Filip David: il male non può vincere

Intervista di Božidar Stanišić (*)

FilipDavid

Lo scrittore serbo e jugoslavo Filip David (Kragujevac, 1940) è noto come autore di raccolte di racconti: «Bunar u tamnoj šumi» (“Il pozzo nella foresta scura”), «Zapisi o stvarnom i nestvarnom» (”Annotazioni sul reale e sull’irreale”), «Princ vatre» (”Il principe del fuoco”, Zandonai editore 2009); romanzi: «Hodočasnici neba i zemlje» (“Pellegrini del cielo e della terra”) e «San o ljubavi i smrti» (”Un sogno sull’amore e sulla morte”); raccolte di saggi: «Fragmenti iz mračnih vremena» (“Frammenti di tempi tenebrosi”), ”Jesmo li čudovišta” («Siamo mostri?»), ”Svetovi u haosu” («Mondi nel caos»), ”Knjiga pisama 1992-1995” («Lettere 1992-1995», pubblicate assieme a Mirko Kovač) nonché come drammaturgo, co-sceneggiatore e sceneggiatore, coinvolto fra l’altro nella realizzazione dei seguenti film: «Okupacija u 26 slika», «Pad Italije», «Ko to tamo peva», «Bure baruta» (“La polveriera”, vincitore del premio della critica alla Mostra del Cinema di Venezia 1998 e del Prix Fipresci dell’Accademia Europea del Cinema), «Poseban tretman» (“Trattamento speciale”, premiato a Cannes), «Paviljon 6», «San zimske noći» (“Sogno di una notte di mezzo inverno”, vincitore del premio Signis al Festival di San Sebastian), «Optimisti» (“Gli ottimisti”, premiato a Valladolid e Ginevra).

I suoi libri sono tradotti in diverse lingue (svedese, francese, polacco, ungherese, italiano, albanese, esperanto, macedone, sloveno), mentre i suoi racconti sono apparsi in una ventina di antologie.

La casa della memoria e dell’oblio

«Quando, e come, Urijel era divenuto un ebreo? Era un interrogativo che in seguito, molto più tardi, lo stesso Urijel, Uri, come lo chiamavano i suoi pochi amici, continuava a porre a se stesso. Sua madre non nominava mai l’ebraicità, né i genitori di lei, morti tragicamente, l’avevano educata nello spirito della tradizione ebraica. Non la portavano in sinagoga, anzi, in tutto e per tutto, e loro stessi ne erano convinti, erano più serbi che ebrei. Si consideravano assimilati, come serbi “di fede mosaica”.

E quel “di fede mosaica” era un tratto facoltativo di una differenza che era sì esistita, ma ora si era persa, piuttosto che una definizione essenziale o una distinzione religiosa. L’antisemitismo che si manifestava qua e là non li toccava, era un problema degli antisemiti, non loro. Avevano dimenticato sia lo spagnolo “ladino”, sia lo yiddish parlati ancora dalle generazioni precedenti, e i ricordi del passato erano molto vaghi, ormai smarriti e affondati nelle profondità dei tempi andati. Si era persa perfino la solidarietà con gli ebrei che fuggivano da alcuni paesi europei sotto la spinta delle persecuzioni.

Eugen e Roza non avevano mai considerato la Palestina come una patria, e men che meno avevano mai pensato di sostenere le idee sioniste. Semplicemente, erano convinti di essere diventati serbi al cento per cento. Il fatto di essere stati registrati, all’inizio dell’occupazione, come ebrei, e costretti a forza a lavorare nell’ospedale ebraico, rappresentava per loro un vero shock e un grande equivoco. La loro inesistente, persa, “ebraicità” gli si legò come un cappio attorno al collo. Malgrado tutto, erano di nuovo diventati ebrei, perché gli altri li vedevano come tali. Infine la pagarono con la vita.

Urijel era un ebreo solo perché gli altri lo vedevano ebreo. Non perché Eliza lo avesse educato così, anzi, aveva fatto tutto il contrario. Provava rabbia e odio nei confronti della propria origine. Quell’appartenenza, l’appartenenza a un popolo maledetto, era la causa di tutte le sue grandi sofferenze e disgrazie, le aveva ucciso i genitori, e rappresentava una minaccia per suo figlio. Un figlio che era la sua condanna, il suo legame inscindibile con un terribile passato, ma anche il suo amore più profondo». (dal romanzo «La casa della memoria e dell’oblio – Kuća sećanja i zaborava» di Filip David, traduzione dal serbo: Alice Parmeggiani)

Fu tra i fondatori dell’Associazione degli scrittori indipendenti, nata a Sarajevo nel 1989 con l’idea di radunare grandi scrittori dell’intera area jugoslava. In seguito partecipò alla creazione dell’associazione degli intellettuali indipendenti «Circolo di Belgrado» (1990) e del «Forum degli scrittori», ed è uno dei membri dell’associazione internazionale «Gruppo 99», creata nel 1999 alla Fiera del libro di Francoforte.

Per il romanzo «Kuća sećanja i zaborava» (”La casa della memoria e dell’oblio”), pubblicato nel 2014 per i tipi della casa editrice belgradese Laguna, viene insignito del premio Nin, un tempo il più prestigioso riconoscimento letterario nel panorama jugoslavo, dal 1992 destinato al miglior romanzo in lingua serba. Ne è seguito un vero e proprio miracolo editoriale, quale non si era visto ormai da molti anni né in Serbia né nella regione: nei soli primi due mesi di quest’anno, l’ultimo romanzo di David ha venduto 15.000 copie, sicché Laguna sta già preparando una ristampa di altre 30.000 copie.

Suppongo che anche lei trovi opportuno iniziare questa conversazione su «La casa della memoria e dell’oblio» parlando del suo intento, alla fine non realizzato, di assegnare a questo libro il sottotitolo “Romanzo sul male”.

«A dire il vero, la mia intenzione iniziale era quella di raccontare, attraverso una serie di destini individuali, la realtà dell’Olocausto in Serbia, ancora poco conosciuta, ma infine rinunciai a quell’idea, rendendomi conto che tale compito spettava agli storici. Poi, a un certo punto, scelsi come sottotitolo “Romanzo sul male” (un sintagma) che però mi parve subito pretenzioso. Alla fine credo di essere riuscito, narrando i destini umani, a toccare anche il tema dell’Olocausto e del male che seminò, ma soprattutto a raccontare la tragedia, la sfortuna di coloro che hanno vissuto o vivono tuttora in tempi bui. Le loro storie si assomigliano solo all’apparenza poiché in essenza sono molto diverse, così come ogni individuo è diverso da un altro».

Ho avuto la sensazione che questo libro rappresentasse una sintesi del suo intero opus narrativo e saggistico, ma in primis una specie di “seguito” del suo romanzo precedente «Il sogno sull’amore e sulla morte». Ritiene giustificata la percezione del lettore che vede collocata «La casa della memoria e dell’oblio» nella stessa dimensione semantica, anzitutto come risposta a uno degli interrogativi cruciali sull’assurdità dell’oblio, dal quale il seme del male sembra poter nascere senza molta difficoltà?

«Nel caso del mio ultimo romanzo, la critica ha legittimamente messo in evidenza un punto di cui prima non mi rendevo conto, e cioè il fatto che il motivo del male attraversa come un filo rosso tutti i miei racconti e romanzi: un tema trattato nei suoi aspetti teologici, mistici, esistenziali, come un male onnipresente, possente, spesso anche prevalente, tuttavia mai vincitore definitivo né universale».

Oltre a essere soprattutto una storia convincente, il suo ultimo romanzo è anche un autentico dibattito sul male, sul suo potere e fascino, un dibattito in cui è possibile riscontrare una replica alla tesi arendtiana della “banalità del male” che a molti, credo, potrebbe sembrare inaspettata.

