Georges Simenon, Gaetano Savatteri, Michele Pompei…
…con Alessandro Robecchi, Ciro Sabatino, Antonio Manzini
sei recensioni di Valerio Calzolaio
La porta – Georges Simenon
Traduzione di Laura Frausin Guarino
Adelphi Milano 2024
Pag. 142 euro 18
Parigi, intorno a place des Vosges. Luglio 1959. Il 42enne Bernard Foy vive da venti anni con la moglie 38enne Nelly in un appartamento al quarto piano di rue de Tourenne (III), all’angolo di rue des Minimes. Nel 1940 gli furono amputate entrambe le mani; era di pattuglia in un bosco tra la linea Maginot e la linea Siegfried; strisciava nella neve quando pare abbia toccato una mina, subito esplosa; si è risvegliato in un ospedale militare, già operato. Prima lavorava come meccanico in un garage delle Halles, durante il servizio militare a Épinal aveva conosciuto Nelly, che faceva la giovanissima maschera in un cinema; si erano sposati a inizio 1939 e stabiliti lì, a due passi dal place des Vosges (fra III e IV Arroindessement), dove lui era nato e dove sua madre, a quell’epoca, faceva ancora la portinaia (IV); Nelly aveva smesso di lavorare. Dopo il trauma è stata dura, col tempo hanno individuato le protesi artigianali adatte (da togliere ogni sera); lui si è vista riconosciuta una modesta stabile pensione da invalido di guerra; lei ha intrapreso la vita di magazziniera presso la ditta Delangle&Abouet in place des Vistoires (tra I e II), la più importante passamaneria di Francia, da poco pure promossa caporeparto. Bernard passa le giornate a osservare gli altri dalla finestra (spia ogni movimento), ad ascoltare i rumori (suo malgrado) dei vicini e della strada, a fare spesa e cucinare. Pensa di non essere più un vero uomo ed è convinto che lei possa e debba aver bisogno di altri (in certo modo giustamente). Si amano, fanno sesso volentieri e spesso, si confidano. Eppure, il tarlo ossessivo agisce sia in lui che, indirettamente, in lei, prodromo di tragedie forse, soprattutto da quando al primo piano si è trasferito il giovane fratello della collega, un illustratore poliomielitico su sedia a rotelle, ogni giorno assistito da un’infermiera. Nelly deve fargli commissioni, si ferma là per qualche minuto.
Il romanzo è molto bello. Di Simenon sappiamo quasi tutto (1903 – 1989, origine bretone, belga di nascita, francese d’adozione, non solo parigino d’elezione, quasi trecento romanzi, uno degli autori più letti al mondo) e la grande casa editrice milanese Adelphi sta ottimamente progressivamente garantendo la pubblicazione integrale dei suoi scritti. Questa lunga ansiogena novella originariamente del 1962, né noir né rosa, ma certo di ineluttabile amore, era inedita in italiano. La porta del titolo è quella brutta, con un colore spento e il pomolo di maiolica bianca, dell’allegro sereno 28enne vignettista Pierre Mazeron, il fratello dell’invadente opportunista Giséle, trasferitosi al primo piano dell’edificio in cui vivono marito e moglie. Probabilmente è noto quante volte vi è entrata attraverso Nelly, ma conta soprattutto quante volte Bernard avrebbe voluto aprirla! La narrazione è in terza fissa al passato su di lui, pur se i protagonisti sono anche la moglie, leale e semplice, sempre più bella e ormai pure un poco rotondetta, e soprattutto la dinamica di coppia che (come spesso accade) assume vita propria. Sullo sfondo i due medici (uno diabetico) che si interessano al caso clinico e umano, donne e uomini vicini e dirimpettai, negozianti e clienti delle botteghe consuete. L’ambiente è perlopiù quello dell’appartamento in cui la coppia abita e delle passeggiate che fanno insieme a braccetto (più o meno) per le strade della città; i dialoghi sono i loro, il detto e il non detto, significativo tanto quel che si esprime quanto quel che si pensa; la relazione si è adattata ed è evoluta in forme affettuose per due decenni; ora lui vive una crisi di gelosia, è contrariato e ossessionato, pensa alla morte; lei era una donna “vissuta” quando si sono conosciuti e non può che prenderne atto via via, a proprio modo. Una qualche garbata tragedia incombe, anche se l’autore è bravissimo a rendere plausibili molti finali dalle stesse premesse. Vario ordinario vino accompagna spesso i pasti. Si ballano le canzoni d’epoca, talora in giro e in piazza, difficile non entusiasmarsi.
