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La Bottega del Barbieri

Exterminate all the brutes – Raoul Peck

(visto da Francesco Masala)

Il capolavoro di Raoul Peck, speriamo presto in italiano. a seguire due articoli; di Cristina Piccino (sul cinema iraniano in carcere) e di Gianni Giovannelli (su Esterno notte di Marco Bellocchio)

Raoul Peck gira un documentario di quattro ore sul colonialismo,  sulla segregazione e sterminio dei non bianchi e dei non eletti (ogni segregazione nasce da una differenza, vera o inventata) ad opera dei suprematisti bianchi… anche se ancora non si chiamavano così.

il titolo del film è quello di un libro di Sven Lindqvist (pubblicato da Ponte alle Grazie e da TEA) che appare nel film insieme a tanti altri bravi studiosi e studiose.

nessuno può dire di non sapere, di non poter sapere, meno che mai dopo aver visto questo documentario di Raoul Peck.

l’Impero del Male è quello a cui apparteniamo, anche se a volte non vogliamo capirlo o facciamo finta.

qui un po’ di riferimenti, libri e film forniti dal regista.

ecco altri tre film di Raoul Peck: quiqui e qui

non perdetevi Exterminate all the brutes, cercatelo e trovatelo.

buona (sofferta) visione.

https://markx7.blogspot.com/2022/07/exterminate-all-brutes-raoul-peck.html

 

 

Arrestato Jafar Panahi in Iran, un attacco feroce alla libertà d’espressione – Cristina Piccino

La notizia ieri è rimbalzata subito in tutto il mondo: Jafar Panahi è stato arrestato a Tehran a soli due giorni di distanza dall’arresto di Mohammad Rasoulof e di Mostafa Al-Ahmad – a favore dei quali Panahi aveva espresso il suo sostegno sui social. In un suo post del 10 luglio si legge: «All’alba dell’8 luglio Rasoulof e Al-ahmad, critici schietti e cineasti impegnati, sono stati aggrediti nelle loro abitazioni e portati via in un luogo sconosciuto. Condanniamo la pressione che i filmmaker indipendenti e i pensatori liberi stanno subendo. Condanniamo anche la sistematica violazione da parte delle istituzioni dei diritti sociali e dell’individuo. Chiediamo l’immediato rilascio dei nostri colleghi».
NON È LA PRIMA volta che il regista, uno dei più importanti nomi nel cinema iraniano e tra i più riconosciuti a livello internazionale sin dagli esordi con Il palloncino bianco (1995) che vinse la Caméra d’or al festival di Cannes – il successivo Lo specchio (1997) ha conquistato il Pardo d’oro al festival di Locarno mentre Il cerchio (2000) ha avuto il Leone d’oro a Venezia – viene arrestato nel corso della sua carriera: nel 2010 è stato condannato a sei anni di reclusione, tramutati poi in arresti ai domiciliari, e gli è stato vietato di lasciare il Paese, di rilasciare interviste e di girare film fino al 2030, anche se ha continuato a farne e con grande potenza – pensiamo a Closed Curtains (2013) premio della sceneggiatura alla Berlinale, e a Taxi Tehran (2015) Orso d’oro, girato in clandestinità, la cui protagonista, l’avvocata per i diritti civili Nasrine Saotoudeh è stata arrestata nel 2018 e detenuta in condizioni orribili con un deterioramento grave della sua salute ulteriormente peggiorata dopo avere contratto il Covid.
La persecuzione del regime nei confronti del regista, figura sempre «scomoda» i cui film venivano regolarmente censurati, inizia insieme a quella contro Rasoulof: i due cineasti vengono messi in prigione mentre stanno preparando un film sull’Onda verde, il movimento che era esploso in Iran contro la presidenza di Ahmadinejad per chiedere una maggiore democrazia e dei cambiamenti sociali, economici, il rispetto dei diritti civili che Panahi aveva sempre pubblicamente sostenuto. Contro entrambi l’accusa è di «propaganda contro il governo» e di «attentare alla sicurezza pubblica».
DA ALLORA come accade in Iran le loro vite sono rimaste sospese a un arresto che poteva accadere di nuovo da un momento all’altro, una forma di tortura psicologica messa in atto con ricatti e minacce di ogni genere. Rasoulof era stato nuovamente fermato e privato dei documenti mentre tornava dal festival di Telluride nel 2017 dove aveva presentato A Man of Integrity, e nel 2019 aveva fatto appello all’imputazione di «propaganda contro il regime». Entrambi potevano scegliere la via della fuga e dell’esilio ma hanno deciso di restare in Iran continuando a esprimere il loro pensiero attraverso le loro opere.
Rasoulof e Mostafa al-Ahmad avevano lanciato qualche giorno fa un appello alla polizia iraniana firmato da una settantina di artisti in cui chiedevano di non usare le armi contro i manifestanti con riferimento alle violenze messe in atto dalle forze speciali iraniane nella città di Abadan durante le manifestazioni seguite al crollo di un edificio nel quale sono morte oltre quaranta persone – la cittadinanza accusava il governo di negligenza e di corruzione.
IERI si sono moltiplicate le richieste di una immediata scarcerazione dei registi, tra cui i comunicati del festival di Cannes che ha voluto ribadire il suo sostegno a tutti «quegli artisti nel mondo vittime di violenze e di rappresaglie» e della Berlinale che nell’arresto di Panahi, Rasoulof e Al-Ahmad denuncia l’ennesimo attacco «alla libertà di espressione e dell’arte». L’incarcerazione senza alcun accusa di Panahi è solo l’ennesimo atto di una repressione che si fa in Iran sempre più dura, quasi che il regime cerchi di camuffare la forte crisi economica e la protesta sociale che ne deriva con questi arresti eclatanti, rivolti contro un ambito, quello della c ultura, che viene valutato come potenzialmente pericoloso. Nei mesi scorsi erano state arrestate le registe Firouzeh Khosrovani (Radiography of a family) e Mina Keshavarz (The art of living in danger) -liberate poi il 18 maggio su cauzione – entrambe autrici riconosciute a livello internazionale, senza dare alcuna motivazione.

