G20 e Cop26, il solito bla bla bla
articoli di Nicoletta Dentico, Loretta Napoleoni, Olivier Turquet, Susanna De Guio, Giorgio Salerno
Un global flop, da Roma a Glasgow – Nicoletta Dentico
Capita raramente di assistere a una sequenza di eventi globali così incalzanti da costringere i governi a metterci la faccia, per rispondere alla pressione dell’opinione pubblica mobilitata per le strade, e non solo alle ragioni talora oscure della geopolitica. Impegnati senza soluzione di continuità tra il summit conclusivo del G20 e la storica COP26 in corso a Glasgow, i leader della comunità internazionale, in un certo senso, non hanno scampo.
Al summit di Roma, evento conclusivo della presidenza italiana del G20, i capi di Stato e di governo ci sono arrivati stremati dalle assenze annunciate di Russia e Cina e dalle profonde divisioni interne, e fino all’ultimo sono stati imbrigliati nel negoziato, per atterrare con difficoltà sul terreno comune di una dichiarazione finale dopo mesi di impegni vacui e una retorica sempre più lontana dalla realtà. Dal canto suo, la diplomazia italiana era pronta a inventarsi qualunque escamotage pur di dare l’impressione di aver lasciato un segno di successo diplomatico sul fronte della lotta alla pandemia e del cambiamento climatico. Francamente non è successo, nonostante il giudizio della stampa nostrana che ha raccontato il G20 come un’inversione di tendenza nella storia del multilateralismo, il ritorno simbolico sulla scena di un know-how tutto italiano in grado di convincere e raccordare posizioni molto divergenti. Arroccata sulla propaganda di pompose epocali decisioni, la stampa italiana, ben diversamente da quella straniera, ha operato un autentico travisamento della realtà, un travisamento privo di sensatezza perché induce al contrappunto di un’opinione pubblica sempre più cinica, disillusa di trovare risposte nell’autismo della politica.
Gli appuntamenti del G20 e della COP26 segnano del resto solo una prima fase di settimane incandescenti e decisive per la definizione degli scenari futuri del mondo, dopo due anni di pandemia. La partita si gioca su più tavoli, distinti ma dialoganti tra loro, perché se c’è una cosa che COVID-19 ha insegnato al mondo è l’interconnessione non solo tra le persone e i popoli, ma anche tra i loro problemi.
All’Organizzazione Mondiale del Commercio (Omc) non si sono mai interrotti i negoziati per cercare una ostica mediazione sulla proposta di sospensione dei diritti di proprietà intellettuale (TRIPS Waiver) che India e Sudafrica hanno presentato un anno fa per liberare l’accesso alla conoscenza farmaceutica e ampliare la capacità di produzione dei rimedi contro COVID-19, vaccini e non solo; in vista della dodicesima conferenza ministeriale di fine novembre, la persistente reticenza europea a questa proposta mette a dura prova il multilateralismo commerciale a Ginevra. Pure all’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) c’è una certa fibrillazione da quando si sono accesi i motori della diplomazia internazionale sulla proposta di un trattato pandemico, sospinto dall’Unione Europea, con l’intento di stabilire regole vincolanti per rispondere alle pandemie del futuro. Il trattato pandemico sarà oggetto di una sessione speciale della Assemblea dell’Oms a fine di novembre, sempre a Ginevra. Si tratta di percorsi diplomatici concomitanti e ad alta intensità: analisti molto accreditati ritengono infatti che gli slanci della UE a favore del trattato pandemico all’Oms siano una mossa diversiva rispetto alla moratoria temporanea della proprietà intellettuale che Bruxelles continua ostinatamente a bloccare.
Finanza, clima, salute: su questi temi, il consesso del G20 era improrogabilmente chiamato a dare un forte segnale, anche perché racchiude l’80% delle emissioni di CO2. La speranza era che, nella interazione tra pochi governi, si potessero recidere, con visioni aderenti alla realtà e finanziamenti vincolanti, i nodi gordiani che dall’inizio della crisi pandemica mettono a dura prova il multilateralismo. Impreparato ad affrontare l’arrivo del virus, e oggi incapace di trovare una convergenza efficace almeno sul terreno dell’emergenza sanitaria e climatica, le due facce dello stesso fallimento di modello economico. Sebbene evocato a più riprese negli interventi della Nuvola, il coraggio di un orizzonte basato su regole globali intese al perseguimento dell’interesse pubblico e in grado di rilanciare la funzione dello Stato sulle sfrenate ragioni dell’economia neoliberista, non si è visto. Non c’è. Il G20 ha coinvolto regine, principi e privati per ragionare sull’urgenza delle soluzioni.
Si è vista invece molta mistificazione. Sul clima, Draghi ha riconosciuto apertamente la sfiducia tra paesi emergenti e industrializzati sul terreno della responsabilità del riscaldamento globale, e ha speso parole forti sulla necessità di rispondere ai rischi del futuro, di ingaggiare leadership collettiva, di adattare tecnologie e stili di vita al “nuovo mondo da costruire, se vogliamo che sia la gratitudine, e non il risentimento, a segnare la risposta delle nuove generazioni”. Ma la dichiarazione finale del summit di Roma, che pure consolida l’accettazione dei risultati scientifici dell’IPCC per contenere il riscaldamento climatico entro 1,5 gradi centigradi, riproduce la consueta incapacità dei vertici ufficiali di tradurre in impegni misurabili la radicalità delle scelte climatiche che questo tempo impone, per la salute del pianeta e della popolazione mondiale. Il testo del G20 non fissa una data per il conseguimento dell’obiettivo da parte dei più impattanti emettitori di gas clima-alteranti. Consente anzi ai governi che detengono l’80% del PIL mondiale e la più grande responsabilità per la devastazione del pianeta di conseguire il traguardo in base alle loro intenzioni, interessi e possibilità. Come se bastassero piccole modifiche incrementali a impedire il crollo del complesso ecosistema planetario, visibilmente assediato da eventi che segnano punti di non ritorno tali da rendere questo mondo inabitabile per milioni di persone già oggi, come ha ricordato nel suo intervento a Glasgow la straordinaria prima ministra delle Barbados in apertura dei lavori.
Senza obblighi vincolanti, e senza una rotta temporale cogente all’altezza della emergenza planetaria, il G20 ha consegnato alla COP26 di Glasgow declamazioni vuote di credibilità, orientate ancora una volta alle ragioni della economia globalizzata piuttosto che a un improrogabile nuovo pensiero sul modello di sviluppo ecologico. E infatti i governi del G20 proseguono, con le loro imprese a briglie sciolte, l’opera di erosione della biodiversità, l’incremento della deforestazione globale, gli accordi di libero commercio che favoriscono l’avanzare della catastrofe.
Il capitalismo fossile va dritto per la sua strada, ha fatto notare Mariana Mazzucato su The Guardian: un incredibile 56% dei fondi per la ripresa post-pandemica dei paesi del G20 è destinato alle aziende che estraggono combustibili fossili. E l’industria finanziaria dal canto suo ( HSBC, Deutsche Bank, Credit Agricole, per citare i big più noti), mentre firma ad aprile impegni per azzerare le emissioni entro il 2050, sotto le spoglie della Glasgow Financial Alliance for Net Zero, continua oggi a investire nelle pipeline che sventrano le terre dei popoli indigeni, in un complesso sistema che tiene insieme multinazionali delle energie fossili, enti di gestione di investimenti privati, fondi pensione e istituzioni finanziarie internazionali. I miliardi di alberi da piantare promessi nella dichiarazione del G20 di Roma non saranno la foglia di fico con cui barattare il futuro delle nuove generazioni.
La fiducia intergenerazionale non è merce che si acquista a buon mercato, vista l’onda di mobilitazione popolare. E’ una tragedia che i leader del G20 non riescano a capire il messaggio radicale che viene dalle strade – a Roma prima e in questi giorni in Scozia: percorsi che vanno popolandosi del senso di rivolta di chi non ha più nulla da perdere, perciò chiede, anzi esige un nuovo paradigma. Il rapido superamento del capitalismo finanziario che genera patogenesi tanto visibili: “la crisi climatica è una crisi della salute globale”, ha dichiarato il Dr Tedros, direttore generale dell’Oms, alla conferenza dell’Oms su clima e salute, in questi giorni a Glasgow.
Ma neppure sul fronte sanitario si sono registrati progressi. La crisi sanitaria persiste – SARS-CoV-2 insidia la Russia e i paesi dell’Europa, non più solo orientale – e persiste anche l’apartheid dei vaccini. Anzi, si aggrava. La responsabile scientifica dell’Oms, Soumya Swaminathan, ha spiegato come il numero delle terze dosi somministrate (circa un milione al giorno) sia tre volte superiore alle prime dosi di vaccino iniettate nei paesi a basso reddito (circa 330.000 dosi al giorno). Su questa ingiustizia mondiale, la dichiarazione del G20 mantiene il difetto di fabbrica di rilanciare impegni già assunti e mai materializzati.
Il vertice di Roma ha ribadito l’obiettivo sancito dai ministri del G20 salute a settembre di vaccinare il 40% della popolazione mondiale entro la fine del 2021 e il 70% di immunizzazione entro la metà del 2022. Per come stanno le cose, con solo il 9% delle donazioni promesse dal G7 erogate – ammesso e non concesso che siano le donazioni la soluzione – e con solo 435 milioni di dosi di vaccini distribuiti da COVAX a 144 paesi (al 2 novembre), la dichiarazione ha tutti i risvolti della presa in giro. Eppure, al punto 5 della dichiarazione conclusiva, il G20 si ostina a rilanciare iniziative internazionali in coma come COVAX, ovvero altre iniziative specifiche nate nel 2021 sulla scia della pandemia, tutte ispirate a un approccio puramente farmacologico delle soluzioni contro la pandemia, anche quando il testo parla di One Health, la salute che abbraccia persone, animali e ambiente. Ma nella esuberante frantumazione di soluzioni proposte, il G20 rinuncia a denominare la sola misura politica internazionale in discussione all’Omc che, se attuata con tempestività, avrebbe permesso la produzione di 8 miliardi di vaccini con una ripartizione regionale delle capacità produttive, entro la fine del 2021. Lo dice uno studio pubblicato da Public Citizen e dall’Imperial College di Londra la scorsa estate. Sulla proposta di India e Sudafrica, membri del G20, la presidenza italiana ha scelto un silenzio tombale, da sindrome di rimozione.
Infine, non possiamo tacere sul compromesso raggiunto dal G20 in materia di nuove regole fiscali per le multinazionali, la cosiddetta global corporate tax che dovrebbe attaccare la patologica corsa al ribasso del sistema economico globale sui costi di produzione, costi del lavoro, ambientali e fiscali, al fine di massimizzare i profitti. Questa corsa al ribasso è una forza impressionante del sistema della globalizzazione. In particolare, sul fronte fiscale, essa genera una concorrenza distruttiva tra amministrazioni dei singoli stati, i quali offrono opportunità di trattamenti fiscali di favore pur di attirare entro i propri confini la localizzazione delle imprese, incentivando comportamenti elusivi. In base all’accordo, le multinazionali con fatturato annuo superiore ai 750 milioni di dollari residenti nei paesi del G20 saranno obbligate a versare un’aliquota effettiva del 15%, a partire dal 2023, su una base imponibile che beneficerà già di grosse deduzioni. Il tasso del 15% concordato dal G20 risulta di poco superiore alle aliquote medie del 12% dei regimi preferenziali nei paradisi fiscali, ciò che non cambia molto il quadro di riferimento. Semmai, l’esito paradossale è quello di trasformare tutto il mondo in un grande paradiso fiscale a partire dal 2023, stando ai dati medi correnti che dimostrano come la aliquota delle tasse sulle multinazionali sia intorno al 27,46% in Africa, 27,18% in America Latina, al 20,71 in EU, 28,43% in Oceania e 21,43 % in Asia. La media globale si assesta intorno al 23,64%. Un livello così basso di tassazione – perfino gli USA avevano proposto il 21% – potrebbe configurare nuovi equilibri, decisamente al ribasso.
Infine, non una sola parola sulla cancellazione del debito dei paesi poveri, una misura anch’essa indispensabile e legata a doppio filo con la capacità di risposta alle prossime pandemie. I paesi creditori del G20 hanno accumulato un debito ecologico enorme verso il sud globale: i salti di specie degli ultimi decenni, e la predizione di spillover futuri, sono connessi alla necessità di affrontare la “crisi globale del debito”, così dichiarata nel gennaio 2020 dalla Banca Mondiale, che esige anch’essa un nuovo paradigma di gestione a livello internazionale.
Restiamo, così, invischiati nella bassa marea della politica globale.
G20: universi paralleli – Olivier Turquet
In questi due giorni mi sono dedicato a due cose: guardare telegiornali sul G20 e seguire le attività dei movimenti a Roma, in particolare le attività di Extinction Rebellion, essendo io un volontario dell’ufficio stampa di quella organizzazione.
Quest’attività ha generato in me sentimenti contraddittori: vedere l’imponente sistema di difesa dei potenti della terra descritto da elicotteri, le passerelle mediatiche dei leader che si incontravano senza dire nulla, le dirette sulle first ladies in visita turistica da una parte; dall’altra essere in contatto diretto con tutta l’organizzazione, l’umanità, lo sforzo di comprendersi e di agire dei militanti per il cambiamento climatico ed ecologico, le difficoltà, i cambi di programma, i momenti di scoramento e di rabbia.
Due mondi paralleli. Quando abbiamo visto, in altre occasioni, Greta parlare con i potenti, dubbiosi sul perché l’avessero invitata, ma speranzosi che qualcuno l’ascoltasse, abbiamo creduto che ci fosse una possibilità di ascolto. Questa volta è stato chiaro che l’ascolto non ci sarebbe stato, che l’agenda era piena di mediaticità e di poca sostanza, come hanno confermato le dichiarazioni finali; “la casa brucia” ma il G20 si preoccupa di far pagare la “minimum tax” (qual nome più significativo) nel 2022 ai colossi del web; il trend della fame è in rialzo ma il G20 vuole vaccinare il 70% del “terzo mondo”, sperando che serva a salvare la pelle del primo e senza nemmeno chiedere alle multinazionali di rinunciare ai brevetti e senza chiedersi come è possibile che non sappiamo nemmeno quando finirà la pandemia; e sul clima? «La presidenza italiana del G20 vuole spingere la crescita economica e renderla più sostenibile: lo dobbiamo ai cittadini, al pianeta e ai giovani», sottolineando poi che «molto dovranno fare i privati» – dice Draghi – come se non fosse la stesso concetto di crescita uno dei fattori decisivi del disastro. People, Planet, Prosperity recitava il lemma: quali persone, quale pianeta e per chi la prosperità?
Nell’altro mondo, quello delle persone e dei militanti, viveva l’allegria, la creatività, le mille iniziative del climate camp ma anche la decisione dei cortei e delle azioni di disobbedienza civile di Extinction Rebellion e degli altri movimenti; c’era, c’è preoccupazione basata sui dati della scienza, della scienza libera non condizionata dal profitto che ancora esiste; c’è urgenza perché il tempo è esaurito e la risposta inadeguata; ma soprattutto c’è speranza e voglia di costruire un futuro veramente differente, degno di un Essere Umano nonviolento, solidale, amico della sua casa, in armonia con tutti gli altri abitanti.
Cosa vogliamo? Giustizia climatica. Quando la vogliamo? Ora !!
I due universi abitano questo pianeta; sono persone, interessi umani, economici, sociali: anche qui non abbiamo un pianeta B tranne quello su Marte sognato da alcuni pericolosi transumanisti. Abbiamo visto dallo spazio il nostro rotondo rifugio blu, velato dalle nubi: chi lo ha visto non solo in foto ci ha inequivocabilmente trasmesso amore per la piccola casa e desiderio che essa appartenga a tutti e che possa ospitare degnamente tutti: i 20 signori che erano nella loro splendida torre d’avorio, rigorosamente circondata di polizia e controlli non sembra che abbiano visto quel pianeta; o, se l’hanno visto, gli è apparso di colore verde, come i dollari e si sono subito chiesti se era quotato in Borsa.
Francamente non credo che i due mondi possano dialogare ed unirsi: ieri e oggi li ho visti molto distanti. Terribilmente distanti. Ho visto la torre d’avorio con un po’ di rabbia; e ho rinforzato il mio amore per l’altro mondo e la voglia di aiutarlo a dirigere le sorti di questa umanità e della sua unica e preziosa casa.
Cop26 e G20 sono solo una farsa: abbiamo idea di quanto carbonio hanno prodotto? – Loretta Napoleoni
Ci risiamo: dopo una breve pausa dovuta al Covid, ecco che riparte il teatrino dei big politici, con tanto di cocktails, cene e foto di gruppo, tutte rigorosamente senza mascherina.
Questa volta però l’assurdità della farsa è palese: sullo sfondo della crisi climatica che rischia, in un futuro non troppo lontano, di estinguere la nostra specie, ci si incontra a Roma per il G20 e a Glasgow, subito dopo, per il Cop26. Aerei di linea, jet privati e velivoli di stato, su cui viaggiano i capi dei governi con al seguito assistenti e stampa, sono volati a Roma per poi rialzarsi in volo per Glasgow prima di tornarsene nel proprio continente e nazione. A questa massa critica si sono aggiunti tutti i partecipanti al Cop26, molti dei quali sono arrivati su uno dei 400 jet-privati che hanno mandato in tilt l’aeroporto di Glasgow. Abbiamo idea di quanta CO2 l’incontro di Roma e quello di Glasgow abbiano prodotto?
Incidentalmente, è impossibile trovare una risposta, nessuno si è dato la briga di fare un calcolo, anche molto, molto approssimativo, su questo aspetto. Eppure, bisognerebbe iniziare proprio da questo inutile spreco per parlare seriamente di clima.
Un aspetto mai discusso del problema climatico è il marketing politico in casa e all’estero: questo consuma molto carbonio. Joe Biden è atterrato a Roma con il suo Air Force One carico di giornalisti e amministrazione di supporto, inclusi coloro che portano la valigetta del nucleare, che lo accompagna dovunque. Tutta questa gente si è mossa con una carovana di 85 macchine, per la maggior parte Suv, e dalle foto non sembrano auto elettriche ma a benzina o a diesel. Con questo codazzo di carbonio costantemente al seguito, Biden è andato dal Papa a farsi benedire per quello che farà per salvare l’umanità dalla catastrofe climatica. E magari Sua Santità lo ha anche benedetto per questo!
Intanto a casa sua, il presidente americano ha concesso ai produttori di carbone di continuare ad estrarre il fossile a patto che catturino le emissioni di CO2 da loro prodotte. Ma quali? Quelle relative all’estrazione o tutte, incluse quelle prodotte dal consumo? Come sempre di questi particolari non si parla. Neppure sanno gli americani che ad oggi non esiste negli Usa una tecnica applicata per catturare il CO2 emesso dalla produzione di carbone ben testata e che funzioni. Propaganda verde, dunque. La verità è ben diversa: a fronte della crisi energetica la cessazione dell’uso del carbone verrà posticipata e questa vergogna sarà nascosta con la foglia di fico della “cattura” dei suoi gas mortali.
Prima di partire, Biden ha annunciato un programma di spesa di 1,75 trilioni di dollari per progetti di energia verde e antinquinamento che vuole sia votato dal congresso. Il costo è 555 miliardi di dollari che verranno prodotti, come ormai è di prassi, battendo qualche tasto sulla tastiera del tesoro americano, ma anche di questa tecnica non si parla mai e gli americani sono convinti che saranno le loro tasse a pagare la riconversione verde. Con questo annuncio Biden è volato in Europa senza preoccuparsi della scia di carbonio che si lasciava dietro.
Perché il G20 e il Cop26 non si sono svolti nello stesso posto per contenere l’impronta di carbonio? Sarebbe stato un gesto significativo per il mondo. Ma a Mario Draghi e a chi lo sostiene su entrambe le sponde dell’Atlantico faceva comodo la foto davanti alla fontana di Trevi al centro dei colleghi leader politici e non più di lato insieme ai banchieri centrali. Il G20 di Roma, che non ha prodotto nulla, un comunicato neutro dove non ci si impegna a fare nulla, è servito a sancire la posizione politica dell’ex tecnico che ormai è a tutti gli effetti una figura politica. Piace agli italiani questa immagine e piace al resto del mondo. La campagna di marketing politico ha funzionato benissimo, i costi in termini di emissione di carbonio sono stati alti, ma non importa: non se n’è accorto nessuno.
Si può andare avanti elencando le politiche di marketing degli altri politici, da Boris Johnson a Glasgow a Emmanuel Macron, che dopo una puntatina in Scozia se ne è tornato a casa, ma non ne vale la pena. Più importante è l’assenza di Vladimir Putin e di Xi Jinping, rispettivamente grossissimo produttore e consumatore di energia fossile, sia dal G20 che dal Cop26: qualsiasi accordo che verrà raggiunto senza di loro varrà ben poco.
Se continuiamo così, ignorando l’evidenza, nutrendoci della propaganda del marketing politico e rallegrandoci che il clima alzi questo gran polverone di CO2, allora forse i cambiamenti climatici ce li meritiamo!
Dalla difesa del territorio alla COP26: il messaggio delle delegate indigene a Glasgow – Susanna De Guio
“Almeno un quarto della superficie terrestre mondiale è tradizionalmente posseduto, gestito, utilizzato e occupato da popolazioni indigene” si legge nel rapporto del 2019 dell’Ipbes (la piattaforma intergovernativa scientifico-politica sulla biodiversità e i servizi ecosistemici), uno degli istituti internazionali creati nell’ultimo ventennio per far fronte alla crisi climatica globale.
Non solo l’Ipbes misura la presenza indigena sul pianeta, ma sottolinea che “in generale nei territori di insediamento dei popoli indigeni la natura tende a declinare meno rapidamente” e nonostante questo, le aree che gestiscono “si trovano ad affrontare una crescente estrazione di risorse, la produzione di materie prime, la nascita di miniere e di infrastrutture per il trasporto e l’energia, con varie conseguenze per i mezzi di sostentamento e salute locali.”
A chiusura del G20 Interfaith Forum, il presidente del Consiglio Mario Draghi aveva ricordato che i paesi partecipanti al summit sono responsabili “di circa quattro quinti delle emissioni globali” evidenziando che gli effetti dei cambiamenti climatici si riversano però in modo particolare “sugli Stati più poveri [che] hanno beneficiato meno di altri del nostro modello di sviluppo, ma ne sono le principali vittime”.
