Gay perseguitati anche nei campi profughi

Uganda-Lgbti. Cade nel nulla l’appello delle associazioni a Bergoglio per condannare omofobia e leggi super punitive. La denuncia della comunità: «Nel Paese africano, pedofilia e omosessualità vengono equiparati»

di Rita Plantera (*)

GayUganda-daVociGlobali

Il mese scorso, al papa in marcia in difesa dei diritti degli ultimi in Uganda, Kenya e Repubblica Centrafricana, le organizzazioni locali e internazionali pro Lgbt e le comunità Lgbt avevano espresso una semplice quanto impellente richiesta: non la benedizione del loro orientamento sessuale diverso ma un messaggio di tolleranza rivolto tanto alle aule dei tribunali quanto alle comunità civili e religiose. Un appello e una preghiera a cui ha fatto eco un rumoroso silenzio e che restano del tutto disattesi.

Costruito nel 1992 per accogliere i migliaia di «Lost Boys» fuggiti dalla parte meridionale di quello che allora era il Sudan, il campo profughi di Kakuma si trova a nord ovest di Nairobi, nel distretto di Turkana — a 95 chilometri dal confine con il Kenya e il Sudan. Ospita circa 185.000 persone, per lo più provenienti dal Sud Sudan (oltreché dalla Somalia, l’Etiopia e la regione dei Grandi Laghi) e si appresta ad accoglierne altre 80.000 secondo quanto annunciato a giugno scorso dall’agenzia Onu per i rifugiati (Unhcr).

Di questi circa 500 sono omosessuali, bisessuali e transgender (Lgbt) che hanno lasciato l’Uganda per sfuggire alla persecuzione omofobica legalizzata del loro Paese. Vivono in tre compound in un angolo appartato del campo e rifugiatisi in Kenya in cerca di asilo e protezione soffrono invece anche qui le angherie (vessazioni della polizia, rapimenti, estorsioni) e gli insulti da parte di una società civile e di una classe politica non meno omofobica di quella ugandese.

Secondo quanto denunciato da Human Rights Watch (Hrw) e Pema Kenya, sarebbero gli stessi leader religiosi a essere spesso in prima linea nell’incitamento alla violenza contro la comunità Lgbt. E d’altro canto le forze di polizia se da un lato intervengono a difendere i “diversi” da comuni attacchi omofobici dall’altro però difficilmente ne perseguono i responsabili. Rifiutandosi in molti casi di raccogliere le dichiarazioni da parte di persone Lgbt che denunciano crimini quali gli stupri di gruppo.

In Uganda l’omosessualità è illegale ed è considerata alla stregua della pedofilia: «Quando si parla di omosessualità in Uganda, le uniche cose che risuonano nella mente delle persone sono gli abusi sui minori e la nostra cultura» sostiene Frank Mugisha, direttore di Sexual Minorities Uganda (Smug), la principale organizzazione Lgbt del Paese, e collega di David Kato un attivista per i diritti Lgbt brutalmente assassinato nel 2011.

Alla pari della maggior parte dell’Africa Sub-Sahariana, l’Uganda resta un Paese socialmente ultra conservatore e religioso.
Ad agosto 2014, la Corte Costituzionale dell’Uganda ha annullato per ragioni tecniche (in Parlamento non era stato raggiunto il quorum necessario per procedere alla votazione) una legge draconiana contro le relazioni Lgbt approvata appena sei mesi prima dal presidente Yoweri Museveni con il sostegno di larghissime frange della comunità civile e religiosa. Una legge che oltre a prevedere pene detentive a partire da 14 anni di carcere fino alla pena di morte – poi convertita in carcere a vita su forti pressioni internazionali – per i casi più recidivi di «omosessualità aggravata», contemplava la detenzione in carcere anche per chi non denunciasse gli untori omosessuali. Assegnando così licenza di persecuzione e legalità alle violenze e alle discriminazioni perpetrate dagli omofobi di turno sempre in guardia per “correggere” donne e uomini deviati. E criminalizzando quanti, malati di Hiv, sono rei in quest’ottica di comportamenti e atti omosessuali e transgender e come tali da condannare.

Dopo l’annullamento della legge — nota anche come «Kill the Gays Bill» — da parte dell’alta corte, l’omosessualità in Uganda resta tuttora un reato ed è punibile con parecchi anni di carcere, ma gli ugandesi non sono costretti, per legge, a denunciare la comunità Lgbt alle autorità. Ancora per poco però, visto che nei mesi scorsi è già stato presentato un nuovo disegno di legge che reintroduce il reato di «promozione» dell’omosessualità. Una proposta probabilmente già al vaglio e che converrà a Museveni difendere (nonostante le forti critiche della comunità internazionale) per guadagnare popolarità in vista delle elezioni presidenziali previste per i primi mesi del 2016.

(*) pubblicato sul quotidiano «il manifesto» del 12 dicembre.

 

Redazione
La redazione della bottega è composta da Daniele Barbieri e da chi in via del tutto libera, gratuita e volontaria contribuisce con contenuti, informazioni e opinioni.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *