Ferragni, Foer, Egonu: Sanremo e…

… e la pedagogia dell’iper-individuazione.
di Alessandro Imbriglia
Il festival di Sanremo costituisce un formidabile collettore di sintagmi, costrutti e asserzioni. Questi elementi discorsivi non si collocano in una disposizione casuale, bensì compongono una sintassi scientemente organizzata. La formazione discorsiva (Foucault, 2013) che ne risulta mira a produrre un patrimonio semantico in grado di occupare, ed eventualmente esaurire, il campo di significati dai quali, e attraverso i quali, il soggetto è chiamato a definire e ridefinire la propria e le altrui identità. Per tal motivo, è utile estrarre, dalle forme dominanti dell’industria culturale (Adorno, Horkheimer; 2010), quelle isole discorsive che meglio connotano l’immaginario collettivo contemporaneo.

 

Si parta da un presupposto: rivolgersi a sé come se fosse un altrui sé, non può essere semplicemente derubricato fra gli artifici narrativi convenzionali; pensiamo al monologo o al soliloquio, ad esempio.  La formula argomentativa adottata da Chiara Ferragni al settantatreesimo festival della canzone italiana rivela uno “stato soggettivo”, una posizione dalla quale, e con la quale, ci si colloca nel mondo, stabilendo specifici criteri di relazioni con l’altro e con se stessi. Disporre la  replica immaginaria di un sé infante fra sé e la realtà circostante significa concepire e istituzionalizzare uno stato di alienazione, o, più precisamente, uno stato di autoalienazione: il soggetto si rivolge a sé come se fosse un altro. Il soggetto sdoppia da sé il proprio interlocutore, il quale interlocutore, nel caso specifico, corrisponde al destinatario della propria missiva. Entro tali modalità, il soggetto – come appare nel caso Ferragni – attualizza un sé che non esiste, la cui estroflessione può essere colta e interpretata come un esercizio di adeguamento – una risposta –  allo squilibrio tra identificazione e individuazione contenuto nel proprio stare al mondo. L’identificazione concerne il senso di appartenenza a una comunità, a una famiglia, a uno specifico contesto socio-culturale o alla parziale sovrapposizione di queste differenti collocazioni. Il soggetto riconduce se stesso a uno o molteplici noi. Attraverso l’individuazione, il soggetto seleziona criteri di distinzione dai soggetti altri, nonché dai molteplici noi, identificando, anzitutto, le proprie specificità. Sanremo ha sovraesposto una “tipologia” di soggetto interamente sbilanciata sul secondo elemento di questo binomio.
Assumendo l’esibizione di Chiara Ferragni come caso di studio, è possibile individuare la cifra, nel suo formato spettacolare (Debord, 1990), del borghese nuovo (Bourdieu, 2001), la cui autocoscienza individua e stabilizza la propria fonte di approvvigionamento identitario in un sé conchiuso; tale sé, per esibirsi al mondo, ma senza mai donarsi a esso, ricorre all’artificio di un sé simulato, una proiezione esterna. Questa proiezione funge da supporto, da luogo di raccordo, fra un sé che, da un lato, è fonte del proprio significato esistenziale, e, dall’altro, è destinatario di tale significato. Nel caso preso in analisi, il “supporto” corrisponde, inevitabilmente, al sé bambino. Questa “infrastruttura” è finalizzata all’elusione di un rischio futuro, ma fortemente percepito al tempo presente, che vede il borghese contemporaneo in procinto di collassare su se stesso: il soggetto, in condizione di quasi-isolamento, si concede un margine d’azione vitale, un margine che gli consenta, seppur artificialmente, di uscire da sé e rientrare in sé, evitando di intercettare, in questo andirivieni “autistico”, tipologie e forme di socialità ad esso estranee, nonché concorrenti; quelle forme di socialità che all’io e al me antepongono sistematicamente il noi. La costruzione dell’identità soggettiva entro il binomio identificazione – individuazione, anziché stabilire l’azione e la retroazione tra l’io e il noi, consolida un feedback circolare tra l’io e la sua replica.
Il soggetto non può certamente rinnegare i criteri con i quali definisce, da sempre, se stesso; ciò prevedrebbe la messa in discussione della sua intera condotta di vita, compresi i metodi e gli esiti ad essa correlati. Al fine di scongiurare questo rischio, il soggetto adotta la soluzione opposta: rilancia, scommette, sulla legittimità del proprio approccio identitario e consolida la definizione del proprio sé attraverso una finzione: nel momento in cui la chiusura in sé riduce l’apertura fuori da sé entro una prospettiva estremamente esigua – se non addirittura nulla –  il soggetto, coerentemente al carattere istintuale della propria sopravvivenza, individua il suo “ancoraggio” – la sua salvezza – nel proprio surrogato immaginario. Il soggetto parla a un sé bambino dandogli del tu. Il soggetto produce il proprio surrogato, lo proietta dinnanzi a sé e ne fa il suo interlocutore privilegiato. Il surrogato del soggetto diviene, paradossalmente, la sua più intima e significativa controparte. Si assiste, in un certo qual modo, alla simulazione di un’allucinazione. A caratterizzare il soggetto è quindi una condizione “patologica” che egli stesso non è in grado di riconoscere come tale. In aggiunta, il soggetto produce il proprio adattamento a tale condizione: lo “squilibrio” è rovesciato in una postura virtuosa, emancipatoria, meritevole – a quanto pare –  di essere promossa ed esportata.
Nel caso preso in oggetto, il sé simulato – il supporto esterno – consiste nell’infante che un tempo ero, al quale ci si rivolge proiettandolo dal tempo passato al tempo presente. L’auto-dedica di Ferragni assume specifiche tonalità, sia in termini emotivi, sia in termini concettuali:
    1) Inversione emotiva. «Ciao bimba, ho deciso di scriverti. Ogni volta che penso a te mi viene da piangere. Forse mi manchi. Vorrei poterti fare uscire e farti vedere la mia vita». Il trasporto emotivo dichiarato dall’influencer nei propri confronti capovolge, di fatto, la connotazione semantica che si è soliti assegnare al termine empatia: anziché volgere il sentimento nei confronti di un reale altro, il soggetto, in questo caso, inverte la traiettoria di uno slancio sentimentale verso un soggetto esterno, per destinarlo al proprio sé, come se tale sé fosse un altrui sé, al quale Ferragni deve dare necessariamente del tu.
    2) Sovraccarico motivazionale. «Una cosa mi fa stare male, che in qualunque fase della mia vita c’era un pensiero fisso nella mia testa: non sentirmi abbastanza…quando ho penato qualcosa di negativo, l’ho pensato anche se non lo meriti. Vorrei dirti che sei abbastanza e lo sei sempre stata. Tutte le volte che non ti sei sentita abbastanza bella, intelligente, lo eri». Questo frammento evidenzia un “accanimento” auto-motivazionale, volto probabilmente a compensare un senso di inadeguatezza a lungo irrisolto. Una tale postura lascia intravedere, o quantomeno dedurre, che il soggetto sia in grado di generare e alimentare il proprio moto vitale in piena autonomia, attingendo sempre, e anzitutto, alle proprie esclusive risorse. Il soggetto è implicitamente proposto come se fosse, in un certo qual modo, fonte inesauribile di energie, virtù e motivazioni. Questo “modello” misconosce due fondamentali elementi: il soggetto è naturalmente esposto a “esaurimento”, sia fisico, sia psichico. In secondo luogo, non tutti i singoli individui possono vantare particolari virtù, e, conseguentemente, nutrire aspettative effettivamente realizzabili, poiché esse sono fondate su criteri fallaci, che non colgono lo squilibrio fra risorse soggettive (talento, ambizione e dedizione personali) e risorse oggettive (potere d’acquisto, grado d’istruzione, rete sociale, patrimonio culturale ereditato etc.) di cui il soggetto dispone. Nello specifico, le risorse attivabili, le risorse che definiscono i possibili margini di emancipazione del soggetto, non sono “soggettive”, ma sono prevalentemente oggettive. Esse sono identificabile, come sopraccennato, nel capitale economico, nel capitale sociale e nel capitale culturale che qualificano l’estrazione sociale del singolo individuo (Bourdieu, 2001).
    3) La costruzione intra-individuale del problema. «Le sfide più grandi sono sempre nella nostra testa…la sfida più grande è dentro te stessa. Abbiamo tutti la scritta fragile sulla nostra pelle». Questo passaggio argomentativo individua l’agone “politico”, il luogo del conflitto, nella sfera intima del soggetto, al proprio interno, omettendo di sana pianta il luogo reale nel quale ha senso – in vista di una vera emancipazione – generare e alimentare il conflitto. Il luogo vero corrisponde alla società, e, con esattezza, al luogo specifico della produzione. La sfera dell’intimo, che inevitabilmente si conferma campo di insidie e tensioni, parrebbe esaurire – nella complessiva narrazione di Ferragni – l’intero spazio entro il quale il soggetto è chiamato a concepire, affrontare e vincere le proprie sfide. Questo genere di riduzionismo traccia il perimetro in cui collocare la succitata “sfida”, e, nella sostanza, distrae e devia il soggetto dal luogo in cui si gioca la propria reale emancipazione, luogo che non corrisponde certamente alla propria dimensione intra-individuale, bensì a un luogo sovra-individuale, collettivo. Questo luogo, invero, implica necessariamente la collocazione di classe.
Tracce di alcuni fra gli elementi suindicati sono individuabili nelle parole pronunciate da Paola Egonu, al festival di Sanremo 2023: «…poi sono diventata grande e i perché sono continuati: perché mi sento diversa? Perché vivo questa cosa come se fosse una colpa? Perché mi sono punita dando una versione sbagliata di me stessa? Col tempo ho capito che questa mia diversità è la mia unicità. Alla domanda ‘perché  io sono io?’ c’è già la risposta: perché io..sono io!…».