La Magna Via – Gaetano Savatteri
Sellerio Palermo 2024
Pag. 287 euro 15
Màkari, Palermo e Magna Via Francigena. Un recente inverno. Dopo vari intensi colloqui con l’editore (cui risponde che vuole cambiare genere), il quasi cinquantenne giornalista Saverio Lamanna è costretto d’improvviso a muoversi, deve inseguire il padre. Nemmeno alle otto di mattina, mentre è a casa con la magnifica Suleima, arrivano prima l’amico Peppe Piccionello, in preda alla passione podistica e al conteggio di almeno diecimila passi al giorno, poi la telefonata della “zia” Rosina, preoccupata perché il papà (quasi ottant’anni, pressione alta, mille acciacchi) ha deciso di mettersi in cammino con l’amico Mimì (diabetico), marito di Rosina. Deve andare subito a Palermo per fermarlo. Non vi riesce e allora lo segue, tutti a piedi, mentre Peppe e Suleima decidono di intercettarli ogni tanto con l’auto. La determinazione dei due attempati vispi signori non lascia spazi di fuga, hanno saputo che Agrigento è stata nominata capitale della cultura 2025, partiranno comunque, deve predisporsi ad andare con loro, nella buona e nella cattiva sorte. Papà e Mimì hanno preso scarponcini, zaino e piccozza si sono preparati per un cammino che torni all’antico rapporto con la natura e si sono dotati di altimetrie e informazioni pratiche tappa per tappa, Saverio s’adegua (memore di una breve esperienza di scout, a tredici anni d’età). Dopo due giorni, il primo tratto previsto sarà Palermo, Monreale, Piana degli Albanesi; Saverio li raggiunge con il mitico tassista Franco in Multipla. E non finirà lì, anche per Saverio si prospetta una ricca sequela di incontri e avventure, ricordi vicini e lontani, De bello siculo. Ci sarà di che divertirsi, fra l’altro incrociano pure un penoso lager per cani, vicenda su cui pericolosamente indagare e reagire.
Il bravo giornalista Gaetano Savatteri (Milano, 1964) è cresciuto a Racalmuto in Sicilia, da parecchio vive e lavora a Roma; grazie anche all’editore insiste sul suo scoppiettante protagonista seriale e sulla relativa corte dei miracoli, che funzionano opportunamente proprio per raccontare usi e costumi siciliani, fatti e miti, luoghi arcinoti e angoli fantasmagorici, con intelligente ironia e autoironia, usando indagini su morti come pretesti vitali. L’allegra narrazione è in prima persona al presente: contano dialoghi, situazioni, personaggi, rimandi, citazioni, giochi di parole, insieme a sapori colori odori umori di una terra magnifica e biodiversa. Il problema è che l’incedere narrativo e stilistico è un po’ sempre lo stesso, ripetitivo nel singolo romanzo e nella serie. Il titolo fa riferimento al percorso tracciato dopo l’anno Mille dai Normanni, che collegava due sponde della più grande isola mediterranea, usato come via di comunicazione dei sapiens e di transumanza delle greggi, una rete di piccoli centri oggi in progressivo spopolamento (esplicite ed efficaci le connessioni con le analisi antropologiche di Vito Teti, che cita il rilevante diritto di restare, e i componimenti poetici di Franco Arminio). Imprecisi i richiami ai Neandethal, come spesso quasi ovunque, purtroppo. Ben si discute se e come l’Isola delle Femmine sia stata usata per la detenzione, a pagina 40. Anche questa volta l’intreccio, molti dialoghi e i pensieri del pigro protagonista (personaggio letterario, indagatore casuale, disoccupato di successo, giornalista in disarmo, elucubrante spigliato alter ego dell’autore, con diversa biografia e a dieci anni di distanza) ruotano intorno al disagio nella dialettica vecchi-giovani, nostalgia-euforia, resistenza-esuberanza. Sulla strada, birra Messina e arancine. Musiche e parole stimolano l’intelletto, la voce di Teresita s’intona con gli Inti Illimani.
Razze umane. Breve storia di un lungo inganno – Michele Pompei
Con la collaborazione di Roberto Russo
Prefazione di Telmo Pievani
Postfazione di Silvia Bencivelli
Scienza Express Trieste 2024
Pag. 119 euro 17
Pianeta terra. In questi circa trecento mila anni. Altruismo e conflitto nascono dalla stessa radice biologica (oltre che culturale). Oggi le attitudini razziste si scontrano contro l’evidenza scientifica, ma la scoperta dell’inesistenza delle razze umane scalfisce solo minimamente i razzisti. Non hanno alcun argomento biologico, storicamente importante, d’accordo, ma sfortunatamente si può discriminare qualcuno anche soltanto per ragioni culturali e cognitive; continuano così ad avere successo le criminali operazioni di costruzione intenzionale del nemico, talora sfociate in massacri e pulizie etniche anche tra gruppi umani che fino a un certo momento erano convissuti nella stessa regione. Tuttavia, l’apprendimento culturale e sociale può anche mitigare le reazioni istintuali, farci liberamente scegliere di avere comportamenti scientificamente corretti. La cultura può battere l’amigdala, alcune competenti e appassionate riflessioni risultano antidoti contro le scorciatoie mentali che talvolta seducono il nostro cervello. Può essere pertanto utile descrivere più in particolare il cortocircuito fra inesistenza fattuale delle razze e radicamento persistente dei razzismi in dinamiche collettive, verificando i riferimenti formali alla “razza” (magari con contenuti di contrapposizione) in dizionari, costituzioni, questionari informativi. In tal senso, occorre valutare bene se esista una qualche definizione più funzionale di razza biologica, visto che certo vi sono state una irresistibile ascesa, diffusione e affermazione della parola, dell’equivoco e dei paradossi dalla fine del XVII secolo ai giorni nostri.
L’ottimo giornalista, regista e conduttore radiofonico bolognese Michele Pompei (1966) racconta in modo succinto ed efficace la storia secolare e culturale del lungo “inganno” connesso all’idea di “razze umane” (da cui il titolo), ancora spesso evocate nei contesti più diversi, suggerendo (attraverso dubbiose approfondite meticolose riflessioni) la conclusione che è proprio meglio riformularla sempre e toglierne quanto più possibile i riferimenti in atti ufficiali. L’”invenzione” è servita a giustificare colonialismo, schiavitù e altre nefandezze. Il primo capitolo (“cavalli di razza”) ricostruisce e disamina le questioni etimologiche nazionali, concludendo che il termine è comparso in Sicilia attorno alla metà del Duecento dal francese haraz, il cui significato è “allevamento di cavalli”: dovrebbe dunque essere adoperato “solo per definire un’identità non umana”. Il secondo capitolo (“vedi alla voce razza”) riguarda il contesto comparato dei dizionari delle varie lingue; dopo premesse metodologiche, viene esaminato innanzitutto un campione di 19 europee ove, con rare eccezioni, si mantiene il riferimento al termine italiano, se ne conserva la radice, esiste fra le plurali definizioni anche una qualche modalità di identificare gli esseri umani; fra le altre decine di lingue asiatiche e africane campionate (accennando alle famiglie linguistiche), radici e termini risultano più vari e cangianti, talora (come in ebraico) non esiste nemmeno una traduzione univoca; gli aspetti problematici riguardano quasi esclusivamente l’occidente, conseguenza delle grandi esplorazioni, delle migrazioni e del pessimo colonialismo. Il terzo capitolo compie “il giro della razza in ottanta costituzioni”, 14 dell’Africa, 8 delle Americhe, 18 dell’Asia, 2 dell’Oceania e 38 dell’Europa, con particolare attenzione all’Assemblea Costituente e alla Costituzione italiana (“razza” si potrebbe anche togliere come proponeva Pietro Greco, fra gli altri). Il quarto capitolo valuta quali e quante eventuali razze umane vengono contemplate in questionari informativi e formulari di singoli stati (uno diverso dall’altro, comunque, nel merito e nel metodo), con particolare attenzione alle aggiornate osservazioni della medicina statunitense e all’uso come sinonimi di etnia, identità, cultura. Il quinto capitolo distingue tre principali tipologie di razzismo: primario (diffidenza biologica propria di molte specie), secondario (specifico dei sapiens), terziario (teorizzato da alcuni), con particolare attenzione ai testi del grande Charles Darwin. Il sesto capitolo è stato steso dal giovane comunicatore scientifico Roberto Russo e parla di genetica, precisando che ormai i tempi sono tornati maturi per limitare l’uso del termine razza solo a “identità non umane”. Manca un indice dei nomi e un’unitaria bibliografia (testi citati nelle poche singole brevi note a piè di pagina). Ottimi spunti da Pievani e Bencivelli. Innumerevoli sono i riferimenti alle migrazioni e al meticciato della nostra specie, forse senza trarne in questa occasione alcune possibili conseguenze nella biologia e nelle scienze evoluzionistiche.