La COP26 di Glasgow, nel Regno Unito, è sotto i riflettori mondiali come un negoziato cruciale perché gli oltre 190 capi di Stato partecipanti dovranno spingersi ben oltre i limiti previsti dall’accordo di Parigi per contenere l’aumento della temperatura del pianeta a 1,5°C.
Eppure, tra i numerosi attori politici convocati ad affrontare e mitigare le drammatiche conseguenze della crisi climatica a cui andiamo incontro non ci sono le popolazioni indigene, né le comunità locali che custodiscono i territori più colpiti da incendi, inondazioni, processi di desertificazione, fenomeni direttamente correlati all’innalzarsi della temperatura terrestre.
Futuros Indigenas va a Glasgow
“Se le Conferenze delle Parti fossero efficaci, non sarebbe già più necessario farle”, esclama con ironia uno dei partecipanti alla riunione della rete Futuros Indigenas in uno degli incontri preparatori in vista della COP26. “Tutto nasce da un laboratorio di comunicazione a cui hanno assistito diverse comunità”, spiega Rosa Marina Flores Cruz, ricercatrice binnizá e attivista per la difesa dell’Istmo de Tehuantepec, in Messico, che si sta preparando per andare nel Regno Unito. “L’invito era rivolto a movimenti indigeni e gruppi di difesa del territorio, il collettivo Hackeo Cultural convocava a discutere le narrazioni sul cambio climatico e la crisi ambientale e offriva un interscambio con giornalisti, illustratori, professionisti della comunicazione”.
La rete Futuros Indigenas si costituisce dopo il laboratorio, con rappresentanti di più di 20 popoli indigeni, con l’obiettivo di mantenere in vita l’esperienza e ampliare i legami con altre lotte territoriali. La proposta di recarsi a Glasgow arriva poco dopo da attivisti più giovani che si organizzano nelle città: i gruppi Legaia e División Juvenil de Cambio Climático sono più vicini a Fridays For Future e avevano già in mente di recarsi alla COP26. Così la delegazione di giovani sceglie di accompagnare otto rappresentanti di diverse comunità indigene tra Messico e Guatemala, impegnate nella difesa dei loro territori, nel recupero della lingua e dell’identità culturale, per la salvaguardia dei diritti umani, dei diritti delle donne e della vita comunitaria.
Futuros Indigenas è una rete mista, ma le persone partite per Glasgow sono quasi tutte donne. “Anche se non è stata una scelta ragionata, ci emoziona molto poter presentare questo cambio di narrazione sulla crisi climatica dal punto di vista di donne che inoltre sono indigene e che difendono il territorio, perché possiamo evidenziare i diversi tipi di oppressione che viviamo”, racconta Marina Flores Cruz.
Sta pensando al lungo lavoro di dialogo svolto nelle comunità per discutere se andare o no alla COP26, perché sostenere questo progetto così costoso da finanziare per andare in uno spazio che è riconosciuto come “burocratico, istituzionalizzato, dove si prendono decisioni che hanno conseguenze dirette sulle comunità, dove la visione dei popoli non viene presa in considerazione, mentre siamo visti come un contorno folklorico: facciamoli ballare coi i loro vestiti tradizionali così possiamo dire che hanno partecipato alla COP”.
Oltre la COP26
Marina, come molte delle altre donne che stanno costruendo questo processo, sono vicine all’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (EZLN), alcune sono parte del Consejo Nacional Indigena, condividono una stessa idea di autonomia rispetto alle strutture statali e intergovernative. Eppure, proprio per queste ragioni, pensano che sia importante andare a Glasgow e recuperare la visione del collettivo, costruire la propria posizione, portare la voce delle altre compagne che non potranno partecipare.
Per lei e per tutta la delegazione è chiaro che la COP26 non è l’obiettivo, l’intenzione è piuttosto irrompere con una narrazione sul cambiamento climatico che è sempre esclusa dai luoghi decisionali, e sviluppare questo stesso dibattito dentro le comunità. “Non crediamo che questi summit abbiano effetti concreti, sappiamo che sono risposte create a partire dal mercato e per il mercato, per garantire la continuità dell’accumulazione del sistema capitalista”, spiega. “Sappiamo che la necessità urgente di passare dai combustibili fossili alle rinnovabili ha portato all’invasione dei nostri territori, all’usurpazione della terra e l’espulsione della vita contadina e comunitaria”.
Ma se non vanno bene nemmeno le rinnovabili, che cosa resta? Marina si è sentita spesso porre questa domanda, anche nelle comunità dove lavora su progetti di sovranità energetica: “La discussione deve guardare al modello da cui arrivano le proposte per affrontare la crisi climatica: il capitalismo verde genera alternative alle energie fossili con un discorso di protezione dell’ambiente, ma deve garantire innanzitutto la crescita, gli stessi profitti di prima”. Nell’Istmo di Tehuantepec, dove Marina vive, l’attacco avviene con l’istallazione di immensi campi eolici che escludono la convivenza con le comunità, espulse dai loro territori. “Non si tratta di discutere se l’energia prodotta è rinnovabile o no, ma piuttosto se ripara i danni che lo stesso sistema ha creato. C’è un problema di fondo, e quel che fa il capitalismo è rattopparlo colorando di verde qua e là”.
In difesa di tutta la Terra
La ONG Global Witness dal 2012 raccoglie dati sugli omicidi di persone che difendono la terra e l’ambiente. I numeri registrati fino a oggi mostrano una relazione chiara tra l’intensificarsi della crisi climatica e la costante crescita della violenza contro chi protegge la biodiversità.
Nel rapporto annuale della ONG, lo sfruttamento minerario e la deforestazione necessaria per l’agro-business sono individuati i principali settori in cui opporsi significa rischiare la vita. Inoltre, nel 2020 la pandemia ha favorito l’estrattivismo delle grandi imprese, che hanno potuto avanzare indisturbate, mentre le quarantene restringevano le possibilità d’azione per la difesa dei territori, e infine ha reso più facile la persecuzione dei leader indigeni e ambientalisti direttamente nelle loro dimore.
Nel 2020 gli attivisti ambientali uccisi sono stati 227, cifra che corrisponde a una media di 4 alla settimana, più della metà di questi attacchi è avvenuta in soli tre paesi: Colombia, Messico e Filippine. Più dei due terzi degli omicidi sono stati registrati in America Latina, classificata costantemente da Global Witness come la regione più colpita dalla violenza.
L’America Latina è anche una delle regioni del globo dove l’impronta ecologica è a credito, mentre ci vorrebbero cinque pianeti se tutta l’umanità adottasse i livelli di consumo degli Stati Uniti. I popoli indigeni sono responsabili della salvaguardia dell’80% della biodiversità presente sulla Terra, tuttavia più di un terzo degli omicidi sono risultati da attacchi contro queste popolazioni.
Futuros Indigena nasce dalla consapevolezza che “la crisi climatica è conseguenza dei sistemi di diseguaglianza strutturale che oggi governano il mondo” e ha scelto di organizzarsi di fronte all’imposizione della morte. Il messaggio che lascia è chiaro: “Ci sono acqua, alimenti e terra sufficienti perché tutte le persone e le esistenze vivano degnamente in questa casa comune chiamata Terra. Possiamo rigenerare i sistemi di vita a cui è legato il nostro futuro. Ma il cambio deve essere radicale. Perché dopo ogni crisi non vogliamo tornare alla normalità, vogliamo tornare alla terra”.
Per uscire dalle trappole sul clima – Silvia Ribeiro
“Per andare alla radice delle ingiustizie ambientali e climatiche, dobbiamo guardare a più di quattro secoli di imperialismo coloniale, all’oppressione ininterrotta del patriarcato e della supremazia bianca e all’attuale espansione del capitalismo industriale, neoliberista e globalizzato”.
Inizia così l’introduzione del materiale di formazione popolare intitolato “Hoodwinked in the HotHouse“, “Ingannati nella Serra”, elaborato da un ampio gruppo di organizzazioni di base indigene, sociali, rurali, urbane e ambientali del Nord America, tra cui l’Indigenous Environmental Network, il Global Project of Ecological Justice, il Network for Energy Justice, l’Alliance for a Just Transition e altri.
Più di un decennio fa, quelle organizzazioni si proposero di spiegare con un linguaggio semplice le ingiustizie ambientali e climatiche, svelando le manovre attuate da aziende e governi con le cosiddette “false soluzioni”: proposte tecnologiche e di manipolazione della natura e finanziaria che di “soluzione” non hanno assolutamente nulla ma sono progettate per fare il contrario: evitare di esporre, e tanto meno cambiare, le cause reali dell’ingiustizia ambientale e inventare nuovi business attraverso strumenti fraudolenti.
Il collettivo delle organizzazioni promotrici presenta ora la terza edizione di un materiale rivisto e ampliato, che è particolarmente utile in vista del prossimo incontro delle Nazioni Unite a Glasgow (Climate COP 26), per il quale saremo presto inondati da titoli dei media catastrofici e fuorvianti.
Le linee di fondo del lavoro vanno molto al di là della reazione alle proposte del capitalismo sul clima. Come si dice dall’inizio, mirano a criticare il colonialismo, il patriarcato e il razzismo implicito. In quanto parte dell’informazione di cui abbiamo bisogno per comprendere e resistere alle numerose insidie del capitalismo, questo materiale collettivo si concentra sulla revisione di un ampio elenco di false “soluzioni” climatiche. Dalle proposte che vanno avanti da anni fino a quelle più recenti, il libro presenta brevemente il contenuto e il significato di ogni proposta o tecnologia, gli impatti che ha e spiega perché dobbiamo resisterle. Prende in esame problemi come la definizione dei prezzi del carbonio, le cosiddette “soluzioni basate sulla natura”, la bioenergia, l’estrazione e la combustione del gas naturale e il fracking, la produzione di energia derivata dall’idrogeno, le discariche, l’incenerimento dei rifiuti, l’energia nucleare, quella idroelettrica, le tecniche di geoingegneria, la cattura del carbonio e anche i problemi connessi alle energie rinnovabili. In quest’ultimo caso, naturalmente, quando esse sono gestite da aziende – e non intese come risorsa per comunità e popoli – alle proprie condizioni e con le conoscenze che hanno dell’ambiente.
È un materiale molto utile, persi come siamo nel vortice di questioni in cui ci troviamo tutti, perché è sintetico ma costituito da informazioni solide, quindi in grado di guidarci con mano solidale nell’oscurità che il teatro delle false “soluzioni” climatiche ha generato. Soprattutto nel momento in cui la discussione sul clima continua a crescere e ci sono sempre più termini che sono progettati in modo da non farci capire cosa sta realmente accadendo oppure per farci credere che con le loro proposte ad alto rischio il problema del riscaldamento globale possa essere risolto.
Come spiega il collettivo editoriale, questo libro è un po’ come un aiuto a entrare nel vaso di Pandora delle finte proposte di soluzione sul clima, progettate invece per trarre profitto dalle crisi, proprio per comprenderle e resistervi.