«Non condivido la tesi che considera il male come “qualcosa di fatuo, superficiale, banale”, qualcosa che le istituzioni del sistema sono in grado di affrontare. Hannah Arendt giunse a tale conclusione dopo aver assistito al processo ad Adolf Eichmann svoltosi a Gerusalemme, a seguito del quale pubblicò il libro La banalità del male. La Arendt era terrorizzata dall’idea di un “male radicale”, dalla possibilità che un male come quello dell’Olocausto potesse ripetersi in forme diverse, e la tesi della “banalità” del male le permise, come dichiarò lei stessa, di “dormire serenamente”. Ma ecco, dopo tanti anni dal processo ad Eichmann, i genocidi continuano ad accadere, fomentati da ragioni di natura politica, etnica, razziale. E in più lo stesso Eichmann, come venne dimostrato in seguito, non era un semplice “burocrate della morte”, qualcuno che si limitava a eseguire gli ordini altrui, bensì un attivo partecipante nell’ideazione dei crimini e nella supervisione della loro attuazione. La storia dell’umanità è in gran parte basata su crimini e stermini di interi popoli, e dal processo ad Eichmann in poi molti nuovi genocidi sono accaduti e accadono tuttora in tutto il mondo».

Ora sembra certo che nel periodo della realizzazione del film «Quando arriva il giorno», di cui lei aveva curato la sceneggiatura insieme al regista Goran Paskaljević, stesse già lavorando al romanzo «La casa della memoria e dell’oblio», dato che il titolo e il protagonista del decimo capitolo sono gli stessi della summenzionata opera cinematografica (presentata al pubblico italiano al Festival Internazionale del Cinema di Terni 2013 al quale vinse il Grand Prix). In quel capitolo, così come nel film, Miša Brankov, professore di musica in pensione, scopre inaspettatamente le sue vere origini grazie a una scatola contenente documenti, ritrovata per caso durante i lavori nell’area in passato occupata dallo Judenlager Semlin, lager belgradese destinato agli ebrei. Quella scatola, sepolta nel lontano 1941 da Isak Vajs, il vero padre di Miša, conteneva anche una partitura incompiuta dal titolo «Quando arriva il giorno». Mi perdoni la domanda indiscreta: le dispiace se qualcuno ritiene che il film sia semanticamente più complesso rispetto al corrispondente capitolo del libro?

«E perché dovrebbe dispiacermi? Lo sceneggiatore e l’autore del romanzo sono, in questo caso, la stessa persona. Certo, vi sono differenze nella descrizione dello stesso evento, e sono comprensibili perché la drammaturgia dell’espressione cinematografica va distinta da quella della prosa narrativa. Il film è focalizzato su un particolare destino, quello del professore di musica che dopo molti anni viene a conoscenza dell’autentica verità sulla propria identità, mentre nel romanzo diversi destini vengono incrociati e interconnessi all’interno di una struttura narrativa più complessa. Si tratta dunque di due diversi mezzi di espressione, di diverse drammaturgie. Inoltre, l’autore principale di un film è sempre il regista, al servizio del quale lavorano lo sceneggiatore e tutti gli altri partecipanti al progetto (attori, costumista, scenografo, collaboratore musicale, organizzatore) dal cui operato dipende il successo dell’esito finale. Per quanto riguarda invece la narrativa letteraria, l’autore sta sempre da solo davanti al suo pubblico, come l’unico responsabile del successo o dell’insuccesso della propria opera».

Dopo aver scoperto la verità sulle proprie origini e sul destino dei suoi veri genitori, Miša, cresciuto come figlio adottivo della famiglia Brankov, disse a suo “fratello”: «Kole, perché non me l’hai detto?». E suo “fratello” rispose: «Perché tu sei mio fratello, lo sei sempre stato. Ti accettai come fratello dal giorno in cui mamma e papà ti portarono a casa dicendomi: “Kole, questo è tuo fratello”…». In che misura questo esempio di umanità può essere considerato un contrappeso al potere del male?

«In tutte le epoche, anche in quelle più buie, esistono i cosiddetti “giusti”, pronti a sacrificare persino se stessi per salvare e proteggere gli altri. Così i coniugi Brankov accolsero un bambino ebreo i cui genitori furono deportati ad Auschwitz, lo protessero e crebbero come se fosse figlio loro. Proprio grazie all’esistenza di questi giusti, nel mondo viene mantenuto l’equilibrio fra bene e male, sicché quest’ultimo, per quanto potente e onnipresente, non riesce a conseguire una vittoria definitiva».

Conversando con Mirko Kovač poco prima della sua scomparsa, siete giunti alla conclusione che ciò che rimarrà a custodire le testimonianze del tempo in cui avete vissuto saranno i libri. Quindi, innanzitutto libri, nonostante tutto ciò che ci circonda e che ci portiamo dentro?

«La storia viva del mondo è preservata nei libri: i tempi che ci hanno preceduto ma, ne sono convinto, anche quelli attuali e futuri. I libri conservano viva la memoria dei destini individuali, custodiscono il passato, il ricordo di vite umane, di gioie, sofferenze, tragedie, di regimi e politiche, sia buoni che cattivi, di catastrofi elementari e quelle provocate da avidità, odio, crudeltà e stupidità dell’uomo. Tutto ciò trova il suo spazio tra le copertine dei libri, dove gli storici scrivono di storia mentre gli scrittori narrano la vita quotidiana svoltasi entro una determinata cornice storica. Nonostante tutte le prognosi pessimistiche relative alla diffusione di nuove tecnologie, credo che il libro sopravvivrà, in una forma o nell’altra, perché la narrazione – orale o scritta, attraverso parole o immagini – esiste da quando esiste il mondo, e l’uomo ne avrà sempre bisogno».

Per concludere questa conversazione, le chiedo qualche parola sul male del nostro tempo, sia nella società serba che nel contesto regionale, europeo e mondiale. E naturalmente, sul bene e sulle speranze.

«Viviamo in tempi instabili, esplosivi, pieni di tensioni razziali, religiose, etniche e di classe, in tempi in cui tutto è possibile, dai conflitti economici e sociali allo “scontro di civiltà”, in cui le problematiche ambientali e culturali diventano sempre più complesse. Quello che preoccupa di più in un mondo pervaso da tensioni sempre più acute fra le parti contrapposte è l’inesistenza di alternative chiare e sostenibili. Un mondo sopraffatto da così tanti problemi e privo di qualsiasi alternativa visibile, soprattutto nell’ambito sociale ed economico, suscita una seria preoccupazione, persino angoscia, per la sorte dell’umanità odierna ma anche di quella futura, per la vita delle generazioni attuali e di quelle che verranno».

(*) Testo ripreso da «Osservatorio Balcani e Caucaso» (http://www.balcanicaucaso.org).

Filip David – vincitore nel 2014 del prestigioso premio letterario serbo Nin (con il romanzo «La casa della memoria e dell’oblio») – è uno degli scrittori serbi più noti all’estero.

 

Redazione
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3 commenti

  • Francesco Masala

    adesso conosco Filip David, ma già lo conoscevo, senza saperlo, per aver lavorato con Goran Paskaljević.
    adesso leggerò qualcosa, sembra uno bravo, di sostanza.

    • caro francesco,
      spero che una casa editrice trovi delle ragioni per la pubblicazione
      de “La casa del ricordo e obblio” di filip david… quindi, ci spero.
      un dettaglio che non è stato inserito nella mia presentazione del profilo di
      david sia nell’intervista, che nella prefazione dei suoi racconti
      “il principe del fuoco” (curati da me, alcuni anni fa) tradotti in
      lingua italiana da alice parmeggiani, è la sua umiltà.
      un episodio, in breve: negli anni ottanta ho scritto un saggio su
      questa sua opera e in un occasione l’avevo visitato a belgrado, senza
      preavviso, in via takovska 10 – sede della tv belgrado.
      filip allora aveva un alto
      ruolo nella redazione, io ero uno di numerosi critici – giovane e sconosciuto.
      filip alloro mi ha ricevuto non facendo problema della telefonata
      mancata, si è fermato con me non guardando all’orologio.
      tempi diversi, persona diversa?
      lascio (anche) a te la risposta. ma la domanda sarebbe: se
      qualcuno, nei tempi odierni, provi a contattare “qualcuno”
      delle redazioni tv in italia e altrove, con o senza preavviso,
      che cosa sentirà?
      con saluti, bs

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