Fernando Eros Caro nel braccio della morte – 2
Introduzione e prefazione a «Saai Maso – Fratello Cervo» (*)
Prefazione di Marco Cinque
Nascere nel 1949 in una povera famiglia contadina di Brawley, nell’assolato sud californiano, con un mucchio di fratelli e sorelle ma con ben poco da mettere sotto i denti, non gli ha per niente reso facile la vita. Tanto più che Fernando Eros Caro era il maggiore dei figli maschi, perciò a lui spettavano le incombenze, le durezze e le restrizioni maggiori.
Aztec da parte di padre e Yaqui da parte di madre, ha ereditato un aspetto maledettamente nativo, che lo ha reso un bersaglio perfetto per l’umana stupidità. Prima gli anni della scuola e dell’università, poi quelli passati in una divisa militare (dei marines) sono stati una vera e propria via crucis: razzismo e discriminazione per lui non erano soltanto semplici parole o scene viste in qualche film, ma diventavano la stessa aria velenosa che era costretto a respirare giorno dopo giorno. E di veleno Fernando ne ha respirato tanto, persino quello dei pesticidi, durante il suo
lavoro di “bandierista” nelle coltivazioni agricole, dove segnalava agli aerei le zone da irrorare, assorbendo per lungo tempo una pioggia di tossine.
Perciò, oltre alle ferite inferte alla sua dignità di persona, anche il suo corpo e la sua mente venivano aggrediti da dosi massicce di sostanze chimiche. Un matrimonio finito in frantumi è stato l’epilogo di un vortice di eventi che lo ha precipitato nel baratro senza scampo del braccio della morte di San Quentin, dov’è ancora rinchiuso.
«Se Gesù Cristo fosse nato indiano, come minimo, sarebbe stato condannato per pedofilia soltanto per aver detto “lasciate che i bambini vengano a me”» scriveva il Sioux-Lakota James Weddel, ed è proprio il fatto di essere un “indiano” che ha reso Fernando, e tanti altri come lui, colpevole ancor prima di nascere. La condanna che ha subìto, perciò, era di quelle già scritte da tempo e il processo non è stato altro che una sceneggiata dove giudice, giuria, pubblico ministero e avvocato, erano gli attori recitanti di un circo abituato a reclamare soltanto pubblica vendetta.
Più di 30 anni passati in un loculo di un metro e mezzo per due metri e settanta, con tre date di esecuzione segnate sul calendario e tutto ciò che di vergognosamente degradante appartiene ai mattatoi legalizzati per umani dalle vite a perdere, dovrebbero abbrutire, sgretolare, spezzare qualsiasi volontà, qualsiasi persona. Come può un individuo, trasformato in una tomba di carne, con un numero di matricola invece del nome, una data di scadenza che preclude qualsiasi orizzonte, ritrovare lo spirito e la forza per risalire le pareti scivolose della speranza? Si può soltanto lontanamente immaginare di veder fiorire bellezza e talento in un luogo di così infinita desolazione?
Eppure, in questo abisso di odio e disperazione, Fernando è riuscito non solo a sopravvivere ma anche a ritrovare quel bandolo invisibile che gli permette di stare in equilibrio persino sull’instabile filo della non-vita di condannato a morte.
Le sue radici ancestrali, assieme alla fede smisurata di uno spirito indomito, gli hanno riportato il coraggio del sorriso, mentre un pezzo di matita gli mostrava la strada della sua sensibilità artistica. I volti degli antenati, gli animali, la grandiosità della natura, si sono materializzati su tele riempite di colori sgargianti e sguardi malinconici, nati alla luce fioca nel suo squallido tee-pee di cemento.
Il suo lavoro è stato apprezzato anche dalla direzione carceraria, che gli ha permesso di affrescare alcune delle tetre sale della prigione, soprattutto quelle dove i detenuti ricevono le visite di amici e congiunti. Così, come una sorta di Michelangelo autodidatta, ha iniziato a riempire con immagini piene di vita i gironi infernali di San Quentin. I suoi dipinti sono stati esposti anche in mostre tenute sia negli Stati Uniti sia in Europa e molti di questi ora si trovano in giro per il mondo, a testimoniare contro la barbarie della pena capitale.
A un futuro violentemente precluso, Fernando ha risposto aprendo le porte del passato, dove ha ritrovato i miti, le storie e le leggende del suo popolo. Le bibliografie a cui egli si è ispirato sono quelle orali di nonni e bisnonni, vere biblioteche viventi della sua cultura Yaqui. È paradossale che un uomo condannato a morire, faccia di tutto per tener vive almeno le sue radici, i suoi retaggi. E forse i racconti, le poesie e i dipinti servono anche a questo: a credere che qualcosa si
può ancora salvare e che non tutto di noi si può uccidere, estirpare, cancellare.
Affermava Iyengar «il loto cresce nelle acque fangose, ma questo fiore non ne porta alcun segno»: è il senso profondo del vivere, che l’autore di questo volume tenta di trasmetterci con garbo, ricordandoci che, noi del mondo libero, viviamo in acque ben più limpide delle sue e che dovremmo essere più cauti nel giudicare chi è costretto, non per sua scelta, a vivere nel fango.
Da molti anni Fernando è in corrispondenza epistolare con pen friends di ogni età, persino con intere classi di alunni e studenti. Quando si interagisce con lui – che non possiede nulla eppure ci regala molto – ci si sente quasi come dei privilegiati che non riescono più a vedere e tantomeno a saper godere dei propri privilegi. Invece di autocommiserarsi, aspettando la fine del proprio tempo, si preoccupa di trasmettere agli altri ciò che per lui ha senso: rispetto profondo, amicizia e passione. «Il tempo – scriveva il poeta persiano Omar Khayyam – ha due dimensioni: una definita, l’altra indefinita: la lunghezza dettata dal ritmo del sole e lo spessore dettato dalla passione”.
Gli scritti che qui ci vengono proposti, non sono destinati a un’età specifica ma hanno il dono di parlare a ogni persona, piccola o grande che sia. Ciascuno perciò potrà leggere, magari a voce alta e condividendo con altri, in un gruppo famigliare o di amici oppure in una classe scolastica, sentendosi parte dello stesso grande e multicolore cerchio di umanità. Un cerchio che, nonostante tutto, ancora ci accomuna. Tutti.
Qui i dipinti di Fernando Caro
https://www.flickr.com/photos/51979531@N08/
INTRODUZIONE di Fernando Eros Caro
Gran parte delle cose qui scritte potrebbero risultare non del tutto comprensibili per le persone che non sono cresciute in una famiglia nativa-americana o in un ambiente Yaqui. La realtà può apparire confusa quando non si è abituati a mettere in relazione il mondo materiale con quello spirituale, da cui tutti dipendiamo per la sopravvivenza.
La cultura Yaqui si basa sui molteplici rapporti – maturati attraverso le esperienze dei primi antenati – e le percezioni del mondo nel quale essi vissero, plasmate dall’immaginazione, dallo sviluppo spirituale e dal bisogno di dare forma e significato a ciò che non poteva essere spiegato razionalmente.
Nonostante l’evoluzione umana, che purtroppo ha spesso generato un crescente grado di autocompiacimento, restiamo comunque parte della natura e la natura ci parla. Questa capacità di comunicare con la Madre Terra è stata attenuata da una sorta di distrazione e da un atteggiamento di noncuranza e superficialità.
Avete mai realmente guardato il cielo e il suo blu brillante in un giorno sereno? O magari un tramonto inondato dalle tinte calde dei colori della terra? O un fiore, cresciuto in mezzo alla lava, che ci dice: «Guardami, anche qui io posso crescere, mostrare la mia bellezza, resistere». Questo tipo di comunicazione sottolinea e riempie ogni giorno della nostra vita. Tutto ciò che occorre fare è aprire gli occhi, prendersi il tempo di guardare l’erba crescere e ri-connettersi con Madre Terra e il suo naturale abbraccio.
Non importa chi siamo, facciamo comunque parte di questa immensa ragnatela che è la vita. Le storie e la conoscenza, che qui condivido, servono per aiutarci a capire e a costruire un legame con tutto ciò che non è materialmente in relazione con noi. Ascoltiamo l’uccello sull’albero, sta cantando per noi. Quando un’ape ronza al nostro orecchio, sappiamo che vicino ci sono dei fiori con dolci corolle. Sì, accadono cose nella nostra esistenza che non possono essere spiegate. Questi episodi sono classificati come “mistici”, o “fuori da questo mondo”, o “presagi”. Sono considerati eventi soprannaturali, incontri spirituali. Ancora, noi che abbiamo vissuto queste esperienze, generalmente ci chiediamo: «Cosa significa ciò? Perché quell’uccello ha cantato per me? Perché quell’ape è volata vicino al mio orecchio?». Chissà, magari sarà perché nonostante tutto l’asfalto, il cemento e le barriere costruite dagli esseri umani, facciamo ancora parte della natura. La pioggia, alla fine, cade ancora su tutti noi e la natura ci parla, ogni giorno: che si tratti di un fiore che ondeggia nella brezza, di un uccello che canta, di un ululato nella notte, o del vento fra i capelli. Accettiamo tutto ciò, affrontiamo e impariamo a riconoscere e a capire che ogni messaggio è reale e simbolico allo stesso tempo.
Raccontare storie Yaqui.
Premetto che non tutti gli scritti qui presentati dovrebbero essere giudicati secondo i criteri della moderna letteratura. Tuttavia molti di questi racconti possono essere anche applicati ai giorni nostri. Il poeta che si nasconde in ogni lettore può cogliere la bellezza dei racconti e delle poesie
ma, se anche non riuscisse a trovarvi nulla di interessante, forse potrà comunque recepire qualcosa che gli risulterà utile nella vita.
Molte storie, specialmente quelle degli “yoeme” (persone) prima dell’arrivo degli Europei, sono andate perdute. Perciò, i miti che ricordo qui, sono soltanto una parte degli interi e più completi racconti originali.
Tutte le storie sono state tramandate oralmente da una generazione all’altra. Molte sono cambiate adattandole ai tempi moderni, ma generalmente la morale rimane la stessa. Le leggende Yaqui, di solito, parlano di animali, di esseri soprannaturali e personaggi, quali: avventurieri, eroi, donne e uomini saggi, fauna selvatica. La narrazione Yaqui è legata all’intrattenimento, alla storia e alla cultura. Ma, anche, all’assimilazione di saggi princìpi e insegnamenti che, nella vita, possono aiutarci a prendere le decisioni giuste.
Alcuni di questi racconti incarnano gli spiriti degli antenati, i Surem, che scelsero di vivere nel mare, sottoterra, o sotto forma di formiche, per evitare l’influenza degli Europei. Per esempio c’è una leggenda sulle formiche che la gente racconta quando nasce un bambino: «Quando una donna Yaqui dà alla luce un maschietto, tutte le formiche gioiscono! La ragione è data dal fatto che se una donna si siede per mangiare, ogni briciola che le cade dalla bocca va a finire sulla sua gonna e lei può raccoglierla e, in seguito, mangiarla. Mentre, quando è un uomo a sedersi per mangiare, le briciole cadono direttamente sul terreno e le formiche possono cibarsene».
Gli animali posseduti dalla magia sono rispettati: il cervo ha la capacità di diventare invisibile. I serpenti possono prendere forma umana. Gli stregoni (brujos) possono invece trasformarsi in animali. Fumare tabacco da pipa rende capaci di fare profezie, eccetera. Queste credenze magiche fanno parte di molte storie Yaqui e i racconti rispecchiano la visione di questo popolo, sia riguardo al sacro sia al profano.
Noi, come “yoeme”, grazie alle nostre antiche credenze, alle lezioni e alle pratiche spirituali, comprendiamo il rapporto che abbiamo con la natura. Questo credo si esprime anche nelle nostre leggende e nei miti. Gli animali, gli uccelli e le piante, sono descritti come “persone”. Certo, non propriamente “persone umane” ma come portatori della conoscenza, del potere, del bene e del male. Essi comunicano con noi nel nostro linguaggio o tramite simboli. La natura è una sorgente di esperienze fisiche e spirituali che noi trasmettiamo alle generazioni successive in forma di racconti, che diventano perciò fonti di un antico sapere. Leggendo i miti, le leggende antiche e il loro significato, le persone possono trarne un grande insegnamento. Non c’è da vergognarsi nel seguire e praticare le credenze native americane.
Le origini.
All’inizio, gli antenati degli Yaqui si chiamavano “Surem”. Erano piccoli e venivano rigenerati ogni mese con la luna nuova, vivendo in armonia con la natura e con il mondo intero. Prima di utilizzare le piante e gli animali per la loro sopravvivenza, dedicavano a essi rituali e preghiere in segno di rispetto. Abitavano in un luogo chiamato “Yoania”, il mondo incantato. I Surem erano un popolo nomade, che traeva dalla terra tutte le risorse per sopravvivere. Essi non conoscevano la sensazione del tempo che scorre.
La leggenda narra che, in tempi remoti, ci fu un giorno in cui un albero cominciò ad emettere strani suoni. I Surem non capirono il linguaggio dell’albero, così si rivolsero a una “sea hamut”, una sciamana, in grado di interpretare quel messaggio. Lei spiegò che quei suoni annunciavano l’inizio di un nuovo modo di vivere, e avvertì dell’avvento di una razza di uomini che avrebbero portato una nuova religione, l’insegnamento dell’agricoltura, il bene e il male, ma anche le malattie e la morte. Questo diede origine a “koko ania”, il mondo della morte.
Molti Surem si spaventarono all’idea di questi cambiamenti e vi si opposero. Parecchi di loro entrarono nel mare, alcuni presero le sembianze di formiche, altri ancora andarono sotto la terra. Insomma, scelsero tutti luoghi e forme viventi dove il mondo dei Surem continua ancora a esistere. Quelli che rimasero, accettando la nuova vita, divennero gli “Hiak”, gli Yaqui e, in seguito, cominciarono a diventare più alti dei loro predecessori.
Il mondo sotterraneo dei Surem, cioè Yoania, si mostra solo a chi è degno di meritare doni, segreti, poteri. A chi li cerca lontano, nei luoghi solitari dei deserti e delle montagne, essi appaiono attraverso le visioni e nei sogni.
La storia.
Gli Yaqui sono una tribù di Sonora. Un popolo nomade che si è spostato a nord e a sud in quello che è conosciuto come il deserto di Sonora. Non c’erano confini né frontiere allora, come purtroppo esistono adesso.
Quando gli Spagnoli arrivarono nel Messico centrale, verso la metà del 1500, iniziarono subito a razziare e a sottomettere molte tribù di allora. All’inizio gli invasori furono fermati da una fiera resistenza e rispediti indietro; ma neppure nei successivi cento anni seppero sopraffare le popolazioni native con la forza.
Più o meno all’inizio del 1600, i missionari gesuiti riuscirono invece a influenzare cultura e assetto sociale degli Yaqui, apportandovi profondi cambiamenti. In quel periodo vennero costruite otto chiese, lungo quello che è chiamato Rio Yaqui. Da allora le tribù iniziarono ad abbandonare i villaggi, le “rancherias”, e a vivere vicino a quelle chiese.
Quindi vennero introdotte nuove leggi, credenze religiose, tecniche agricole e regole del comportamento sociale.
Molti Yaqui iniziarono ad apprendere la lingua spagnola, insegnandola a loro volta anche al resto della popolazione.
Pure il cattolicesimo, impartito ai primi convertiti, venne poi divulgato allo stesso modo. E intanto, si mescolava con le credenze tradizionali, generando una nuova religione. I gesuiti cercarono di ostacolare le credenze pagane e i riti tradizionali, ma consapevoli della fierezza della gente nativa, alla fine cedettero, accettando una forma di cattolicesimo alquanto atipico.
All’incirca verso la metà del 1700, i gesuiti furono cacciati a causa delle loro attività tutt’altro che religiose: responsabili dello sfruttamento degli Yoeme, depredavano senza ritegno ricchezze e risorse della loro terra. All’inizio del 1800 ci fu una ribellione anche al dominio messicano e, per quasi un secolo, le guerre continuarono senza sosta. Quando il Messico diventò ancor più potente, nei primi anni del 1900*, sottomise una buona parte degli Yaqui, uccidendone i capi e smembrandone le famiglie. In molti furono relegati nella penisola dello Yucatan, per lavorare come schiavi. Durante questo periodo di lotta, parecchi migrarono al nord, verso lo Stato dell’Arizona, stabilendosi vicino alla città di Tucson, dove fu fondata una riserva.
Malgrado la decadenza del modo di vivere tradizionale, alcune usanze continuano a resistere e una parte delle nuove generazioni abbraccia ancora oggi le credenze originarie.
Nella regione nord-orientale del deserto di Sonora, ora chiamata Valle Imperiale della California del Sud, quando l’acqua dal fiume Colorado fu deviata per irrigare il deserto, al fine di renderlo fertile, sorsero parecchi insediamenti. Sin da quando impararono l’agricoltura molti Hiak si spostarono verso la parte meridionale della California, per lavorare e creare nuove fattorie. E io, Fernando Eros Caro, il 3 dicembre del 1949, sono nato proprio nell’Imperial Valley, la valle del mio popolo Yaqui.
Nota del traduttore. Secondo William C. Sturtevant («Indiani d’America» – Idea libri) l’invasione del territorio e la deportazione iniziarono nel 1880. Gli Yaqui che si rifugiarono in Arizona chiesero e ottennero lo status di rifugiati politici; venne loro concesso il permesso di restare anche dopo che, negli anni Venti, il governo messicano permise loro di tornare in patria.
Fonti bibliografiche
– Muriel Thayer Painter – “Con cuore buono: credenze e cerimonie Yaqui del Pascua Village”.
– Alejandro Eros (mio zio)
– Juan Varela (mio bisnonno)
(*) Il libro «Saai Maso (Fratello Cervo)» è ormai esaurito. Si può ascoltare qualcosa qui: concerto poetico e drammatizzazione teatrale dal libro “SAAI MASO” con la partecipazione dei bambini del centro diurno “Arcobaleno verso casa” di Cave. Come racconta Marco Cinque «la pubblicazione venne fatta da Wicasa, un’associazione di Cave, vicino Roma, che aveva indetto un torneo di calcetto dedicato a Fernando, i cui proventi sono andati proprio a coprire le spese di stampa. Una bella cosa, no? Volendo è possibile ordinarne copie dal sito de ilmiolibro.it, perché ne avevo realizzata anche un’auto-pubblicazione; a questo link http://ilmiolibro. kataweb.it/schedalibro.asp?id=540587». Se cercate altre notizie su Fernando Eros Caro ricordate che qui in “bottega” di lui si è parlato più volte. Fra 7 giorni un altro racconto. (db)
Bellissima e perfettamente intonata con lo scritto di Fernando, l’introduzione di Marco Cinque. Bellissimi i quadri che integrano la poesia del libro.