da qui

 

 

“Esterno notte” di Marco Bellocchio. Riflessioni – Gianni Giovannelli

Tutta la molteplicità del mondo,,

la sua illusionistica corposità,

è un intreccio di enigmi.

Ma l’enigma si formula

contraddittoriamente.

Ogni coppia di contrari

è un enigma,

il cui scioglimento è l’unità.

 

Giorgio Colli

“La nascita della filosofia”, Milano, Adelphi

 

Sei episodi divisi in due parti, circa cinque ore complessive, pochissimo pubblico in sala in entrambe le proiezioni da me scelte, per due volte nel primo pomeriggio festivo, senza mai annoiarmi, attento e coinvolto. Non so se sia stato così per il debito emotivo che mi lega a questo ultraottantenne giovanissimo regista, fin da quando, ragazzo, ero rimasto affascinato dalla rabbiosa intelligenza dei suoi pugni in tasca (1965); forse anche, ma di certo non solo.

Il fatto

Il sequestro e l’uccisione di Aldo Moro hanno segnato profondamente un tempo, e contribuito a modificare il rapporto di forza fra operai e capitale, a preparare la transizione autoritaria; la vicenda complessiva si caratterizza per essere, contestualmente, un intreccio di enigmi e un fatto storico, nella sua materiale – ma a ben vedere solo apparente – semplicità. Le lunghe polemiche, mai sopite in 44 anni, ruotano intorno a due quesiti, posti dai contendenti in contraddizione fra loro: se le BR debbano ritenersi o meno un’organizzazione davvero genuina (qualunque sia il significato di un simile aggettivo) e se ci si trovi o meno di fronte ad un complotto di natura politico-militare. Un falso sillogismo mai rilevato come tale: l’adesione alle Brigate Rosse di 2 o 3 mila veterocomunisti non esclude affatto, almeno sul piano logico astratto, l’intervento autonomo di un apparato statale capace di cogliere l’occasione per propri fini. Eppure il falso sillogismo ha fino ad oggi dominato ogni discussione sul caso Moro.

Il film

Marco Bellocchio ci costringe ora a cambiare prospettiva, muove da un angolo di visuale diverso, inusuale, spiazzante. L’azione armata è solo un frammento della vicenda, il punto di partenza, il fatto che costituisce presupposto necessario degli eventi successivi. Ma solo l’esame dell’intero affaire Moro (per usare l’efficace titolo del volume di Leonardo Sciascia) consente di sciogliere l’intreccio degli enigmi, portandoli a unità. Con l’intuito e la formidabile potenza dell’opera d’arte il regista pone al centro della scena non gli autori materiali del sequestro ma l’apparato di potere: ministri, poliziotti, preti, agenti segreti, psichiatri, faccendieri, militari, massoni della P2. I colloqui fra l’agente americano Pieczenik, inviato sotto copertura a Roma per seguire gli sviluppi del sequestro, e il ministro Cossiga, in una meravigliosa terrazza romana, rendono l’atmosfera di quelle giornate. I due costruiscono una doppia strategia, con Moro vivo e con Moro morto, giusto per non lasciare nulla al caso; ma entrambi hanno ben chiaro che il destino del prigioniero è segnato in modo irreversibile. Paolo VI, amico di vecchia data dello statista democristiano, decide, con molte dubbiose perplessità, di chiedere il rilascio utilizzando lo sterco del diavolo; in poche ore raccoglie banconote pulite per oltre dieci miliardi, una somma mai pagata da nessuno in precedenza, accatastata su un tavolo nelle stanze del Vaticano, pronta per essere versata alle Brigate Rosse. Ma i vertici delle Forze Armate remano contro, i comunisti rilanciano la strategia della fermezza, Andreotti tesse abilmente il reticolo di un rifiuto. Ogni spiraglio di trattativa viene, dentro il palazzo del potere, immediatamente richiuso senza lasciare al sequestrato alcuna possibilità di scampo: con diverso scopo e con diverse finalità i più lo volevano ammazzato, con poche eccezioni dentro una minoranza ormai rassegnata all’inevitabile epilogo. Anche il Pontefice finisce con il rassegnarsi e rinunzia al sogno di pagare un riscatto; la famiglia Moro comprende di poter solo attendere la fine, decisa e sostanzialmente pianificata: una condanna a morte ratificata dalle istituzioni.

Protagonisti e comparse

I militanti delle Brigate Rosse appaiono comprimari quasi irrilevanti, espropriati del loro destino. In una piazza della capitale si svolge l’animata discussione fra due colombe (Morucci e Faranda) favorevoli alla liberazione e due falchi (Moretti e Braghetti) decisi ad uccidere. E mentre si svolge questo surreale alterco i quattro subiscono, senza versare nulla, impassibili, la pressante richiesta di monete da parte di un tossico che voleva raggranellare il necessario per la sua dose; come se non bastasse, poco dopo, una donna viene scippata da due ladri in moto che le rubano la borsa, grida, senza sapere di chiedere, inutilmente, aiuto alla direzione strategica del partito armato! Le immagini sono qui più forti di qualsiasi ricostruzione storica o critica: quella dei quattro brigatisti è una pazzia amletica in cui affiora un metodo, ma al tempo stesso rimane indifferente rispetto alla realtà della popolazione metropolitana, sganciata da rapporti sociali veri. Comunque lo ritengo un passaggio di bellissimo cinema.

L’epilogo

Un doppio funerale costituisce il grottesco epilogo. Una sepoltura strettamente privata, con la presenza dei pochi congiunti nella tomba di famiglia; una cerimonia pubblica con le autorità schierate, disertata dai congiunti, senza la salma, con il trionfo dell’ipocrisia di regime. Le esequie di stato senza il corpo segnano l’atto fondativo delle larghe intese, inizia il percorso di transizione che consentirà, cancellando le conquiste del movimento, di varare l’odierno stato autoritario e di imporre l’ordine nuovo del capitalismo finanziarizzato. Più per intuito artistico che non per ragionamento politico osservava, quasi nell’immediatezza dei fatti, Leonardo Sciascia (1978, Sellerio): ma se lo scopo delle Brigate Rosse è quello di interrompere il processo di attrazione, il movimento di congiunzione che si svolge fra Partito Comunista e Democrazia Cristiana come mai non si accorgono del sortire ad effetto opposto delle loro azioni, cioè che quel processo riceve dalle loro azioni parvenza di necessità e accelerazione? In una lettera dal carcere lo stesso Aldo Moro mostra di avere ben chiaro il quadro della fermezza, del fronte di chi lo vuole morto: il governo è in piedi e questa è la riconoscenza che mi viene tributata. Per un paradosso della storia l’artefice dell’ingresso comunista in maggioranza deve essere ucciso per consentire la riuscita del suo progetto, con la piena adesione del PCI anche alla Nato . Nei sei episodi, mentre si svolge il dramma, la popolazione di Roma vive la propria vita di tutti i giorni, andava maturando la rassegnata indifferenza che ora abbiamo tutti davanti agli occhi; tornano in mente i versi di Trilussa sul venir meno del credere: nun se fida più della campana perché conosce quello che la sona.

Il sugo della vicenda

Bellocchio rimuove dal centro della scena la ragione di mille inutili polemiche su cui si attardano in troppi, ovvero se già in Via Fani il nucleo delle Brigate Rosse abbia potuto contare su un appoggio esterno, o, ancora, se la struttura, politica e militare, dell’organizzazione armata possa considerarsi genuina. Nel film ciò che rileva è il fatto non la modalità tecniche che lo hanno reso possibile, quali che esse siano.

Ci sono state due commissioni d’inchiesta, si sono svolti molti processi e stampata una montagna di volumi. Esiste una verità di stato, affidata al memoriale costruito dalla leggendaria suor Teresilla Barillà, firmato dal pentito Morucci con editing del giornalista democristiano Remigio Cavedon, confermato quale versione corrispondente al vero da Moretti. Mancano all’esame i pizzini di polizia, numerosi rapporti degli informatori, le relazioni dei servizi segreti; questo rende difficile allo storico la ricostruzione dettagliata, esauriente, convincente.

