Gennaio 1925: le 72 ore che ferirono a morte la democrazia
di Paolo Papotti (*)
Il 16 novembre 1922, Benito Mussolini aveva tenuto alla Camera dei deputati il primo discorso in veste di presidente del Consiglio dei ministri del Regno d’Italia. Aveva rivolto all’Aula “sorda e grigia” il “discorso del bivacco”
Il 3 gennaio 1925 cade di sabato. Dopo i festeggiamenti, i cenoni, i botti di Capodanno, si prospetta un ponte lungo. Le attività riprendono lunedì 5 gennaio. Per molti, ma non per la politica che, indefessa, apre la Camera dei deputati proprio di sabato. È un evento straordinario? È morto il Re? Una calamità naturale? Nulla di tutto questo. La seduta reca diversi punti all’ordine del giorno: domande di autorizzazioni a procedere, presentazione di documenti, proposte di legge e risposte ad interrogazioni. In mezzo, quasi fosse una delle tante questioni da affrontare, si legge: “dichiarazioni del presidente del Consiglio”. Fra proposte di legge e autorizzazioni a procedere, il figlio del fabbro di Predappio, il più giovane presidente del consiglio che l’Italia abbia mai avuto, si rivolge ai deputati. L’intervento prefestivo non è motivato da “capriccio di persona” e nemmeno da “libidine di governo” e tantomeno da “passione ignobile”, ma “soltanto” da “amore sconfinato e possente per la patria”.
Spinto da così grande dedizione per l’Italia si tiene il secondo discorso di Mussolini dopo quello del “bivacco”, sempre alla Camera, il 16 novembre 1922, dove aveva presentato il suo governo e si era nominato ministro degli Esteri e ministro degli Interni. Nel giugno 1924 aveva ceduto la seconda carica a Luigi Federzoni, se la riprenderà l’anno successivo per mantenerla fino al 25 luglio 1943. Ecco una parte della trascrizione dell’intervento del capo del fascismo del 3 gennaio ’25:
“Il discorso che sto per pronunziare dinanzi a voi forse non potrà essere, a rigor di termini, classificato come un discorso parlamentare… … Sono io, o signori, che levo in quest’Aula l’accusa contro me stesso. Si dice: il fascismo è un’orda di barbari accampati nella nazione; è un movimento di banditi e di predoni! Dichiaro qui, al cospetto di tutto il popolo italiano, che io assumo, io solo, la responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto è avvenuto. Se le frasi più o meno storpiate bastano per impiccare un uomo, fuori il palo e fuori la corda! Se il fascismo non è stato che olio di ricino e manganello, e non invece una passione superba della migliore gioventù italiana, a me la colpa! Se il fascismo è stato un’associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione a delinquere! Quando due elementi sono in lotta e sono irriducibili, la soluzione è la forza. Non c’è mai stata altra soluzione nella storia e non ce ne sarà mai. Ora io oso dire che il problema sarà risolto. Il fascismo – governo e partito – sono in piena efficienza. Vi siete fatti delle illusioni! Voi avete creduto che il fascismo fosse finito perché io lo comprimevo, che fosse morto perché io lo castigavo. Ma se io mettessi la centesima parte dell’energia che ho messo a comprimerlo, a scatenarlo, voi vedreste allora. Non ci sarà bisogno di questo, perché il Governo è abbastanza forte per stroncare in pieno definitivamente la sedizione dell’Aventino. L’Italia, o signori, vuole la pace, vuole la tranquillità, vuole la calma laboriosa. Noi, questa tranquillità, questa calma laboriosa gliela daremo con l’amore, se è possibile, e con la forza, se sarà necessario. Voi state certi che nelle quarantott’ore successive a questo mio discorso, la situazione sarà chiarita su tutta l’area”. Alla fine del discorso il verbale riporta: “Vivissimi prolungati e reiterati applausi – Grida ripetute di: viva Mussolini! – Gli onorevoli ministri e moltissimi deputati si congratulano con l’onorevole presidente del Consiglio. La seduta è sospesa alle 16.10 ed è ripresa alle 16.35).
