Fatti e misfatti Enel in Guatemala

di David Lifodi 

A quasi trent’anni di distanza, l’Italia versione affari&finanza torna in Guatemala e non ci fa una bella figura. Era il 1982, in pieno regime militare del generale Rios Montt, quando Impresit-Cogefor impose la costruzione della diga Chixoy in Verapaz avvalendosi delle patrullas governative che fecero terra bruciata dei villaggi maya in lotta contro il grande mostro che avrebbe allagato i loro territori. Gli indigeni che tentarono di opporsi al progetto andarono ad ingrossare il numero delle migliaia di morti causate da una delle dittature più spietate del Centro-America nel contesto dell’operazione denominata appunto tierra arrasada (terra bruciata). Una sottolineatura: Impresit-Cogefor è l’attuale Impregilo.

Oggi, purtroppo, ci risiamo: nella lista dei cattivi Enel Green Power (Egp si occupa delle energie rinnovabili) e ambasciata italiana in Guatemala, in una storia che presenta numerosi punti oscuri. A fine 2010 Egp dichiara ufficialmente la sua intenzione a costruire un impianto idroelettrico a Palo Viejo, dipartimento del Quiché, municipio di Cotzal. La comunicazione dell’Enel divulga con astuzia la notizia: si tratta di un progetto per la diffusione delle energie rinnovabili in collaborazione con la BancaMondiale.Oltre alla diga, Egp garantisce al governo guatemalteco la creazione di centinaia di posti di lavoro. In realtà, il bluff dura poco. A più riprese arrivano comunicati da parte delle comunità indigene di Cotzal in cui si denuncia a chiare lettere che il governo del Guatemala “non difende i diritti dei popoli indigeni, ma gli interessi delle imprese come l’italiana Enel”. E ancora: “Lo stato guatemalteco criminalizza la nostra lotta in difesa dei nostri diritti”. Egp, allora, precisa immediatamente che la luce verde per la costruzione della centrale idroelettrica proviene dal sindaco di Cotzal, ma si dimentica di rendere noto il curriculum vitae di questo personaggio, su cui pendono vari reati, tra cui quelli di peculato e istigazione a delinquere. Sempre l’Enel si guarda bene dal dire che ad una richiesta di spiegazioni e ad un invito al dialogo da parte delle comunità indigene, ha preferito sollecitare l’invio dell’esercito, presentatosi in forze ed in assetto antisommossa nel piccolo municipio causando il terrore tra la popolazione. Il ricordo è andato subito agli anni ’80, quando le comunità maya erano sottoposte a veri e propri rastrellamenti ad opera degli squadroni della morte che agivano per conto della dittatura. In tutto questo, l’ambasciata italiana tace. E meno male che il profilo dell’ambasciatore italiano in Guatemala, Mainardo Alvise Maria Benardelli de Leitenburg, visibile a tutti su www.ambguatemala.esteri.it/ , riporta il suo impiego presso il ministero degli Affari Esteri a Roma presso le Direzioni generali delle relazioni culturali del servizio per l’informatica e della cooperazione per lo sviluppo, dove è stato responsabile per gli aiuti d’emergenza, umanitari ed alimentari. Di conseguenza, dovrebbe conoscere bene quanto sancisce la Convenzione 169 dell’Oil (Organizzazione Internazionale del Lavoro), la quale afferma che le comunità indigene devono essere obbligatoriamente consultate prima dell’avvio di una qualsiasi attività sul proprio territorio. Dovrebbe saperlo anche il presidente guatemalteco Alvaro Colom, visto che la Convenzione 169 è stata sottoscritta a suo tempo anche dal suo Paese, ma questo è un dettaglio. Il mandatario Colom ha da tempo svenduto il proprio Paese alle multinazionali, e ora si appresta a lasciare il palazzo presidenziale di Città del Guatemala: ad agosto si svolgeranno le elezioni in cui è candidata la sua ex-moglie, ex perché la legge non prevede che un parente di primo grado del presidente in carica si possa candidare per sostituirlo, per questo è stato organizzato un divorzio lampo. Nel frattempo, l’invito delle comunità indigene all’ambasciata italiana in Guatemala e ai responsabili locali di Enel Green Power affinché abbandonino “l’attuale linea intransigente e ad accettare da subito la disponibilità al dialogo da condurre con la presenza di osservatori internazionali indipendenti e qualificati” arriva in Italia. Alcuni amici, che fanno parte di una piccola associazione della mia città che lavora per promuovere progetti di sviluppo in Guatemala, mi chiedono se sono disponibile a scrivere insieme a loro una breve lettera all’Enel con la richiesta di spiegazioni su quanto sta avvenendo. Nel giro di alcuni giorni buttiamo giù un breve testo e, a sorpresa, arriva velocemente la loro risposta. Primo particolare: la lettera, per quanto dettagliata, porta una data antecedente al nostro invio. Quindi, se ne deduce che Enel abbia ricevuto missive simili e che abbiano deciso di redigere una sorta di comunicato stampa unico da inviare come risposta ad altre lettere di protesta presumibilmente già ricevute. In secondo luogo, si tranquillizza sulla bontà dei loro progetti in Centro-America e si bollano come prive di fondamento le notizie in merito ai fatti di Cotzal rimbalzate in vari blog, siti e mailing-list di movimento e non solo, la cui attendibilità e serietà sono peraltro note (per tutti l’agenzia Adista e il mini-notiziario di Aldo Zanchetta America Latina dal basso). Ovviamente Enel non poteva dare ragione alle proteste perché sarebbe suonata come una flagrante ammissione di colpevolezza, però non sono riusciti nemmeno a convincere che la loro strategia sia limpida e chiara. Inoltre, Enel ha dimostrato quantomeno poca sensibilità nei confronti dei popoli maya scegliendo di acquistare gli appezzamenti di terreno dove andranno a costruire la centrale idroelettrica dal latifondista Pedro Boll, accusato di aver sottratto quelle terre agli indigeni durante gli anni più duri del conflitto armato interno che, all’inizio degli anni ’80, ha segnato la sua fase più cruenta. Può darsi che l’Enel effettivamente non fosse a conoscenza di questi fatti, ma si presuppone che almeno all’ambasciata italiana in Guatemala avrebbero dovuto documentarsi sulla storia di un Paese così martoriato. Invece, Enel e ambasciata hanno sposato la linea ufficiale del governo guatemalteco, secondo la quale i blocchi stradali per impedire la costruzione della diga e le altre azioni di resistenza sono “azioni fuori legge condotte da organizzazioni radicali”.