Ove con il bizzarro aggettivo genuine si intenda affermare che le Brigate Rosse erano una struttura reale, con qualche migliaio di militanti, in gran parte formatisi durante le lotte di massa, allora non ci sono dubbi che sia così. Ove si intenda invece negare l’uso di infiltrati nel gruppo si va invece contro il buon senso e l’evidenza. D’altro canto dove mai i servizi segreti e l’apparato repressivo avrebbero dovuto piazzare i propri informatori, se non dentro formazioni armate? Alcuni sono noti, altri sono ancora coperti dal silenzio di stato. Ma i nomi noti abbracciano l’intera vita dell’organizzazione: Marco Pisetta risale al periodo 1970/72 (arresti a Milano in Via Delfico e in Via Boiardo), Frate Mitra Girotto agì nel 1974 consentendo la cattura di Curcio e Franceschini (ma non solo), nel 1979 furono le informazioni a segnare la sorte di Morucci e Faranda (troppo lungo sarebbe descrivere il come anche se interessante), e il 4 aprile 1981 cadde in trappola anche Mario Moretti, ingannato da Renato Longo che aveva ricevuto 60 milioni (a rate) dal capo della mobile di Pavia, Ettore Filippi, poi vicesindaco di centrosinistra. L’esistenza reale di una formazione armata non impedisce affatto che possano infilarsi fra i militanti spie di regime; questo avviene anzi sempre, quasi senza eccezioni. E non consente neppure di escludere condizionamenti, azioni di disturbo, abili provocazioni, interferenze in genere. Quel che conta nell’Affaire Moro non è l’azione militare, ma il dopo. E nel dopo il ruolo dei rapitori è stato secondario, la sequenza l’hanno imposta, come veri protagonisti, coloro che stavano a palazzo.

A volte il caso

Non c’è dubbio che, comunque siano andate le cose, l’agguato di Via Fani mostri nella preparazione molte falle. Eppure è riuscito. Che ciò sia dovuto a casuale buona sorte oppure al supporto di due professionisti a bordo una moto (come ritengono alcuni) poco cambia nel risultato finale: bene ha fatto, io credo, il regista ad attenersi all’accaduto sostanziale, evitando digressioni inquinanti.

La prima guerra mondiale è legata all’attentato che nel 1914 costò la vita all’arciduca Ferdinando e alla moglie Sofia. Un assassinio riuscito nonostante una preparazione assai sgangherata. Dragutin Dimitrievic aveva assoldato e armato una pattuglia di nazionalisti socialisteggianti, che provenivano da due (genuine) strutture armate: Crna Ruka (mano nera) e Narodna Opbrana (difesa del popolo).

Il capo del governo, Nicola Pasic, fu avvisato da un informatore, tale Voijslavtankosi, ma ritenne di non adottare misure particolari in prevenzione; in guerra si schierò contro l’Austria Ungheria. L’attentato ebbe corso.

Per un errore di tiro, al passaggio dell’auto imperiale, fu ferito un attendente, il pilota accelerò portando l’arciduca salvo al municipio. Gavrilo Princip non riuscì ad intervenire come aveva in animo, rinunciò sconfortato al progetto e si diresse verso l’osteria. Ma il diavolo ci mise lo zampino. L’arciduca, dopo aver rimproverato i funzionari del municipio per la cattiva gestione della sicurezza, volle ad ogni costo risalire in macchina per andare a prendere il suo collaboratore ferito. C’era folla, la vettura procedeva lentamente, fermandosi ogni tanto; durante una di queste brevi soste Gavrilo Princip si trovò accanto l’arciduca. E, salito sul predellino, sparò con la sua Browning M 1910 calibro 7,65 uccidendo l’erede al trono insieme alla consorte: il progetto sgangherato di sette sprovveduti, per una serie di accadimenti imprevedibili, ebbe successo, per geometrica potenza del caso! Dopo le confessioni dei congiurati il governo imperiale chiese l’estradizione degli attentatori e il rifiuto serbo aprì la via alla grande guerra, come speravano i gestori del dopo cogliendo al volo una ghiotta occasione.

Paolo Mieli ha scritto: ritengo che in merito all’Affaire Moro si sappia sostanzialmente tutto quel che si deve sapere. Dal suo punto di vista ha ragione. È un affidabile funzionario di quello stesso apparato che ha determinato davvero, con lucida consapevolezza e con geometrica potenza, la sorte dell’esponente politico democristiano. Un regista geniale, Marco Bellocchio, ha sciolto l’intreccio di enigmi, con la semplicità dell’arte.

da qui

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