Gli autori riflettono anche sugli anni trascorsi dalla pubblicazione della prima edizione. “Stiamo assistendo a una tendenza allarmante verso una ‘politica della disperazione’, anche all’interno di alcuni movimenti, dove il capitalismo del disastro – insieme alla cecità del riduzionismo del carbonio [si riduce tutto alla misurazione del carbonio, piuttosto che vedere le molteplici cris] alla finanziarizzazione della natura e a un crescente utopismo tecnologico – ha favorito la proliferazione di falsi schemi che traggono benefici dal deterioramento climatico. Perfino il simbolico Accordo di Parigi, firmato alle Nazioni Unite nel 2015, ha fatto molto per consentire e promuovere una serie di truffe tecnologiche aziendali, meccanismi del mercato del carbonio e tasse sul carbonio ”.
Poi gli autori aggiungono che “oggi più che mai il baricentro dei movimenti per il clima si è spostato verso una prospettiva basata sulla giustizia climatica, in cui non distinguiamo tra la guerra globale contro la biodiversità condotta dall’avidità delle multinazionali e le guerre contro le culture, le visioni del mondo, le comunità e i corpi delle persone oppresse in tutto il mondo”.
Quando il problema viene inquadrato sotto la premessa della giustizia climatica, la crisi climatica non si riduce più al semplice fatto di contabilizzare il carbonio. “I movimenti di base guidati dalle comunità di tutto il mondo propongono una visione trasversale sull’economia – lo sfruttamento della terra, del lavoro e dei sistemi di vita, l’erosione dei semi, del suolo, della storia e dello spirito – e cercano di promuovere soluzioni veritiere tutto intorno a noi, ogni giorno, attingendo a diverse fonti: dai saperi tradizionali indigeni alla sovranità alimentare, alla de-mercificazione della terra, delle abitazioni e delle cure mediche, fino all’abolizione del complesso militare-industriale che pretende di estrarre ogni goccia di combustibile fossile dalla Madre Terra. Lo fanno anche per quanto riguarda una transizione giusta e una vera democrazia energetica, cercando di promuovere energie democratizzate, decentralizzate, non tossiche e decarbonizzate per alimentare le nostre vite, e con la giustizia trasformativa, con la quale rispondiamo a traumi e violenze”.
Il libro e i video sull’argomento sono scaricabili dal sito https://climatefalsesolutions.org/ , al quale verranno aggiunti altri materiali.
Fonte: Desinformémonos
Traduzione per Comune-info: marco calabria
La grande truffa dello zero netto – Giorgio Salerno
Sono purtroppo molto fondati i diffusi timori che la COP 26 in corso a Glasgow non riesca a concludersi con un accordo tra tutti i Paesi all’altezza delle necessarie, drastiche decisioni di immediate e consistenti riduzioni delle produzioni di combustibili fossili.
I grandi media accusano preventivamente Cina, India e Russia – che indubbiamente hanno importanti responsabilità – di non voler accettare la tempistica degli obiettivi di riduzione, per occultare una realtà scomoda: le grandi multinazionali che hanno i loro centri direzionali nei Paesi del ricco Occidente continuano a puntare sui combustibili fossili, nonostante proclamino a gran voce di abbracciare la svolta “verde”, e i vari governi non possono e/o non vogliono obbligarle a cambiare strategia.
Le analisi che lo confermano sono ormai numerose e in molti casi autorevoli.
Per esempio, nel recentissimo “Production Gap Report” dell’UNEP – il programma per l’ambiente dell’ONU – è scritto che la produzione globale di carbone, petrolio e gas deve iniziare a diminuire immediatamente e significativamente, per non superare l’aumento medio planetario di 1,5°C rispetto all’epoca pre-industriale [siamo già a +1,1°C], limite ribadito solennemente al termine del G20 concluso pochi giorni fa. Peccato che, se non si modificano subito gli obiettivi reali di produzione, la temperatura media della Terra, come ci informano i ricercatori dell’ONU nel loro rapporto, schizzerà a +2,7°C nel corso di questo secolo: provocando una catastrofe climatica certa e terribile per l’umanità e la biosfera.
Infatti, i governi dei Paesi produttori hanno programmato fino al 2030 il 110% in più di produzione dei combustibili fossili rispetto alla quantità che limiterebbe il riscaldamento globale a +1,5°C. Tale aumento percentuale è composto da: +240% (!) carbone, +57% petrolio e +71% gas.
“Still A Big Con”, un rapporto[1] stilato pochi giorni fa dal Corporate Europe Observatory (insieme a Friends of the Earth, Corporate Accountability, Global Forest Coalition), analizza le strategie di greenwashing di sei aziende multinazionali di combustibili fossili – ma è una pratica comune di tutta questa ricca e potente industria – e in particolare di cosa vuole nascondere lo slogan che ripetono da tempo e rilanciano alla COP 26 di Glasgow: NET ZERO (ovvero: Zero Emissioni Nette). Lo scopo è, naturalmente, impedire che vengano prese decisioni che determinino davvero l’azzeramento delle emissioni.
In breve, ecco cosa dice il rapporto.
# BRITISH PETROLEUM
Condannata nel 2019 per crimini ambientali in Sud Africa, il 28 ottobre scorso è stata convocata dal Congresso degli Stati Uniti, accusata di disinformazione sul clima. Investirà nei prossimi anni $ 71 mld per estrarre combustibili fossili. Nel 2022 avvierà sette progetti di nuovi idrocarburi.
Giustifica i suoi investimenti affermando che il gas fossile, l’idrogeno fossile e la cattura e immagazzinamento del carbonio sono soluzioni conformi all’obiettivo di zero emissioni. E punta sulle “compensazioni” [N.d.R.: piantando alberi], invece di ridurre le sue emissioni di gas serra. Nei mesi precedenti la COP 26, ha avuto 58 incontri con i ministri britannici e ha partecipato a tre importanti eventi con esponenti governativi, sponsorizzando le sue false soluzioni.
# MICROSOFT
È la più grossa partner tecnologica dell’industria del petrolio e del gas, vendendo macchine di intelligenza artificiale per la ricerca e l’estrazione. Non ha fissato alcuna data per chiudere i suoi accordi con l’industria dei combustibili fossili e i suoi piani per zero emissioni si basano essenzialmente sulle “compensazioni” e sulle tecnologie per la cattura di milioni di tonnellate di CO2 – anche se ammette che quelle tecnologie non esistono ancora. Nell’attività di lobbying ha speso nel 2021 (finora) più di $ 5 mln a Washington e l’anno scorso oltre € 5 mln a Bruxelles. Partner principale nella COP 26, consultata da capi di stato e di governo.
# DRAX[2]
È la maggiore fonte singola di emissioni di CO2 del Regno Unito e distrugge aree di biodiversità, in parte incendiando foreste, più di qualunque altra azienda nel mondo. I suoi piani per zero emissioni prevedono la cattura e l’immagazzinamento di 16 mln di tonnellate annue di CO2, utilizzando tecnologie pericolose e sperimentali. Anche se ci riuscisse, si tratterebbe di appena l’1% della CO2 che produce. I suoi lobbysti hanno incontrato i ministri britannici 31 volte nei mesi precedenti la COP 26, ricevendo l’apprezzamento di molti politici di alto livello, incluso il presidente della COP 26, Alok Sharma. Alla conferenza di Glasgow è partner del Forum per l’Innovazione Sostenibile e ha contatti diretti con i decisori politici.
# IETA
Associazione Internazionale per il Commercio delle Emissioni: fondata, finanziata e diretta da grandi inquinatori come BP, Chevron, Shell. Da più di 20 anni impegnata nella promozione del fallimentare modello del “mercato del carbonio”. Per zero emissioni considera fondamentale proprio quel modello, che dichiara essere irrinunciabile per l’approccio “multilaterale”. Ammette persino che i suoi piani non tengono conto del loro impatto sociale ed ecologico. In cambio della centralità dei mercati del carbonio, propone l’azzeramento del debito dei Paesi del Sud verso quelli del Nord del mondo. La sua delegazione alla COP 26 è più numerosa di qualunque altra dei Paesi presenti e organizza una serie di eventi a cui partecipano capi di stato e di governo.
# BLACKROCK [3]
Ha investito $ 85 mld nell’industria del carbone e $ 75 mld in aziende che ricavano petrolio dalla sabbie bituminose. Principale investitore nelle aziende impegnate nella deforestazione. Il suo piano per zero emissioni indica la data del 2050 ma non ha alcun progetto per decarbonizzare il suo capitale e non ha definito alcun obiettivo quantitativo di riduzione di emissioni o disinvestimento dalle industrie inquinanti. Ha bocciato l’88% delle proposte di suoi azionisti per contrastare i cambiamenti climatici. Per meglio tutelare i suoi interessi, fa parte dell’Alleanza Finanziaria di Glasgow per Zero Emissioni. Nel 2020 ha finanziato con $ 1,83 mln la campagna elettorale di Joseph Biden e con € 28 mln l’U.E. Ha partecipato a molte conferenze e gruppi di lavoro di preparazione alla COP 26, dove parlerà in vari incontri e conferenze su zero emissioni.
# SHELL
Responsabile del 2% delle emissioni storiche mondiali di biossido di carbonio e metano. Rinviata a giudizio dalle corti di Amsterdam per le sue attività estrattive in Indonesia, Sud Africa, Mozambico, Nigeria e Canada, determinando situazioni di ingiustizia e violenza verso le popolazioni locali. Il suo programma di zero emissioni prevede di spendere ogni anno $ 8 mld per produrre petrolio e gas e aumentare del 20% quella di gas naturale liquefatto. Invece di ridurre le sue emissioni, prevede di “compensare” ogni anno 120 mln di tonnellate di CO2, riforestando una superficie pari al triplo dei Paesi Bassi. Prima della COP 26, ha incontrato 57 volte i ministri britannici e ha speso € 4,25 mln in attività lobbystiche dirette a decisori politici dell’U.E. È partner di Energia Sostenibile per Tutti e ha un proprio padiglione nella sede della COP 26.
Per concludere, non sarebbe corretto dimenticare la multinazionale italiana: l’ENI, di cui una quota importante è proprietà del governo. Sarebbe interessante e istruttiva un’ampia analisi della sua strategia, ma qui ci limitiamo a poco più di un accenno.
Il suo “Piano d’azione 2020-2023” prevede investimenti totali nella produzione di idrocarburi per € 24 mld e… € 4 mld in “investimenti verdi”, di cui € 2,6 mld in energie rinnovabili, mentre dei rimanenti € 1,4 mld non è specificata la destinazione. Più in generale, il suo “Piano strategico al 2050” prevede l’aumento della produzione di idrocarburi (petrolio e gas) del 23% fino al 2025.
Infine, a proposito di come ridurre le sue emissioni climalteranti, non fornisce previsioni chiare perché il piano di sviluppo strategico «ha una grande flessibilità per adattarsi ai cambiamenti dei mercati» nei prossimi trent’anni.
Ogni commento sarebbe superfluo.
[1] Rapporto “Still A Big Con”, tinyurl.com/StillABigCon.
[2] La mega centrale a carbone di Drax, nel Regno Unito, è la seconda più “sporca” d’Europa nel registro UE delle emissioni. Ha in progetto di riconvertirla alla produzione di gas.
[3] È la più grande società di investimento nel mondo, con sede a New York. Gestisce un patrimonio totale di quasi $ 8.000 mld (2020), di cui un terzo in Europa [fonte: Wikipedia]
Il bilancio della COP26 : criminale, indecente, dilatorio: https://blogs.mediapart.fr/maxime-combes/blog/131121/le-bilan-de-la-cop26-tient-en-3-mots-criminel-indecent-dilatoire