La conclusione di questa storia, sfortunatamente, non è a lieto fine ed è assai improbabile che si giunga ad un accordo affinché siano riconosciuti i diritti dei popoli indigeni. Difficile che Enel torni indietro, anzi. Le notizie provenienti dalle comunità in resistenza raccontano di tentativi volti a dividere la popolazione approfittando delle loro condizioni di estrema povertà. Addirittura impossibile un passo indietro da parte del governo guatemalteco, che nel2010 ha approvato la “Legge d’iniziativa privata” che in pratica permette alle multinazionali di agire indisturbate in tutto il Paese.

Redazione
La redazione della bottega è composta da Daniele Barbieri e da chi in via del tutto libera, gratuita e volontaria contribuisce con contenuti, informazioni e opinioni.

3 commenti

  • Marco Pacifici

    Girato ai Compagni miei che sono in Colombia con gli indio Cauca.

  • Una vera e propria tragedia, ma i diritti dei popoli indigeni vengono spesso considerati di seconda categoria, quando non ignorati del tutto… Vedasi i casi in Brasile, realtá che conosco, della costruzione dell’idrelettrica di Belo Monte sul fiume Xingu e del cambiamento del corso del fiume São Francisco..
    E peggio ancora, come diamine si sceglie il corpo diplomatico in Italia? Invece di tutelare rapporti tra popoli si cerca di nascondere fatti e misfatti di questo tipo…

  • Sto seguendo da tempo anche il caso Belo Monte, su cui ci sono fortissime pressioni per l’approvazione della diga ed il governo Lula ha tenuto un atteggiamento abbastanza ambiguo, vedremo Dilma, ma credo che ci saranno pochi cambiamenti. L’ultima novità riguarda il tentativo di Norte Energia, la compagnia che otterrà i maggiori benefici dalla diga se il progetto andrà avanti, di censurare un blog in cui erano pubblicati documenti scottanti su Belo Monte, per fortuna la giustizia brasiliana le ha dato torto.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *