giù.

C’è un solo modo per essere sicuri che il termine antisemitismo includa tutti (e soltanto) le azioni o gli atteggiamenti negativi verso gli ebrei. Dobbiamo cominciare da quelli su cui siamo tutti d’accordo che lo siano, e assicurarci che il termine indichi tutti e solo quelli. Probabilmente, tutti noi condividiamo un senso morale comune abbastanza per poterlo fare.

Per esempio, condividiamo abbastanza senso morale per dire che tutti gli atti e le avversioni basate sulla discriminazione etnica sono inaccettabili, e di conseguenza possiamo classificarli senza dubbio come antisemiti. Ma non vuol dire che qualunque forma di ostilità verso gli ebrei, nemmeno nel caso che significhi ostilità verso una maggioranza schiacciante di ebrei, debba essere considerata antisemita. Né dovrebbe esserlo qualunque forma di ostilità verso la religione o la cultura ebraica.

Io, per esempio, sono cresciuto nella cultura ebraica, e come capita a molte persone che sono cresciute in una determinata cultura, essa ha finito con il non piacermi. Ma è insensato classificare il fatto che non mi piaccia come antisemita; e non perché io sono ebreo, ma perché la mia antipatia è innocua. Forse non è innocua in assoluto: potrebbe darsi che, in qualche debolissimo modo indiretto, essa un giorno incoraggi qualcuno degli atti o degli atteggiamenti pericolosi che abbiamo deciso di chiamare antisemiti. Ma allora? Il filosemitismo esagerato, quello che considera tutti gli ebrei come dei santi, brillanti, sensibili e intelligenti, potrebbe avere lo stesso effetto. I pericoli prospettati dalla mia disapprovazione per la cultura ebraica sono molto minori. Anche nei casi in cui è molto diffusa, l’antipatia collettiva per una cultura è normalmente innocua. La cultura francese, per esempio, sembra risultare largamente antipatica tra i nordamericani, ma nessuno, nemmeno i francesi, considera questo una sorta di crimine razzista.

Non è neppure vero che tutte le azioni o gli atteggiamenti che possano recare un danno agli ebrei siano da considerare antisemiti. Molte persone disapprovano la cultura americana; alcuni boicottano i prodotti americani. Sia l’atteggiamento, sia l’azione potrebbero in generale recare un danno agli americani, ma non c’è niente di moralmente condannabile nell’una o nell’altra cosa. Definirli come atti di antiamericanismo significherebbe solo affermare che alcune forme di antiamericanismo sono perfettamente accettabili. Se l’opposizione alla politica di Israele viene chiamata antisemita, in quanto potrebbe portare qualche danno agli ebrei in generale, questo significherà solo dire che alcune forme di antisemitismo sono ugualmente accettabili.

Se si vuole che antisemitismo rimanga un termine negativo, lo si può applicare anche al di là delle azioni, delle idee e dei sentimenti esplicitamente razzisti. Ma non lo si può applicare oltre gli esempi di ostilità grave e chiaramente ingiustificata contro gli ebrei. I nazisti si costruirono fantasie storiche per giustificare i propri attacchi; lo stesso fanno i moderni antisemiti che credono nei Protocolli dei Savi di Sion. Lo stesso fanno i razzisti striscianti, che si lamentano del dominio ebraico sull’economia. Questo è antisemitismo nel senso stretto e negativo della parola. Si tratta di azioni o di propaganda pianificate per fare del male agli ebrei, non per qualcosa che hanno fatto, ma per quello che sono. Lo stesso discorso può applicarsi agli atteggiamenti che questa propaganda punta a inculcare: benché non sia sempre esplicitamente razzista, essa si porta dietro motivazioni razziste, e l’intenzione di fare un danno reale. Un’opposizione ragionevolmente fondata alle politiche di Israele, invece, non si adatta a questa descrizione, nemmeno quando offende tutti gli ebrei. Né vi si adatta la semplice e innocua antipatia per qualcosa di ebraico.

 

In conclusione, quello che ho suggerito è che sarebbe meglio restringere la definizione di antisemitismo, in modo tale che nessun atto possa essere allo stesso tempo antisemita e accettabile. Ma possiamo andare oltre. Ora che abbiamo giocato abbastanza, poniamoci qualche domanda sul ruolo che ha il vero, deprecabile antisemitismo, nel conflitto israelo-palestinese e nel mondo in generale.

Indubbiamente esiste del genuino antisemitismo nel mondo arabo: la diffusione dei Protocolli dei Savi di Sion, le leggende sugli ebrei che nei loro rituali verserebbero il sangue dei bambini gentili. Questo è oggettivamente ingiustificabile. Ma lo è anche il fatto che si siamo dimenticati di nuovo di rispondere alla lettera della nonna. In altri termini, c’è un punto importante: dobbiamo semplicemente accettare il principio che l’antisemitismo è un male. Non farlo ci porrebbe al di fuori del consesso civile. Ma è una cosa molto diversa dall’avere qualcuno che ci ossessiona pretendendo che l’antisemitismo sia il Male di tutti i Mali. Non siamo bambini che stanno imparando la moralità: è responsabilità nostra stabilire le nostre priorità morali. Non possiamo farlo fondandoci su orribili immagini che risalgono al 1945, o sui lamenti angosciati di giornalisti sofferenti. Dobbiamo chiederci quanto male fa o può fare l’antisemitismo, non nel passato, ma oggi. E dobbiamo chiederci dove questo male può manifestarsi, e perché.

Si ritiene che vi siano gravi pericoli nell’antisemitismo del mondo arabo. Ma l’antisemitismo arabo non è la causa dell’ostilità araba verso Israele, o magari verso gli ebrei. Ne è un effetto. Il progredire dell’antisemitismo arabo va di pari passo con il progredire dell’avanzata territoriale ebraica, e delle atrocità commesse da ebrei. Questo, non per giustificare il genuino antisemitismo, semmai, per banalizzarlo: esso è arrivato nel Medio Oriente con il sionismo, e scomparirà quando il sionismo cesserà di essere una minaccia espansionistica. Di fatto, la sua causa principale non è la propaganda antisemita, ma gli sforzi sistematici, decennali e senza posa che fa Israele per coinvolgere tutti gli ebrei nei propri crimini. Se l’antisemitismo arabo persistesse dopo il raggiungimento di un accordo di pace, potremmo discuterne, e deprecarlo. Ma comunque, non farebbe molto danno reale agli ebrei. I governi arabi avrebbero solo da perdere, permettendo attacchi contro i propri cittadini ebrei: significherebbe un invito per Israele a intervenire. E ci sono ben poche ragioni di aspettarsi che tali attacchi si verifichino: se tutti gli orrori delle recenti campagne israeliane non sono bastati a provocarli, è difficile immaginarsi cosa potrebbe riuscirci. Ci vorrebbe probabilmente qualche azione israeliana così orrenda e criminale da far scomparire gli attacchi stessi.

Se è verosimile che l’antisemitismo possa avere effetti terribili, è di gran lunga più probabile che li abbia nell’Europa occidentale. Là, i risvegli neofascisti sono del tutto reali. Ma sono un pericolo per gli ebrei? Non ci sono dubbi che Le Pen, per fare un esempio, sia antisemita. Ma non esiste alcun indizio che abbia intenzione di fare qualcosa a questo proposito. Al contrario, sta facendo ogni sforzo possibile per pacificarsi gli ebrei, e forse addirittura per assicurarsi il loro aiuto contro il suo vero obiettivo, gli “arabi”. Non sarebbe certo il primo politico ad allearsi con qualcuno che non gli piace. Ma se avesse davvero dei piani accuratamente dissimulati contro gli ebrei, allora sì che sarebbe insolito: Hitler e i russi antisemiti che avrebbero scatenato i pogrom erano straordinariamente trasparenti sulle loro intenzioni, e non tentarono mai di accattivarsi il sostegno degli ebrei. E che alcuni ebrei francesi vedano Le Pen come uno sviluppo positivo, o addirittura un alleato, è un fatto (si veda, per esempio, Le Pen è un bene per noi, dicono sostenitori ebrei, Ha’aretz, 4 maggio 2002, e il commento di Goldenburg su France TV del 23 aprile). Certo, esistono ragioni storiche per temere un orrendo assalto contro gli ebrei. E tutto è possibile: potrebbe esserci un massacro di ebrei a Parigi domani stesso, oppure di algerini. Quale dei due è pù probabile? Se si imparano lezioni dalla storia, le si dovrebbe applicare a circostanze che si somiglino. L’Europa di oggi assomiglia ben poco all’Europa del 1933. E ci sono anche possibilità positive: per quale motivo la probabilità di un pogrom dovrebbe essere maggiore di quella di vedere l’antisemitismo svanire in una malevolenza inconcludente? Qualunque legittima preoccupazione dovrebbe basarsi sul fatto che c’è effettivamente una minaccia.

L’occorrenza di aggressioni antisemite potrebbe dimostrare questa minaccia. Ma queste prove sono notevolmente confuse: non viene fatta nessuna distinzione tra gli attacchi contro monumenti o simboli ebraici e le effettive aggressioni contro ebrei. Inoltre, si mette l’accento sull’aumentata frequenza degli attacchi, tanto da lasciar sfuggire all’attenzione il fatto che il loro livello sia veramente molto basso. Gli attacchi simbolici, in effetti, sono aumentati in assoluto, in modo significativo. Quelli alle persone no [1]. Ancora più importante, la maggior parte di questi attacchi viene da residenti musulmani: in altre parole, da una minoranza largamente odiata, perseguitata, e soggetta a severo controllo poliziesco, che non ha la minima possibilità di intraprendere una seria campagna di violenza contro gli ebrei.

è certo molto spiacevole che una mezza dozzina di ebrei siano finiti in ospedale – nessuno ucciso – a causa di recenti aggressioni in vari luoghi d’Europa. Ma chiunque consideri questo come uno dei problemi più importanti del mondo, semplicemente non ha dato un’occhiata al mondo. Questi attacchi sono di competenza della polizia, non sono una ragione per cui noi tutti dobbiamo farci poliziotti di noi stessi e degli altri, per arginare qualche mortale malattia morale. Questo tipo di reazione è appropriato solo quando gli assalti razzisti avvengono in società ostili o indifferenti alla minoranza aggredita. Coloro che hanno realmente paura di un ritorno del nazismo, per esempio, dovrebbero riservare la loro angosciata preoccupazione alle aggressioni, di gran lunga più sanguinose, e di gran lunga più facilmente perdonate, contro gli zingari, la cui storia di persecuzioni è pienamente paragonabile al passato degli ebrei. La posizione degli ebrei è molto più vicina a quella dei bianchi americani, che sono anch’essi, ovviamente, vittime di aggressioni a sfondo etnico.

Non c’è dubbio che molte persone rifiutino questa sorta di ragionamento numerico a sangue freddo. Replicheranno che, con l’ombra del passato che incombe su di noi, anche una sola ingiuria antisemita è una cosa terribile, e che la bruttura non si può misurare dal numero di cadaveri. Ma se assumiamo un punto di vista più ampio sulla faccenda, l’antisemitismo diventa meno importante, non di più. Considerare qualunque spargimento di sangue ebraico come una calamità planetaria, che va al di là di ogni misura e paragone, è razzismo puro e semplice: significa dare al sangue di una razza un valore maggiore che a quello di tutte le altre. Il fatto che gli ebrei siano stati perseguitati per secoli, e che abbiano sofferto terribilmente mezzo secolo fa, non cancella il fatto che, nell’Europa di oggi, gli ebrei sono cittadini ben integrati, che hanno di gran lunga meno ragioni di soffrire e di temere di quante ne abbiano altri gruppi etnici. Certo, le aggressioni razziste contro una minoranza benestante sono tanto spregevoli quanto gli attacchi razzisti contro una minoranza povera e senza potere. Ma aggressori ugualmente spregevoli non vuol dire attacchi altrettanto preoccupanti.

Non sono gli ebrei, oggi, che vivono con l’incubo del campo di concentramento.  I “campi di transito” proposti da Le Pen sono per gli arabi, non per gli ebrei. E per quanto vi siano partiti politicamente rappresentativi che contengono molti antisemiti, non uno solo di questi partiti mostra alcun segno di articolare, e tanto meno di perseguire, un programma antisemita. Né esiste alcuna ragione di sospettare che, una volta al potere, cambieranno tono. L’Austria di Haider non è considerata pericolosa per gli ebrei; né lo era la Croazia di Tudjman. E sa anche ci fosse un tale pericolo, be’, abbiamo uno stato ebraico con tanto di armi nucleari pronto ad accogliere qualunque rifugiato, come pure farebbero gli Stati Uniti o il Canada. E dire che non ci sono pericoli reali adesso, non significa dire che bisogna ignorare ogni pericolo che potrebbe sorgere in futuro. Se in Francia, per esempio, il Front National cominciasse a invocare campi di transito per gli ebrei, dovremmo preoccuparci. Ma non è il caso di preoccuparci per ogni cosa allarmante che potrebbe appena ipoteticamente accadere: ci sono cose molto più allarmanti che accadono già!

Si potrebbe sempre replicare che, se le cose non sono diventate più allarmanti, è solo perché gli ebrei – e altri – sono sempre stati tanto vigili nel combattere l’antisemitismo. Ma questo non è plausibile. Per prima cosa, la vigilanza contro l’antisemitismo è una specie di visione a senso unico: come i neofascisti stanno ben imparando, possono sempre evitare di farsi notare rimanendosene zitti a proposito degli ebrei. Inoltre, non ci sono stati pericoli gravi per gli ebrei nemmeno in paesi tradizionalmente antisemiti sui quali il mondo non tiene gli occhi aperti, come l’Ucraina o la Croazia. Paesi ai quali si dedica pochissima attenzione non sembrano più pericolosi di quelli che ne hanno molta. Per quanto riguarda le vigorose reazioni contro Le Pen in Francia, esse sembrano avere molto più a che fare con la repulsione francese verso il neofascismo che con le rampogne della Anti-Defamation League. Supporre che le organizzazioni ebraiche e i coscienziosi giornalisti che insistono sul pericolo antisemita stiano salvando il mondo dalla catastrofe è come affermare che siano stati Bertrand Russell e i pacifisti quaccheri a salvarci da una guerra nucleare.

A questo punto, si potrebbe dire: quali che siano i reali pericoli, questi avvenimenti sono comunque atroci per gli ebrei, e si portano dietro insopportabili ricordi dolorosi. Questo può essere vero per quei pochi che ancora hanno questi ricordi, non per gli ebrei in generale. Io sono un ebreo tedesco, e avrei un’ottima opportunità di rivendicare il mio status di vittima di seconda o terza generazione. Invece, gli incidenti antisemiti e un clima di crescente antisemitismo non mi preoccupano così tanto. Ho molta più paura quando mi trovo in situazioni realmente pericolose, per esempio quando guido. E comunque, anche i ricordi dolorosi e gli stati d’ansia non rappresentano molto, paragonati alle reali sofferenze fisiche inflitte dalle discriminazioni a tanti non ebrei.

Tutto questo non vuole sminuire tutto l’antisemitismo, ovunque. Si sente spesso parlare di malevoli antisemiti in Polonia o in Russia, sia per le strade, sia al governo. Ma, per quanto ciò possa essere preoccupante, è anche immune da ogni influenza da parte dei conflitti israelo-palestinesi, ed è molto improbabile che quei conflitti possano influenzarlo in un modo o nell’altro. Per di più, per quanto ne so, in nessun luogo c’è tanta violenza contro gli ebrei quanta ce n’è contro gli “arabi”. Quindi, se anche l’antisemitismo è, da qualche parte, una questione catastroficamente seria, possiamo solo concluderne che il sentimento antiarabo è qualcosa di ancora, molto più serio. E siccome qualunque gruppo antisemita è anche, e in misura molto maggiore, contro l’immigrazione e contro gli arabi, questi gruppi si potrebbero combattere non in nome dell’antisemitismo, ma in difesa degli arabi e degli immigrati.

In breve, il vero scandalo oggi non è l’antisemitismo, ma l’importanza che gli si dà. Israele ha commesso dei crimini di guerra. Ha coinvolto gli ebrei in generale in questi crimini, e in generale gli ebrei si sono affrettati a lasciarvisi coinvolgere. Questo ha provocato astio contro gli ebrei. Perché non avrebbe dovuto? In qualche caso questo astio è razzista, in qualche altro caso no, ma cosa importa? Perché dovremmo dedicarvi tanta attenzione? Il fatto che la guerra etnica di Israele abbia provocato un’aspra rabbia è importante in confronto alla guerra stessa? La remota possibilità che da qualche parte, in qualche momento, in qualche modo, questo odio potrebbe forse, in teoria, uccidere degli ebrei è importante rispetto alla brutale, reale persecuzione fisica dei palestinesi, e rispetto alle centinaia di migliaia di voti a favore di chi vorrebbe internare gli arabi nei campi di transito? Oh, ma… dimenticavo. Come non detto, mi rimangio tutto: qualcuno con la bomboletta spray ha scritto degli slogan antisemiti sul muro di una sinagoga.

[1] Nemmeno la ADL o il B’nai B’rith includono gli attacchi palestinesi contro Israele nel conto; parlano piuttosto di “Punti di vista insidiosi con cui viene visto il conflitto tra israeliani e palestinesi, usati dagli antisemiti” (http://www.adl.org/presrele/ASInt_13/4084_13.asp) E come molte altre persone, io non considero gli attacchi terroristici di organizzazioni come Al Qaeda come esempi di antisemitismo, ma piuttosto come una fallimentare campagna paramilitare contro gli USA e Israele. Perfino se li si include nel conto, non appare particolarmente pericoloso essere ebreo al di fuori di Israele.

da qui

 

 

 

Giudeofobia al sevizio di Israele – Shraga Elam

 

Shraga Elam è un giornalista israeliano,
residente a Zurigo/Svizzera.
Questo è il testo della relazione tenuta da lui
al 
Campo Antimperialista di Assisi, il 2 agosto 2004. Si ringrazia Susanne Scheidt per la traduzione.

 

Si può osservare un aumento dei sentimenti antiebraici su scala mondiale. Non è più possibile ignorare la crescente giudeofobia, magari liquidando il fenomeno come prodotto della propaganda e della manipolazione. Già che ci siamo, io preferisco usare il termine di giudeofobia anziché: quello più comunemente usato, di antisemitismo, che è esso stesso un termine razzista.

La giudeofobia deve essere confrontata e ripudiata come qualsiasi altra forma di razzismo ed a tale fine, occorre comprendere i suoi attuali motivi e cause. Non basta limitarsi a trattare, in via selettiva, i sintomi alla superficie, come invece vorrebbero molte organizzazioni sioniste e lo stesso Israele.

Per non sfruttare la vostra pazienza oltre misura, dirò subito che sono profondamente convinto che la ragione principale per la crescita della giudeofobia sia fondamentalmente da ricercare nella politica criminale che Israele sta conducendo ai danni dei palestinesi, così, come nel riprovevole comportamento dei gruppi di pressione pro-Israele. Questi due problemi, già seri di per se, si combinano con i pregiudizi anti-ebraici pre-esistenti, di per sé piuttosto innocui, almeno per la maggior parte. È l’incontro delle offese perpetrate da ebrei con i pregiudizi pre-esistenti, secondo i quali gli ebrei sarebbero qualcosa di particolare, che potrebbe generare un cocktail ad alto potenziale esplosivo.

Ammesso che nel passato fosse sbagliato ed espressione di razzismo volere cercare i motivi per le aggressioni contro gli ebrei negli ebrei stessi, oggi invece, è giusto e necessario fare proprio questo.

Tra le strategie più efficienti per combattere l’attuale giudeofobia, c’è quella di fermare i crimini di Israele.

Davvero, tutto qua. E cosi semplice.

Vorrei elaborare questa mia affermazione cercando di spiegare cosa mi ha portato a tale conclusione.

È stato, in effetti, un rinomato esperto israeliano di giudeofobia, la professoressa Dinah Porat, ad affermare in una trasmissione della radio pubblica che vi è una correlazione tra le azioni di Israele (le possiamo chiamare atrocità) e gli scatti di giudeofobia. Questo era il caso, ad esempio, nei primi anni 80, in seguito all’invasione del Libano e poi, alla fine degli anni 80, durante la prima rivolta palestinese, l’Intifada.

Possiamo costatare che tutti gli ebrei, a prescindere dalle loro posizioni individuali, furono ritenuti responsabili delle atrocità commesse da Israele. Questo non era soltanto il risultato di pregiudizi anti-israeliani, ma anche della pretesa, sbagliata, di Israele, di rappresentare tutti gli ebrei e di essere lo stato DEGLI ebrei. Il diffuso ed ostentato appoggio che molti ebrei in tutto il mondo stanno offrendo ad Israele, non può che rafforzare l’impressione che tutti gli ebrei stessero a fianco di Israele.

 

Un altro esempio per un’iniziativa ebraica che ha generato giudeofobia è, secondo le mie personali osservazioni, la campagna per la restituzione iniziata a metà degli anni 90 dal World Jewish Congress (WJC) e dalla Jewish Agency (JA) contro le banche svizzere riguardante i cosiddetti patrimoni senza eredi giacenti, dai tempi dell’era nazista, in Svizzera.

Queste due organizzazioni ebraiche, le due protagoniste dell’Industria dell’Olocausto, hanno abusato di una causa giusta senza troppe considerazioni per la verità o per gli interessi delle vittime dei nazisti e dei loro eredi. Il comportamento di queste due organizzazioni ebraiche, palesemente ispirato all’avidità, è stato percepito come una conferma vivente dei pregiudizi giudeofobi esistenti, innescando una nuova ondata di sentimenti antiebraici in Svizzera. Alcuni degli esponenti delle comunità ebraiche in Svizzera non erano molto contenti di questi sviluppi, ma delle loro preoccupazioni JA e WJC non si degnavano nemmeno di prendere nota, visto che stavano riuscendo a strumentalizzare perfino quest’ondata di nuova giudeofobia per rinforzare il proprio potere contrattuale nei confronti degli svizzeri.

Possiamo osservare che la situazione “win-win” (vinci in ogni modo), che si ottiene agitando il “manganello dell’Olocausto” (nel 1991 lo storico tedesco-israeliano Michael Wolffsohn, un professore di storia, aveva coniato il termine “manganello dell’Olocausto”), viene ricreata ogni qualvolta si trattasse di zittire le voci critiche di Israele che vi ricadono se non stanno attente a non mischiare la condanna – legittima e necessaria – della politica di Israele con pregiudizi antiebraici. Tuttavia, anche in assenza di qualsiasi manifestazione di giudeofobia, la critica nei confronti di Israele, anche quando dichiara la verità e si presenta correttamente, rischia di essere tacciata (di antisemitismo) semplicemente perché: risulta insopportabile per Israele ed i suoi sostenitori.