L’assassinio di Matteotti aveva fatto tremare i vertici del Pnf, del governo e lo stesso Mussolini, si diceva addirittura avesse le ore (politiche) contate. Mussolini, alla Camera, il 3 gennaio 1925 fece capire al Paese che da quel momento sarebbe cambiato tutto. Nel luogo della democrazia, parlando dunque al popolo attraverso i suoi rappresentanti, viene spiegato in che modo la violenza, connaturata e geneticamente costitutiva del fascismo, diventerà metodo di governo che la agirà in tutte le sue forme: verbale, psicologica e fisica fino alla morte. Non che fino a quel momento, il fascismo, non ne avesse dato già ampie dimostrazioni, sia chiaro. L’uso sconsiderato della forza e della violenza in maniera gratuita e coercitiva è la “filosofia” che serve ad imporre il proprio credo. Come partito e come governo, che coincidono. Davanti ad una Camera di yesman eletti in virtù della legge Acerbo, Mussolini, che fa della abilità oratoria una sua eccellenza, con l’arroganza di chi sa della certezza dell’impunità, si prende le responsabilità che solo i posteri potranno giudicare, quella storica, politica e morale, tranne quella penale, cioè la responsabilità che avrebbe permesso un coinvolgimento effettivo e, quindi, un processo. Sotto processo andrà, invece, tutta l’Italia che sarà coinvolta in continue indagini preventive in cui magistrato, avvocato, giuria, hanno lo stesso mandato: punire le opposizioni. Di più, punire anche solo chi pensa.
Mantenendo fede all’impegno delle “quarantott’ore successive”, ecco il telegramma ai prefetti proprio del 3 gennaio 1925: “Portare ogni cura nell’adozione delle misure atte a garantire il mantenimento dell’ordine pubblico in qualunque circostanza. 1) chiusura di tutti i circoli e ritrovi sospetti dal punto di vista politico; 2) scioglimento di tutte le organizzazioni che sotto qualsiasi pretesto possano raccogliere elementi turbolenti o che comunque tendano a sovvertire i poteri dello Stato; 3) lo scioglimento di tutti i gruppi dell’Italia libera (associazione antifascista di ex-combattenti) vietandone sin da ora qualsiasi attività; 4) vigilanza dei comunisti e sovversivi che diano prova o sospetto di attività criminosa procedendo a retate degli elementi pericolosi e avvertendo che ogni tentativo di resistenza deve essere severamente represso con ogni mezzo; 5) rastrellamento di armi illegalmente detenute operando oculate frequenti perquisizioni; 6) vigilanza rigorosissima sugli esercizi pubblici”.
Il 4 gennaio nuovo telegramma ai prefetti per rivolgersi ai fasci locali. Era, forse, un modo per “controllare l’italico ardore” della Milizia, intransigente anche verso Mussolini stesso? “Prego chiamare immediatamente dirigenti federazioni provinciali fasci et tenere loro seguente discorso: dopo seduta Camera tre gennaio ogni ulteriore incidente disordine il legalismo sporadico nuocerebbe gravemente governo et fascismo e gioverebbe esclusivamente opposizioni. Governo intende reprimere ogni tentativo disordine che non avrebbe più alcuna menoma giustificazione. Nazione unanime chiede laboriosa calma lavoro disciplinato e fascisti devono dare essi per primi esempio. Aggiungo che di ogni ulteriore tentativo disordine terrò non solo politicamente responsabili i dirigenti federazioni stesse. Gradirò conferma”.
Se non fosse l’anno di cui stiamo parlando, sarebbe da riderci sopra. Nemmeno il più abile dei commedianti avrebbe partorito una contraddizione simile che solo il nonsense dei Monty Python avrebbe potuto creare. I fascisti, geneticamente violenti che attraverso la violenza hanno obbligato il consenso, devono dare esempio di disciplina per evitare i disordini che il governo fascista violento intende reprimere. E questo non per la tutela dei cittadini, no, figuriamoci, ma per evitare di dare argomenti alle opposizioni.
Il risultato “operativo” dei due telegrammi è riportato in Consiglio dei ministri il 6 gennaio. In soli tre giorni chiusi 95 circoli e ritrovi sospetti, 150 esercizi pubblici e 25 organizzazioni sovversive; sciolti 120 gruppi di Italia libera; 611 reti telefoniche e 4.433 posti pubblici controllati; vengono effettuate 655 perquisizioni domiciliari e 111 sovversivi sono arrestati.Gran senso dello Stato del figlio del fabbro di Predappio!
Ma in questi tre giorni, il re dov’è?
È necessario, senza sminuire le responsabilità di Mussolini, tirare in causa Sua Maestà, Vittorio Emanuele III, il capo dello Stato. Per fare ciò è necessaria una breve premessa sul ruolo del Re sancito dallo Statuto Albertino. La monarchia era costituzionale ed ereditaria secondo la legge salica (norma discendente dal diritto di età medievale), il re era e restava capo supremo del Paese e la sua persona rimaneva “sacra e inviolabile”, questo non significava che non dovesse rispettare le leggi. L’art. 22 prevedeva il giuramento: “Il Re, salendo al trono, presta in presenza delle Camere riunite il giuramento di osservare lealmente il presente Statuto”. Il re non poteva essere oggetto di sanzioni penali; manteneva una certa preminenza ed esercitava il potere esecutivo attraverso i ministri; convocava e scioglieva la Camera dei deputati e aveva il potere di sanzione delle leggi, perché con essa valutava il merito dell’atto e poteva rifiutarlo se riteneva la legge non rispondente all’indirizzo politico perseguito dalla Corona. La sovranità non apparteneva alla nazione (benché all’art. 41 si faccia espresso riferimento ai deputati come “rappresentanti della Nazione”) ma al re, il quale, da sovrano assoluto, si trasformava in “principe costituzionale” per sua esplicita volontà e concessione. Il re decideva automaticamente circa il governo e il Parlamento si limitava a fare le leggi “collettivamente”, con l’apporto del re e la sua sanzione. Quindi al re appartenevano i tre poteri: esecutivo, nomina del presidente del Consiglio e dei ministri; quello legislativo, il re nomina i senatori, mentre il popolo per voto (solo maschile) la Camera; e quello giudiziario con la nomina dei magistrati. Chiarito questo, le parole seguenti assumono un carattere particolare e specifico, dai punti di vista legale, formale e politico.
“Hai sentito questo tuo presidente del Consiglio, incolpato di sistema di delinquenza politica, con quale araldica e facinorosa disinvoltura si è processato da sé, e si è assolto da sé? E si è assunto la responsabilità, che davvero gli spetta intera, del regime di violenza materiale e morale che dilania sempre più minacciosamente la tua nazione?”. A chi sono rivolte queste parole? Lo si può intuire da “questo tuo presidente del Consiglio”: sono rivolte proprio al Re. Ma chi si rivolge al re in seconda persona? Si può pensare una persona che lo conosce, che ha confidenza. È una persona che aveva preso parte al primo conflitto mondiale in qualità di ufficiale di complemento, nella quale era stato ripetutamente ferito, meritando tre medaglie d’argento al valor militare, varie onorificenze italiane e francesi e la promozione a maggiore per meriti di guerra. Dunque, parafrasando Don Abbondio: “chi era costui?” A tirare in causa il Re è Ferruccio Parri con la lettera pubblicata su Il Caffè l’11 gennaio 1925. Parri non usa giri di parole per rimandare al “Signor Re”, le sue responsabilità. Il pretesto è proprio il discorso alla Camera del 3 gennaio di Mussolini.
La lettera continua con una accusa all’atteggiamento di Mussolini verso l’istituzione parlamentare: “E come ha parlato questo tuo ministro! In quel giorno tra lui e la Camera, che partecipa con te alla potestà legislativa, tu proprio non c’eri: c’era un dittatore che minacciava quarantotto ore oscure per liquidare non i suoi avversari ma i suoi accusatori; come sopra le parti in Italia non ci fossi tu, la tua magistratura ed uno Statuto. Quest’uomo, che grida di voler ridurre l’Italia ad accettare da lui per forza una pace che non sa dare perché la sua statura è troppo più piccola della pace; quest’uomo ha parlato come un re al quale la tua maestà non serve che come espediente polemico. Io, Re al tuo posto, l’avrei licenziato come un servo petulante”. O Re, questa è l’ora nella quale la solidità della tua dinastia e della tua tradizione è chiamata a dare prova decisiva”. Chiede quindi a Vittorio Emanuele III di svolgere il suo ruolo di garante verso il funzionamento dell’istituzione.
Poi entra nel merito della situazione sociale. “[…] Il danno è grave e profondo: disorientamento e turbamento generale. L’unità morale del Paese è sempre più profondamente ferita: le masse proletarie si alienano sempre più dalla nazione che le comprime, le vessa e spoglia i suoi istituti. […] Questo regime che alimenta e vive di vigliaccheria, che ha guastato, contaminato, confuso tutto è intimamente paralizzato, incapace di restituire al paese normalità di vita politica”. Parri sollecita il re di farsi carico di una incapacità in cui la propaganda ha sostituito la politica, producendo disagi. In virtù di questo rimanda ancora al ruolo della corona. “Se la paralisi investe tutti gli organi dello Stato, il re rimane scoperto e la gente si chiede: il re? Che fa il re? Le voci più contraddittorie corrono ad ogni ora su quello che farai o non farai […] e molti dubitano di te. […] La battaglia precipita agli atti decisivi”. Parri sa quali sono i poteri del sovrano e gli chiede di esercitarli.
Parri sostiene che l’opposizione non abbia condotto nel modo migliore la lotta al governo, ma sostiene che, indipendentemente dal suo pensiero […] “Da esse, (le opposizioni, ndr), verrà al governo una perentoria messa in mora che sarà anche una chiamata in causa della monarchia diretta ed esplicita contro il capo del governo, del tuo governo […]. E allora quella sarà la tua ora, Re d’Italia. Non tradire”. Parri esorta il Re a “Non affidare l’onore del tuo Paese ad un giocatore d’azzardo, che vuole giocare non ci importa per quali fini e quali suggerimenti, questa ultima carta. Non tradire la tua dinastia” […]. “Noi siamo legalitari; noi vogliamo essere legalitari, perché questa catena dei governi di piazza deve essere ad ogni costo troncata”. Auspica, quindi, che l’intervento del Re riporti la politica al governo.
Per correttezza di informazione è opportuno considerare il “dietro le quinte” della vicenda. Mettendo sul tavolo colloqui, inviti, incontri, posizioni avvenute nei concitati giorni dopo il discorso del 3 gennaio. Secondo la testimonianza di Cino Macrelli (repubblicano romagnolo e deputato aventiniano), il re non era stato informato del discorso da Mussolini; lo stesso Vittorio Emanuele III avrebbe avuto intenzione d’intervenire sollecitando le dimissioni dei due ministri militari, deciso a mettere alla porta Mussolini e il suo governo. L’ultimo dell’anno i consoli della Milizia avevano fatto visita a palazzo Chigi, col proposito di indurre il duce ad agire risolutamente, e se occorreva violentemente, contro l’opposizione. In caso contrario la Milizia avrebbe preso l’iniziativa. Secondo Macrelli, Mussolini avrebbe precipitato le cose non solo e non tanto per l’imposizione dei consoli, quanto per prevenire il passo del re, mettendolo di fronte al fatto compiuto.
Il giorno stesso del discorso, Salandra e Giolitti s’incontrarono. Era la prima volta che questo avveniva dal 1915, quando Giolitti aveva bruscamente rotto con Salandra, accusandolo di “tradimento” per aver portato, contro gli impegni assunti con lui, l’Italia in guerra. Salandra propose di recarsi con lui e Orlando dal re per saggiare le sue intenzioni, ma Giolitti lo escluse. “Si risaprebbe e parrebbe un pronunciamento”. Probabilmente Giolitti ritenne inutile il passaggio col re in quanto, il sovrano, non aveva nessuna intenzione di muoversi. Anche nell’Aventino c’è tormento. Turati scrive alla Kuliscioff: “Il duello non è soltanto con noi ma è anche, e forse più, collo stesso Quirinale”. Turati voleva tornare in aula e riprender la battaglia di opposizione. Amendola, fedele alla sua idea della “condanna morale”, era contrario. I comunisti avrebbero voluto lo sciopero generale.
Dunque, anche questi “colloqui” avvenuti o paventati, spiegano i contenuti della lettera di Parri che conclude: “Ma, Re, non tradire lo Statuto che hai giurato. La crisi ha raggiunto l’estremo limite dell’ambito istituzionale; tra poco non dipenderà che da te. E metterà forse in gioco anche te, se non saprai essere re. Non ridurre gli italiani a sperar salvezza da un colpo di mano di generali, o da pronunciamenti di piazza. Non ridurli a disprezzare il tuo stato e il tuo Statuto”. Era l’11 gennaio del 1925.
Il re avrà risposto all’accorato appello di Parri? Gli saranno venuti almeno un po’ di scrupoli o qualche dubbio? Il futuro partigiano Maurizio incita il re perché, dopo l’assassinio Matteotti, il Paese aveva avuto un sincero soprassalto di sdegno. Sdegno che se avesse trovato un risoluto interprete avrebbe potuto mettere Mussolini alle corde. Ma restano gli atti: Vittorio Emanuele III firmerà tutte le leggi fascistissime, e non solo, se si pensa alle leggi razziali nel 1938). Nel 1943, dopo l’armistizio, abbandonerà la capitale e lascerà i militari italiani in patria e sui fronti esteri, senza ordini e possibilità di difesa. Tanto basta per non sollevarlo mai dalle sue responsabilità storiche, politiche e morali.
(*) Paolo Papotti è componente della Segreteria nazionale Anpi, responsabile Formazione. Questo testo è ripreso da www.patriaindipendente.it
BIBLIOGRAFIA
“M. L’uomo della provvidenza” di M. Scurati;
“Ferruccio Parri – Scritti 1915/1975” a cura di E. Collotti, G. Rochat, G. Solaro Pelazza, P. Speziale;
“I repubblicani di fronte al fascismo” (1919-1926) di S. Fedele;
“La macchina imperfetta – immagine e realtà dello stato fascista” di G. Melis;
Archivio Camera dei deputati.