Fra i banchi, fra le cineprese, fra i gorghi delle leggi

Una serata a Imola: per vedere «La mia classe» e chiacchierare con il regista Daniele Gaglianone (*) 

Il cinema Don Fiorentini di Imola ha proposto «La mia classe», film davvero fuori dal comune (per contenuti e forme) e ha portato il regista, Daniele Gaglianone, a incontrare il pubblico. Sarà pur vero che siamo nell’epoca liquida, dell’autismo tecnologico e del declino degli incontri pubblici… ma molte e molti invece scoprono (o ritrovano) il bisogno di vedersi in faccia e discutere: evviva a chi offre questa possibilità.

Più che una intervista questa è la rigorosa – cioè da lui controllata – registrazione di quanto Gaglianone ha raccontato lunedì in due fasi. All’inizio, cioè prima del film, poche parole, con il figlio in spalla; al termine del film rispondendo alle domande, sempre con il bimbo che ora dormicchiava (chi ha detto che i bimbi non russano?) e ora sembrava chiedersi chi fosse tutta quella gente sconosciuta.

«E’ un film strano da raccontare» esordisce il regista: «Semplice, immediato eppure anomalo, complesso. Anche lo spettatore si trova in un ruolo insolito come del resto è successo a noi, girando il film. E’ un piccolo miracolo».

«Il film è distribuito dalla Pablo e io lo accompagno spesso. Ne siamo orgogliosi… La distribuzione in Italia è sottoposta a regole, scritte e non scritte, spesso sgradevoli: i soldi sono un problema e per questo ci distribuiamo da soli. Così il film gira a macchia di leopardo, cioè dove ci chiamano o riusciamo a organizzare. Per fortuna anche nelle scuole. C’è un po’ di amarezza nel pensare che avrebbe potuto circolare di più se lo scontro con la distribuzione ufficiale fosse stato ad armi pari, cioè in un mercato vero».

Inizia la proiezione. Divertente e leggera la prima parte, più complessa la seconda anche perché la finzione e la realtà in alcuni passaggi si avvincono come se lottassero: sarebbe sbagliato rivelare troppo della trama, come purtroppo le recensioni cinematografiche fanno spesso, ma qualcosa si intuirà anche qui dalla discussione fra regista e pubblico.

Quando si riaccendono le luci praticamente nessuno va via, segno evidente che c’è voglia di discutere. Gaglianone fa subito i conti con il nodo vero-falso. «Nella seconda parte del film l’imprevisto della finzione, cioè la nostra sceneggiatura, diventa realtà e ci troviamo davvero di fronte alla questione più spinosa: tutelare le persone ed essere coerenti con le nostre idee oppure rispettare le leggi?».

Alla domanda su quanto l’irruzione della realtà (cioè il ritiro del permesso di soggiorno a uno degli studenti-attori) fosse prevista, il regista risponde così: «In realtà il conflitto lo abbiamo vissuto prima. All’inizio il professore è “finto” e la classe è “vera”. Ci eravamo immaginati alcuni sviluppi, per esempio che a Issa fosse revocato il permesso obbligandolo a tornare in Costa D’Avorio e che la sua risposta fosse “Mi faccio morto da solo”. Ed è invece quello che nella finzione filmica accade al ragazzo egiziano. Ci ha fatto cambiare… film che proprio Issa si ritrovasse senza permesso. Per tutti noi un bello choc, come prendere uno schiaffone in faccia all’improvviso. Lì per lì ci siamo disperati, quasi non ci interessava più fare il film. Erano 6 mesi che lavoravamo con Issa e ora dovevamo dirgli “basta”? Ne discutiamo: che si fa? Lasciamo perdere? O facciamo i secondini? La legislazione è pazzesca, lo sapete. E vi faccio un esempio nella “nostra” classe: la ragazza iraniana non può lavorare perché ha un permesso di studio ma tutti sanno che per mantenersi lavora in nero. Ecco, dentro questa generalizzata pazzia, noi potevamo metterci “una pezza” come si dice a Roma, cioè accordarci sotto banco per salvare il film previsto ma invece si è deciso che era giusto mostrare e raccontare il “casino”. Voi sapete che i permessi di “protezione umanitaria” sono un surrogato dell’asilo politico e dunque se un ivoriano come Issa fugge dal Paese mentre c’è una guerra civile viene accolto, però se poi la situazione “migliora” (o così si crede) deve tornare a casa; ma è ben difficile che un ragazzo al quale hanno sterminato la famiglia possa vivere in quel Paese… Noi potevamo insomma trovare un finale “buonista” anche veritiero ma alla fine abbiamo deciso che nel film avremmo fatto i “cattivi”, cioè quelli che obbediscono a una legge pur sapendola ingiusta, insomma che avremmo sbattuto Issa fuori dalla classe per non rischiare guai… Dunque non avremmo agito in coerenza con le nostre idee. Ma allora quanto valgono queste idee? Così un ragazzo bengalese dice a Valerio Mastandrea: “Tu nel film fai il professore buono, poi nella realtà ti comporti diversamente”. Tutte le battute a questo punto sono vere: cioè “la classe” dice quel che pensa… se davvero noi avessimo escluso uno di loro. Anche Valerio in un certo senso non è più il maestro ma torna a essere lui».

Districandosi fra una domanda e l’altra ma sempre con un paio di occhi e mani in più per il bambino, ecco quanto Gaglianone ha detto con appassionata incertezza: non è un ossimoro, è evidente che il regista cerca di vedere tutta la complessa realtà ma alla fine non si fa paralizzare dai diversi punti di vista, sceglie da che parte stare; come essere umano prima che come artista.

«Ho chiesto alla “classe” di ignorare la macchina da presa e “il film nel film” che pure erano così evidenti. Loro sono stati bravissimi nel riuscirci. Se nella rappresentazione cinematografica noi avessimo risolto il vero imprevisto in modo consolatorio facevamo tutti bella figura. Invece ci siamo calati dentro la contraddizione che non è solo del cinema ma della vita: che responsabilità ognuno di noi deve prendersi in una società dove alcune regole ci fanno schifo? Non è solo una questione che riguarda le migrazioni. Molti sanno che i Cie sono una galera, nonostante il nome, e che è doppiamente ingiusto stare chiusi lì senza arrivare a un processo. Accettando cose del genere dovremmo chiederci se dietro l’angolo non ci sia già la Gestapo. A un certo punto del film ci siamo sentiti “inutili”: se non reagiamo a che serve essere in disaccordo? Certamente è un film sulle migrazioni e sull’integrazione ma è anche la storia della nostra difficoltà ad adattarci a una società in rapidissimo cambiamento. Chi emigra ha spesso (non bisogna generalizzare) una forza che noi non abbiamo».

A proposito del titolo Gaglianone dà una risposta veloce: «Era quello sin dall’inizio però a me non piaceva, io avrei preferito “Lezioni d’italiano”. Ho ceduto e adesso mi convince».

Due del pubblico chiedono come finisce, nel mondo reale, la vicenda di Issa. «Lo spettatore vedendolo all’inizio pensa: questa è la trama mentre quest’altra è la realtà. Nella seconda parte tutto però si complica. E’ chiaro che il suicidio del ragazzo egiziano è finzione…. ma cosa c’entra la storia del cane che Valerio racconta alla fine? E perché i poliziotti (sono attori, chi lo vede ne è quasi sicuro) arrestano Issa? Il nostro film vuole essere una domanda». E ancora: «Nella realtà il ragazzo egiziano era a posto. Ma diventa clandestino perché lavora in nero. Issa invece lo abbiamo aiutato a districarsi e grazie gli avvocati ora lui aspetta il rinnovo. La decisione che lo riguarda viene rimandata di continuo ma per ora Issa è a posto, è già un risultato».