Questo meccanismo può essere esemplificato dalla faccenda di Jamal Karsli, un’esponente politico tedesco, di origine siriana, a suo tempo un parlamentare del partito dei Verdi, con sede nel parlamento della più popolosa Regione tedesca, la Renania-Westfalia. Nel marzo 2002, Jamal Karsli aveva protestato contro i crimini di guerra commessi da Israele. Aveva osato dire qualcosa che solitamente, viene accettato soltanto se detto da parte di consolidati sionisti e dai loro sostenitori, in altre parole, aveva paragonato le atrocità naziste con un evento che stava succedendo in quel momento (in Palestina). Dopo avere visto, sulla TV, che soldati israeliani stavano marcando le braccia di prigionieri palestinesi con dei numeri, Karsli aveva dato una conferenza stampa con il titolo “Israele sta adoperando metodi nazisti.”

Il politico tedesco-siriano in questione, in effetti, non era stato l’unica persona a fare queste associazioni. L’ex membro del Knesset ed attuale ministro israeliano, Joseph “Tommy” Lapid, un sopravvissuto al giudeocidio in Ungheria, aveva anch egli protestato contro l’insopportabile somiglianza tra l azione dei nazisti che marcavano gli ebrei con numeri progressivi ad Auschwitz e le azioni compiute dai soldati israeliani.

La cantante nazionale israeliana, la cosiddetta “cantante di guerra”, Yaffa Yarkoni, in un intervista alla radio militare d’Israele domandò: “ma non facevano (il riferimento era ai tedeschi) cose simili a noi?” Yarkoni ricevette molte minacce da radicali di destra in seguito alla sua domanda, che era stata accompagnata da un appello ai soldati di rifiutare il servizio militare. All’inizio, Karsli fu più fortunato della Yarkoni. Ricevette soltanto critiche smorzate, rivolte a lui privatamente dai suoi colleghi Verdi.

Qualche settimana dopo, verso la fine dell’aprile 2002, Karsli decise di lasciare il partito dei Verdi in segno di protesta contro la sua politica pro-israeliana (il capo del partito, il ministro agli esteri tedesco, Joschka Fischer, aveva sabotato la proposta di sanzioni dell’Unione Europea contro Israele). All’indomani, Karsli entrò a fare parte del partito FDP (Partito liberaldemocratico), il cui vice-presidente, l’ex-ministro Juergen Moellemann, noto per la sua critica alla politica di Israele, aveva sostenuto una posizione più vicina a quella di Karsli in relazione al conflitto in Medio Oriente.

In un intervista condotta ai primi di maggio, Karsli ruppe un altro tabù ancora, criticando la forte influenza esercitata dalla lobby sionista. Si scatenò contro di lui un attacco feroce e le sue affermazioni venivano bollate come anti-ebraiche. Jürgen Möllemann cercò di aiutare Karsli dichiarando che gli stessi ufficiali israeliani ed ebrei, tramite la loro politica, si sarebbero resi responsabili per la recente vampata di giudeofobia (egli usò il termine di “antisemitismo”).

Questo naturalmente, equivalse a versare carburante su una fiamma già accesa. I feroci attacchi contro Karsli, nell’ambito di una campagna elettorale tedesca già in corso, erano in effetti, mirati contro il politico di importanza maggiore, Jürgen Möllemann. Karsli di per se non era abbastanza interessante da potere avere innescato uno scandalo di tali proporzioni che avrebbe occupato i media tedeschi per mesi.

L’affare Karsli fu la rovina di Möllemann. Fu accusato di avere pescato voti nelle acque torbide brune, cioè, di avere corteggiato gli elettori fascisti. Egli chiese scusa per le sue affermazioni e si tenne lontano dai contatti con Karsli, ma non gli servè a molto. Al contrario, Moellemann perse l’appoggio da parte di molti tedeschi che avevano sperato che egli fosse in grado di provvedere ad una maggiore onestà all’interno del sistema politico, ma che adesso erano delusi dalla sua inconsistenza e dal suo opportunismo. Lungi dall’essere incalliti radicali di destra, questa gente aveva le scatole piene della dilagante giudeofilia ipocrita, dai privilegi inaccettabili ed ingiustificati accordati agli ebrei in Germania ed infine, ma non in ultima istanza, della mancanza di una critica onesta, seria, dei crimini di guerra israeliani.

In una mossa disperata, Möllemann fece distribuire un volantino che criticava Sharon e Michel Friedman, un importante rappresentante delle comunità ebraiche in Germania, mentre asseriva contemporaneamente il diritto di Israele di esistere. Il volantino, piuttosto moderato, che avrebbe potuto essere scritto da sionisti del movimento “Pace Adesso” o da Uri Avnery, fu in un primo momento denunciato quale antisemita dai media tedeschi, poi fu definito “antiisraeliano”. Nessuno dei giornalisti o delle altre persone che si erano espresse in pubblico con commenti negativi sul volantino di Möllemann, sembravano averlo letto o dare importanza al suo vero contenuto. S’era creata un atmosfera di divieto verso la possibilità di una qualsiasi altra opinione.

La carriera e la vita di Möllemann giunsero alla fine quando fu divulgata l’affermazione che egli avrebbe finanziato il volantino attingendo a soldi di dubbia provenienza. Egli paracadutò verso la morte e mentre la versione ufficiale parla di suicidio, vi sono chi continuano a credere che Moellemann fosse assassinato che, in un certo senso, è vero.

In seguito all’affare Karsli e Möllemann, la frustrazione in Germania continuava a crescere e molti hanno la sensazione che, ancora una volta, come nell’era dei nazisti, non vi sia concesso di parlare in pubblico di fatti ovvi e palesi. Le tensioni tra opinione pubblica ed opinione privata stanno crescendo. Questo clima di censura, per molti

Per aiutarci a combattere questi pericolosissimi tabù, sviluppando approcci coraggiosi basati sull’emancipazione, sarà utile per noi analizzare le due affermazioni contestate di Karsli:

  1. L’esercito di Israele impiega metodi nazisti e
  2. La lobby sionista possiede un’influenza enorme.

 

Metodi nazisti

Vi è un forte divieto di paragonare i crimini nazisti a qualcosa che fosse differente da un’altra, reale od immaginata, aggressione contro ebrei. Un qualsiasi altro paragone viene considerato una scandalosa sdrammatizzazione del giudeocidio nazista e quindi, espressione di razzismo.

Questa attuale tabuizzazione è la versione moderna del vecchio concetto giudeocentrico di essere “prescelti”: la sofferenza ebraica è speciale e non potrà mai essere paragonata con altre situazioni di sofferenza.

L’interdizione è razzista ed ostacola la conduzione di una normale analisi storica, considerando che uno dei metodi più diffusi e più importanti della ricerca consiste nel paragonare. Il confronto non dovrebbe automaticamente essere precluso come razzista. Potrebbe risultare sbagliato o corretto, ma non dovrebbe essere precluso.

Occorre prendere atto che i crimini nazisti non erano per niente unici nel loro genere, non erano crimini specifici commessi dai tedeschi quali gli eterni carnefici, o subiti dagli ebrei quali le eterne vittime. Non vi è nulla nel patrimonio genetico di “tedeschi” o di “ebrei” che li rendesse carnefici o vittime.

Ad esempio, oltre 60 anni fa, il militarismo svolgeva un ruolo centrale nella vita dei tedeschi, mentre oggi, nella società tedesca si riscontra una diffusa avversione ai conflitti militari. Viceversa, più di 100 anni fa, era abbastanza raro incontrare un militarista ebreo, ma oggi, Israele è la moderna Sparta, con una società fra le più militariste del mondo.

Nell’Israele di oggi, più che in molti altri paesi inclusa la Germania, si possono incontrare molte persone influenti che s’inquadrerebbero perfettamente nel sistema nazista, sia in termini di ideologia sia di pratica. Ciò che distingue gli israeliani nazisti, di cui alcuni sono essi stessi vittime dei nazisti tedeschi, è il desiderio che il mondo li riconosca quali i veri anti-nazisti e che riconosca loro il diritto, a causa delle sofferenza subite, di infliggere simili o dissimili sofferenze ad altri come se i torti subiti dai loro antenati li avessero resi irreprensibili.

Si è molto diffuso l’errore di identificare i crimini dei nazisti soltanto con lo sterminio industriale degli ebrei come fu praticato ad Auschwitz, sorvolando sul fatto che le azioni criminose dei nazisti furono impostate su molteplici binari e che il progetto di costruire Auschwitz fu messo a punto solo nel 1941, mentre i nazisti erano arrivati al potere nel 1933, che erano stati dei criminali sin dall’inizio e che le loro azioni non erano dirette soltanto contro gli ebrei.

Non dovremmo trascurare, sminuendola, la dinamica “ad escalazione” che aveva caratterizzato l evolversi della brutalità del regime nazista. Fino al 1938, ad esempio, i nazisti puntavano ad un esodo, per cosè dire, volontario (la deportazione in massa) degli ebrei dalla Germania ed impiegavano molto meno violenza rispetto a ciò che Israele nei giorni d’oggi sta mettendo in atto, mentre gli obiettivi da conseguire ai danni dei palestinesi sono del tutto simili. L’esercito israeliano e bande della destra radicale accelerano di continuo le loro azioni violenti, all’insegna del progetto di un’espulsione forzata simile a quello dei nazisti dopo il 1938.

Storicamente, nonostante tutte le differenze che esistono tra le due situazioni – quella della Germania nazista e quella dell’attuale Israele – vi appaiono troppe preoccupanti ed ovvie analogie strutturali. Il fatto che nell odierna Israele siano sopravvissuti alcuni tratti democratici, mentre negli anni trenta la Germania era una dittatura, non può essere di gran conforto per le vittime, per le quali il tipo di regime che le opprime e commette abusi nei loro confronti, non può avere un reale significato. In effetti, i cittadini israeliani ebrei si caricano di una responsabilità perfino maggiore di quella dei cittadini tedeschi sotto il regime nazista, proprio a causa di questi sopravvissuti tratti democratici. Gli israeliani d oggi non hanno da temere le stesse ripercussioni che i tedeschi dovevano affrontare sotto il regime nazista.

Prendendo in seria considerazione le accuse di Jamal Karsli, che i soldati israeliani avrebbero adoperato metodi nazisti marcando i prigionieri palestinesi di numeri, dobbiamo pure ammettere che le due situazioni erano caratterizzate da circostanze differenti e che per i palestinesi, il gesto in questione si presentava come un’offesa piuttosto minore e di valore innanzi tutto simbolico, se confrontata con gli altri crimini perpetrati dagli israeliani. I numeri non venivano tatuati nelle mani dei palestinesi ed i prigionieri non si trovavano (ancora) in un campo di sterminio di tipo Auschwitz. Dall’altra parte, molti palestinesi che attualmente vivono in ghetti e campi di concentramento, cosè come il ministro per l’educazione israeliano, Shulamit Aloni, hanno fatto presente che non occorre aspettare l’arrivo delle camere a gas per i palestinesi per poter fare gli opportuni confronti. Già adesso siamo testimoni di una crescente pulizia etnica dei palestinesi e non abbiamo ancora le cifre esatte dei morti per malnutrizione, per il mancato accesso alle cure mediche ecc. E non abbiamo le cifre esatte circa i palestinesi che hanno lasciato la loro patria “volontariamente”.

Considero il paragone tra le atrocità naziste ed i crimini israeliani, nonostante le numerose differenze, non solo giustificato storicamente, ma innanzi tutto, lo ritengo necessario politicamente, considerando che questo è uno degli strumenti importanti per prevenire un abuso del giudeocidio nazista da parte di Israele per poter commettere abusi nei confronti dei palestinesi, espropriarli e deportarli. Il confronto è senz altro uno degli strumenti per dimostrare che Israele non ha alcun diritto morale ed in effetti, non l’ha mai avuto, di incitare sentimenti di colpa, ad esempio in Europa – sentimenti di colpa tra non ebrei, come risultato della lunga storia di persecuzioni subite dagli ebrei e che Israele ed i suoi affiliati sanno perfettamente mettere a frutto e manipolare.

 

Le lobby sioniste

Non vi è alcun dubbio che le lobby pro-israeliane si annoverano tra le più potenti al mondo. Una di loro, l’AIPAC, si vanta del fatto che secondo la rivista Fortune, sarebbe da anni uno dei gruppi di pressione più potenti negli Stati Uniti. Queste cose si possono leggere sul sito dell’AIPAC, senza scomodare le oscure pubblicazioni di gruppi giudeofobi.

Se vogliamo trovare la strada giusta per neutralizzare le lobby pro-sioniste, dobbiamo astenerci da volerle demonizzare. Dobbiamo comprendere bene come funzionino e quali siano i loro punti di debolezza, le zone d’attracco. La tendenza di attribuire loro qualche potere magico non pecca soltanto di razzismo, ma sarebbe foriera della propria disfatta. Sarebbe un’ulteriore giustificazione dell’impotenza di chi diffonde la demonizzazione. Non si può vincere contro un fantasma talmente onnipotente e sovrannaturale.

Uno dei punti di maggiore debolezza delle lobby pro-israeliane è che solitamente, esse sono costituite solamente da gruppi di funzionari con una base molto ristretta. Non hanno incontrato alcun opposizione efficiente perché: troppa gente, ebrei e non-ebrei, credono che Israele difenda gli interessi ebrei e che lo stato di Israele possa servire come punto di appoggio in caso di un eventuale secondo giudeocidio. Questo mito, quest illusione vanno distrutti!

E’ facilmente documentabile che Israele non soltanto mette a rischio i palestinesi, ma anche gli stessi ebrei e questo non soltanto nel Medio Oriente. Occorre creare su vasta scala la consapevolezza che quest’illusione di un’assicurazione a vita per ebrei, viene pagata dalla sofferenza e con il sangue dei palestinesi e che costituisce, di per se, un pericolo per gli ebrei stessi.

Israele e le organizzazioni affiliate hanno esercitato considerevoli pressioni per promuovere la cosiddetta campagna anti-terrorista in generale ed in particolare, l’aggressione statunitense all’Iraq – attività che hanno aumentato i pericoli anziché: neutralizzarli o prevenirli.

Nel caso dell’Iraq, non vi è alcun serio indizio che il regime di Saddam Hussein fosse stato un pericolo per chicchessia, tranne per gli iracheni stessi. Israele di sicuro non era messo a rischio dall’Iraq e Saddam Hussein aveva segnalato più volte le sue intenzioni serie di arrivare ad un accordo con lo stato sionista. Secondo vari rapporti dai primi anni 90, egli era perfino disposto ad assorbire una quota dei profughi palestinesi nell’Iraq pur di contribuire a risolvere i conflitto palestinese-israeliano.

Ciò nonostante, molti sostenitori della guerra contro l’Iraq, ma anche molti oppositori erano e continuano ad essere convinti che quest aggressione fosse stata perpetrata per allontanare da Israele rischi reali.

Sicuramente vi furono interessi israeliani in questa guerra – un fatto che emerge anche nel ruolo attivo che la classe dirigente di Israele ed i suoi affiliati neocon statunitensi ebrei hanno giocato premendo per la realizzazione di questa campagna militare.

Qui si sta giocando non per una maggiore sicurezza, ma per aumentare l’instabilità e con ciò, le spese militari, quindi, per incrementare le entrate dei complessi industriali-militari (MIC) statunitense ed israeliano cui viene assegnato, ancora una volta, il ruolo di motrice delle rispettive economie. Quest alleanza malsana potrebbe un giorno finire e già adesso vi sono punti di attrito e di conflitto d’interessi tra i partner; in più, gli israeliani hanno dovuto incassare qualche dolorosa sconfitta. Ad esempio, nell’industria militare israeliana molti posti di lavori sono a rischio perché: per Israele è più vantaggioso farsi donare le armi da parte degli USA che non acquistarle in paese. L’aiuto militare che Israele riceve dagli USA è, in gran parte, una sovvenzione per l’industria militare statunitense, considerando che la maggiore quota dei soldi non può essere spesa altrove. Alcune ditte israeliane cercano di aggirare questi ostacoli formando joint-ventures con ditte statunitensi, ma ciò non garantisce per niente che la produzione resterà in Israele.

La causa principale della forte influenza delle lobby pro-israeliane sta nella saldezza dell’alleanza tra i complessi industriali-militari statunitense ed israeliano, sin dal 1967. Qualora quest’alleanza dovesse rompersi o qualora il complesso industriale-militare dovesse perdere in misura significante d’ importanza politica ed economica, il pallone gonfiato e denominato la potente lobby ebraica, verrà giù, sgonfiandosi completamente – e ciò non soltanto negli USA.

da qui

 

 

In Israele libertà, uguaglianza e fratellanza non valgono per tutti – Gideon Levy

 

La peste si sta diffondendo. Con la scusa della guerra (giusta) contro l’antisemitismo, l’Europa e gli Stati Uniti stanno mettendo a tacere chiunque osi criticare Israele. Per l’occidente questa causa è diventata un pretesto per negare la libertà di espressione. Eppure, incredibilmente, nessuno si ribella. Le leggi che equiparano l’antisionismo all’antisemitismo e il movimento contro l’occupazione dei Territori palestinesi come un movimento antisemita sono approvate con maggioranze schiaccianti. Per il momento l’atteggiamento degli occidentali favorisce Israele e l’establishment ebraico, ma rischia di alimentare davvero l’antisemitismo non appena sorgeranno i primi interrogativi.

La settimana scorsa ne abbiamo avuto la dimostrazione in Francia, culla della rivoluzione. L’assemblea nazionale di Parigi, infatti, ha approvato con una larga maggioranza una risoluzione che adotta la definizione di antisemitismo proposta dall’Alleanza internazionale per il ricordo dell’Olocausto, che equipara l’antisionismo all’antisemitismo. Libertà? Uguaglianza? Fratellanza? No se parliamo di Israele. In questo caso i valori fondamentali sono messi da parte.

 

Vaso di Pandora
Il testo è opera del parlamentare francese Sylvain Maillard, amico di Israele che qualche mese fa avrebbe partecipato a una riunione con il faccendiere dei coloni Yossi Dagan, capo del consiglio regionale della Samaria. “Criticare l’esistenza di Israele come collettività composta da cittadini ebrei equivale a odiare l’intera comunità ebraica. Allo stesso modo, ritenere collettivamente gli ebrei responsabili per le politiche delle autorità israeliane è un’espressione di antisemitismo”, si legge nell’introduzione alla risoluzione. Il vaso di Pandora è scoperchiato. Ora è proibito sollevare qualsiasi dubbio a proposito del sionismo, unica ideologia del pianeta che non può essere contestata nei paesi del mondo libero.

Il linguaggio, prima di tutto. Israele “come collettività composta da cittadini ebrei”. Anche la legge dello stato-nazione è stata accettata dall’assemblea nazionale di Parigi. Se Israele è un collettivo di cittadini ebrei, cosa sono i cittadini palestinesi? Chi sono le persone che vivono sotto il giogo dell’occupazione? I 154 parlamentari che hanno alzato la mano per sostenere la decisione dell’assemblea non possono ignorare queste domande. Liberté, égalité e fraternité valgono solo per gli ebrei? Cosa si offre ai sei milioni di palestinesi che vivono sotto il controllo del “collettivo di cittadini ebrei”? Libertà, uguaglianza e fratellanza di seconda classe? Da questo momento nessuno sarà autorizzato a porre queste domande. Chiunque lo faccia sarà ufficialmente antisemita.

I palestinesi, gli arabi, gli ebrei, gli israeliani che vorrebbero uno stato democratico ed egualitario da adesso sono antisemiti

“L’antisionismo è una posizione legittima nella storia ebraica, ed è ben presente anche all’interno di Israele”, si legge in una petizione firmata (invano) da 129 professori e intellettuali ebrei e israeliani per protestare contro l’approvazione della risoluzione. I firmatari hanno ricordato che molti sopravvissuti dell’olocausto sono antisionisti. Anche loro, adesso, sono ufficialmente antisemiti.

Da questo momento tutti i palestinesi e tutti gli arabi sono antisemiti. Tutti gli ebrei e tutti gli israeliani che vorrebbero uno stato democratico ed egualitario, precisamente nello spirito della rivoluzione francese, sono antisemiti. E lo stesso vale per chiunque consideri il sionismo un movimento colonialista, come se non fosse una posizione legittima. Tutti antisemiti.

 

Il permesso di essere antisionista
Per generazioni di palestinesi il sionismo ha rappresentato il centro della propria esistenza. Il sionismo li ha espulsi dal loro paese, li ha privati delle loro terre, li ha disonorati e ha rovinato le loro esistenze, uccidendoli e tormentandoli fino a oggi senza che ci fosse mai la speranza di una fine. Loro non hanno il permesso di essere antisionisti? Non hanno il permesso di odiare il sionismo? La Francia li processerà per antisemitismo? Queste persone non combattono il sionismo perché sono antisemite. Combattono il sionismo perché il sionismo ha distrutto la loro vita.

E quelli che protestano davanti alle recinzioni attorno alla gabbia di Gaza? Sono antisemiti? Non sono combattenti per la libertà? E tutte le persone di coscienza del mondo che si identificano con la lotta di Gaza?

Da questo momento, per la Francia, sono tutte antisemite e fuorilegge. Se negare il diritto degli ebrei all’autodeterminazione è antisemita, cosa ne pensa l’assemblea nazionale francese del fatto che Israele nega i diritti dei palestinesi? Perché non approva una legge in merito? Semplice, perché i palestinesi (e la giustizia) non possono contare su una lobby potente in Francia. Congratulazioni, monsieur Maillard. Ha vinto lei.

 

(Traduzione di Federico Ferrone)

Questo articolo è uscito sul quotidiano israeliano Haaretz.

 

da qui

 

 

redaz
una teoria che mi pare interessante, quella della confederazione delle anime. Mi racconti questa teoria, disse Pereira. Ebbene, disse il dottor Cardoso, credere di essere 'uno' che fa parte a sé, staccato dalla incommensurabile pluralità dei propri io, rappresenta un'illusione, peraltro ingenua, di un'unica anima di tradizione cristiana, il dottor Ribot e il dottor Janet vedono la personalità come una confederazione di varie anime, perché noi abbiamo varie anime dentro di noi, nevvero, una confederazione che si pone sotto il controllo di un io egemone.

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