Appare evidente, da questo estratto, la struttura tautologica dell’intero costrutto, nonché la fonte di significato alla quale si riconduce, senza mezzi termini o possibilità di alternative, la definizione identitaria del soggetto. È questo l’esempio emblematico delle modalità entro le quali il soggetto contemporaneo si ostina a enfatizzare, in dosi sempre più elevate, la propria specificità, evidenziandone (implicitamente) l’assoluta primazia, rispetto a fonti di significato collettive, sovra-individuali. Il sé, per attribuirsi un significato, continua a molestare se stesso; esso non si concede tregua.
Volgendo lo sguardo alla precedente edizione del festival di Sanremo, si noterà la piena compatibilità dei discorsi proposti da Ferragni ed Egonu con il monologo di Drusilla Foer nel 2022. È utile, in questa sede, riportarne un passaggio. Afferma Foer:
«Non è affatto facile! Sì, entrare in contatto con la propria unicità; un lavoro pazzesco. Come si fa? Come si fa a tenere insieme tutte queste cose che ci compongono? Allora, io un modo ce l’avrei: si prendono per mano tutte le cose che ci abitano: quelle belle, quelle che pensiamo essere brutte e si portano in alto. Si sollevano insieme a noi…e gridiamo: che bellezza!! Tutte queste cose sono io. Sarà una figata pazzesca! E sarà bellissimo abbracciare la nostra unicità. E a quel punto – io credo – che sarà anche più probabile aprirsi all’unicità dell’altro ed uscire da questo stato di conflitto che ci allontana».
Il monologo di Egonu e l’auto-dedica di Ferragni si collocano inevitabilmente in questo campo semantico, esasperandone lo stile e il contenuto autoreferenziale. La fashion blogger si spinge sino al punto in cui è legittimo riabilitare una sé bambina. In questo sforzo, l’accentramento cognitivo e il coinvolgimento emotivo nel proprio sé è talmente intenso, e a tal punto irreversibile, da prevedere l’estrazione di un interlocutore artificiale; tale interlocutore corrisponde quindi al proprio sé, un sé ravvivato entro sembianze simulate. Si tratta – in definitiva – di un sé estrapolato da un passato remoto e virtualizzato al tempo presente.
Osservato ciò, si comprenderà l’urgenza di fornire risposta a un quesito ormai ineludibile: quanto ancora il soggetto potrà invadere e attingere al proprio esclusivo sé prima di esaurire – in via definitiva – qualsivoglia fonte di significato esistenziale e dunque personale? In realtà, la formulazione di tale specifico problema potrebbe giungere in evidente ritardo, giacché qualcuno ha già provveduto – il caso Ferragni lo conferma – a fornire una soluzione paradossalmente soddisfacente al problema sollevato: attraverso la personificazione di simulacri (Baudrillard, 1994) riconducibili a un sé precedentemente esistito, le cui applicazioni e i cui effetti sembrano eguagliare le applicazioni e gli effetti dei sé reali  (i soggetti in carne e ossa), l’assenza dei sé reali pare ampiamente colmata. La sparizione di colui o colei che è realmente altro da me trova la propria compensazione nella produzione di un sé virtualmente surrogato, il quale – nel caso Ferragni – corrisponde al sé infante. In quest’ottica, i sé reali, i sé comprensivi della propria originaria corporeità, sono destinati a perdere la propria esclusività e la propria centralità nel mondo della relazione. L’altro inteso come soggetto altro da me inizia a cedere, via via, un requisito che sino a ieri pareva ineliminabile e certamente non barattabile: la sua necessità.
A confermare questo mutamento interviene un’ulteriore forma di compensazione: la collocazione del sé reale – il sé originario e corporeo che è realmente altro da me – avrà probabilmente luogo in quell’assortimento estremamente composito definito metaverso. In questo “luogo” la conservazione dei sé reali dipenderà dalla loro capacità di concorrere con l’infinita molteplicità di avatar e ologrammi disponibili. Entro questo spazio i sé reali si riveleranno nient’altro che “opzioni” suscettibili di “inapplicabilità” o “obsolescenza”, elementi selezionabili e sostituibili, sempre a seconda dei gusti, delle velleità e dei desideri individuali.
Bibliografia
Adorno T. W., Horkheimer M. (2010), Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino [prima ed. orig. 1947]
Baudrillard J. (1994), Simulacra and simulation, University of Michigan Press [prima ed. orig. 1981]
Bourdieu P. (2001), La distinzione: critica sociale del gusto, Il Mulino [prima ed. orig. 1979]
Debord G. E. (1990), Commentari della società dello spettacolo, Sugarco, Milano [ed. orig. 1967]
Foucault M. (2013), L’archeologia del sapere, Bur [prima ed. orig. 1969]
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