Sulla scelta della “classe” Gaglianone risponde: «All’inizio per farci un’idea abbiamo girato varie scuole, soprattutto associazioni e centri sociali, non le scuole normali per ovvii motivi. Ci siamo calati nella realtà pur se l’idea-base veniva anche da Claudia Russo che ha davvero insegnato in corsi simili e dunque aveva un’esperienza. Nel nostro peregrinare abbiamo avuto confidenza o empatia con alcune persone. Uno dei bengalesi a esempio, quello con il codino, ha scelto noi subito. Comunque il gruppo era quello fin quasi dall’inizio. “Come mai non c’è un cinese?” mi ha chiesto un amico. Beh perché non cercavamo bandiere ma persone. Ci sono tre bengalesi e tre curdi perché questo è l’incontro di storie non il dossier statistico Caritas. Per la stessa ragione nessuno avrebbe pensato a un brasiliano eppure lo abbiamo incontrato. Nel film all’inizio non ci sono i vissuti delle persone ma un po’ alla volta li conosciamo e così loro diventano i nostri “compagni di banco”, non sono più numeri. Sappiamo molto di piazza Tahir e delle persone ammazzate lì ma è diverso se proprio quel tuo compagno di banco ti racconta del suo amico ucciso da una pallottola dei cecchini di Mubarak. Immaginiamo e abbiamo forse letto le dolorose, tragiche traversate del deserto ma quel che racconta Easther è drammaticissimo anche perché noi ormai la conosciamo. E’ un nostro amico, cioè Mamhood, e non un immigrato qualsiasi a raccontarci che da 8 anni non vede la famiglia e scoppia a piangere».

«Una lunga preparazione ma poi le riprese le abbiamo dovute fare in soli 14 giorni, per molti motivi soprattutto economici. Di solito nei film c’è un lieto fine, qui no e quando discutiamo anche nelle scuole quasi tutti capiscono il perché. Per me queste storie ci interrogano sul futuro che non è mai scritto, immutabile. Cosa sappiamo dei nostri diritti di italiani fra 10 anni, li avremo ancora? Già oggi tanti nati in Italia scappano all’estero. E se io fossi andato, che so nel 1975, a Mosca e avessi detto ad alcune donne che 20 anni dopo loro o le figlie per sopravvivere avrebbero dovuto prostituirsi in Occidente credo che mi avrebbero detto “sei scemo?”. C’è una grande confusione ovunque. Pensiamo all’ultimo referendum svizzero sulla libera circolazione: il 50,3% ha detto no ma la vittoria è arrivata perché nel ticinese la percentuale era del 68. Insomma contro i migranti (non africani ma perlopiù lombardi e piemontesi) hanno votato i ticinesi che sono italiani. Italiani contro italiani, leghisti contro leghisti».

Fra gli interventi, tutti molto partecipati, c’è anche quello di un ragazzo che viene da Santo Domingo: «mi aspettavo anch’io un finale e lì per lì son rimasto male a non trovarlo ma poi ho capito la vostra scelta. E poi si vede che non vi interessava fare business e di questo vi ringrazio».

Gaglianone sorride. Subito arriva un’altra domanda sulle oscillazioni di Mastandrea e il regista replica così: «Il maestro all’inizio è simpatico ma in fondo è indifferente alla classe. Quando però scopre di essere ammalato tutto cambia. Succede a lui quello che potrebbe succedere a chi guarda il film. Non è più un professore ma una persona come quelli della classe che cominciano ad avere un nome, una storia. In fondo è così semplice. Se dalla piazza che frequentiamo sparisce uno, mettiamo un venditore di calze, pur se ce ne accorgiamo non ci facciamo domande; però se abbiamo l’abitudine di parlare con lui, se lo conosciamo allora vogliamo sapere dove è finito, perché».

Una bella serata di discussioni e prima ancora di grande cinema sia per l’impegno civile che per la capacità tecnica di mostrare “il film nel film” senza far diventare la storia vera un saggio o una esercitazione. Quest’anno a Venezia era l’unico film italiano alle “Giornate degli autori”. Di certo è una delle migliori pellicole di questi tempi incerti e impauriti.

(*) Questa mia “chiacchierata” è anche in «Corriere delle migrazioni» (db).

 

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