Le verità spezzate – Alessandro Robecchi
Rizzoli Milano 2024
Pag. 267 euro 16
Milano e Lago di Como. Un recente settembre e tempo addietro. Il 74enne Manlio Parrini è un regista mitico, un Maestro nella storia del cinema planetario. Si è ritirato poco dopo l’enorme successo mondiale di critica e di pubblico del suo capolavoro Le verità spezzate. Nel febbraio 1998 si trovava a Montréal a ritirare l’ennesimo premio, stufo di venir considerato una sorta di culto ambulante, Anita lo aveva appena lasciato per un attore più giovane di lei, allora aveva pubblicamente dichiarato di smettere: non avrebbe mai più fatto cinema, ormai un posto senza verità. Un quarto di secolo dopo, quel dì, quasi alle sei di un tramonto settembrino milanese, davanti alla statua del Manzoni di piazza San Fedele, si accende una sigaretta e pensa a quando lì c’era la questura, vede il commissario De Vincenzi che entra ed esce all’aperto, in quel “lago bituminoso di nebbia”, come bene scriveva De Angelis nel 1935, e immagina una storia dentro l’antica città senza nessuna frenesia, monumentale e scura, oppressa. Ci si potrebbe fare un gran film, pensa e rimugina. Raccoglie materiali nella sua funzionale elegante centrale residenza studio, un ampio padiglione vetrato con piccola sala di proiezione, autonoma dépendance dell’enorme villa di un suo mecenate, presa per un modesto affitto (che non aveva mai dovuto pagare) e poi acquistata a poco quando il cavalier Guido Bastoni stava per morire (praticamente solo le spese del notaio). Mentre cerca un produttore, chiama l’amica 38enne sceneggiatrice Sara De Viesti, alta con i capelli rossi, e la coinvolge nell’ipotesi di impresa artistica, un cold case del luglio 1944, la morte di De Angelis a Bellagio, da poco uscito dal carcere dove era detenuto per teorico antifascismo, ancora per mano fascista sembra (nel periodo di Salò). Vengono distratti, nella villa è stato scoperto l’omicidio della ricca vedova Bastoni, si scatena un nuovo caso eclatante (il nipote ha incarichi ministeriali, i giornalisti impazzano), entrambi da risolvere con nuove idee.
A inizio anno 2024 il giornalista (spesso argutamente radicale e satirico), autore televisivo (con Crozza dal 2007) e affermato scrittore Alessandro Robecchi (Milano, 1960) era uscito con il decimo godibile romanzo dell’ottima serie metropolitana d’alta qualità, la divertente raffinata epopea monterossiana (il primo volume nel 2014, poi anche vari racconti), giunta in televisione (protagonista il bravo attore Fabrizio Bentivoglio). A autunno 2024 esce il primo romanzo “fuoriserie” (a parte saggi e articoli), molto ben fatto. Il titolo (anche del capolavoro cinematografico del protagonista) riguarda ogni vita e ogni storia, piccola e grande, non a caso in esergo c’è Simenon (“la verità non sembra mai vera”): occorre cercare di raccontare un sapiens rispettando ciascuno di noi, dare sempre una curvatura universale, di metafora, di senso generale; nel caso della personalità di Augusto De Angelis (Roma 1888 – Como, 1944), un milanese d’adozione (forse), le censure imposte e autoimposte, le differenti versioni e interpretazioni emerse sulle ragioni del pestaggio (più o meno convincenti o ufficiali), le resistenze non eroiche (più o meno libere) a torti imposizioni umiliazioni. Pure nel caso dei possibili autori o autrici dello strangolamento si tende ad ammettere quasi solo ciò che noi decidiamo siano verità, con il nostro timbro, la nostra approvazione. Particolare attenzione l’autore dedica quindi ai due personaggi, comunque indomiti, che più e meglio si sforzano di scoprire i meccanismi vitali, diventando a loro modo amici del regista: la colta sostituta procuratrice della Repubblica Chiara Sensini e l’arruffato giornalista del “Corriere della Sera” Claudio Tarsi. La narrazione è in terza persona al presente, fissa sul Maestro Parrini, sul percorso documentaristico e visivo di costruzione del nuovo film e sulle difficoltà di essere liberi, con qualche flash sul decorso e sui pensieri nella degenza ospedaliera di De Angelis e (verso la fine) qualche concreta scena girata con il giovane commissario Carlo De Vincenzi (frequenti le citazioni da alcuni relativi romanzi), geniale e riflessivo, riservato e taciturno, eroe senza saperlo, uno che leggeva i poeti francesi, che misurava le sue indagini su delitti e omicidi con il metro della psicologia umana, che conosceva Freud e si addentrava nei labirinti della mente dei personaggi, mentre là dentro invece erano solo botte e voci urlate. Robecchi coglie anche l’occasione per rendere omaggio a Oreste Del Buono e per fare un po’ di storia della letteratura gialla non solo italiana, che dominava la scena durante la prima metà del Novecento. Affetti e libertà s’affermano, qualche innamorato compare, non storie d’amore e avventure sessuali. Bianchi, rossi, champagne senza etichette, liquori vari quando ci vuole. Il regista si culla e si cura con il quartetto di Miles Davis.
Storia del giallo a Napoli. Da Mastriani a de Giovanni: gli scrittori e i romanzi – Ciro Sabatino
Storia della letteratura (non solo di genere)
Prefazione di Luca Crovi
Homo Scrivens Napoli 2024
Pag. 191 euro 15
Napoli. Ultimi due secoli. I generi letterari hanno ormai da tempo una propria storia in decine di lingue e paesi, soprattutto nel caso in cui, come per la narrazione di fiction con crimini investigatori colpevoli, il genere si è rivelato fertile per descrivere il contesto sociale contemporaneo e conquistare di una notevole quota di lettori e scrittori, talora in crescita percentuale. Ben presto, fra gli autori in una medesima lingua nazionale, diventa necessario precisare la geografia di quella storia, vedere se esistono specificità e articolazioni legate ai luoghi di chi scrive, regioni e città, una scelta indispensabile per l’Italia da vari decenni. Ebbene, l’area della splendida metropoli partenopea merita una storia attenta e meticolosa della letteratura popolare classica (antica e recente) chiamata crime o giallo o poliziesco o kriminal o polar o noir o thriller (nomi ognuno con una storia, propria e internazionale). In almeno tre periodi, grazie ad alcuni straordinari autori, Napoli è stata la capitale del giallo. Lo è stata per esempio proprio all’inizio, nell’Ottocento, quando il genere appariva ancora incerto e poco definito e non era apparso il signor Holmes Sherlock, soprattutto per merito di Francesco Mastriani (Il mio cadavere). Lo è stata agli inizi del Novecento, quando il genere non aveva ancora trovato una denominazione di origine controllata nel nostro paese e nessuno conosceva la signora Christie Agatha, soprattutto per merito di Matilde Serao (il delitto di via Chiatamone). Lo è stata negli anni Settanta, quando apparve sulla scena nazionale il padre del giallo italiano, Attilio Veraldi, come lo hanno considerato molte delle ricostruzioni successive fino ai giorni nostri (La mazzetta primo indimenticabile romanzo della sua serie). Ci voleva un grande competente esperto per raccontarci ora bene come è andata, con date premesse biografie sinossi avventure incisi connessioni intrecci aneddoti.
Il giornalista di cronaca nera, studioso di letteratura popolare, laureato in Lettere Moderne con una tesi sulla Camorra, promotore di collane e festival, scrittore e archivista Ciro Sabatino (Salerno, 1963) condensa decenni di letture e incontri in un saggio dettagliato e completo sulla storia del giallo a Napoli. La narrazione in terza persona è imperniata su quei tre momenti capitali, le prime circa cento pagine e i capitoli iniziali. Quando giunge a Maurizio de Giovanni e al nuovo Millennio opta opportunamente per la prima persona, Sabatino dà del tu a scrittori e scrittrici di tutt’Italia ed è ormai un protagonista delle vicende, operatore editoriale e culturale noto e apprezzato (non solo a Napoli). La struttura non è accademica e compilativa, lo stile sempre colloquiale e informativo. Si parte delle opere letterarie cruciali per le origini del romanzo poliziesco in Campania, per poi andare indietro e avanti nell’esistenza dei tre autori sopra citati (Mastriani, Serao, Veraldi) e delle loro opere “fondanti” e complessive, nella parallela storia generale del genere per come procedeva negli altri paesi “fondatori”, anche rispetto al nostro contesto cartaceo, campano e italiano, culturale e sociale, intellettuale e morale, alle traduzioni e alle edizioni, fra i volumi come pure sulle pagine dei giornali. Così, il viaggio inizia sull’isola di Giava e scopriremo come un presunto veleno lì “coltivato” e descritto (da un botanico francese) dia l’ispirazione per un omicidio “di carta” a Napoli (ambientato nel 1826, pure in Germania e Spagna), apparso per la prima volte a puntate su un periodico locale dal 15 dicembre 1851 e poi innumerevoli volte riedito. Sabatino spiega come e perché siamo nel campo della letteratura d’appendice tardoromantica ma si colgano con maestria le potenzialità di un nuovo genere. Prima di giungere a Serao si passa per Salvatore Di Giacomo, meritatamente; dopo un intervallo di quasi settanta anni si arriva al giramondo Veraldi, che ambienta però a Napoli le gesta dei suoi Sasà Iovine e Corrado Apicella; molti gli altri autori in vario modo citati; si chiude con gli ottanta nuovi scrittori di crime ora in libreria.
Il passato è un morto senza cadavere – Antonio Manzini
Sellerio Palermo 2024
Pag. 567 euro 17
Val d’Aosta e resto d’Italia (anche Svizzera e Slovenia). Novembre e dicembre 2015. Il burbero vicequestore Rocco Schiavone continua ad annoiarsi ad Aosta: talora finisce per dormire sul divanetto in ufficio; schiaccia non più di tre ore scarse di sonno ogni notte; fa sogni densi, pure di lacerti di dialogo fra figlio madre amici; si sveglia con albe meravigliose e conseguente voglia di spararsi; s’accende subito da fumare, quasi sempre una canna. Quella mattina poco dopo l’alba in questura giunge notizia di un ciclista travolto sulla strada della Valsavarenche, il cadavere in fondo a un dirupo, schiacciata la bellissima bici (Pinarello, sopra i 6.000 euro). Vanno e, dopo le prime indagini, si capisce che si tratta di agguato e omicidio: l’auto arrivava dalla corsia opposta. La vittima è il quasi 47enne Paolo Sanna, originario di Ancona, famiglia benestante (rendita mensile personale di diecimila euro), celibe, libero professionista vario, a Milano dal 2000 al 2009, poi come in fuga, qualche relazione amorosa all’estero e in Italia, infine ad Aosta. Rocco inizia a indagare, intanto incrociando donne, sia volutamente le compagne antiche e recenti dell’ucciso, sia le belle con cui lui stesso ha intessuto relazioni: la prima è la commerciante Nora, esordio in città senza stimolo affettivo per lui, una fugace storia pure con Sanna; l’ispettrice Caterina, appena tornata dal viaggio di nozze, antichi conflitti professionali e permanente sentita stima; la giornalista Sandra, ex del questore, ora con tipi belli o gente strana, loro due non sono mai riusciti a fare sesso nonostante la conclamata attrazione reciproca. Di chi e di quale faccenda avesse grande paura la vittima non si riesce a ricostruire bene niente, forse c’entra qualcosa accaduto quando era giovane militare in Friuli Venezia Giulia nel luglio 1989 e forse non si tratta della prima studiata morte connessa nell’ultimo quindicennio. Così, Rocco e tutta la squadra sono costretti a raggiungere città di differenti aree del centro e del nord, mentre lui intuisce che Sandra è in pericolo e svolge una seconda parallela investigazione privata, finché lei scompare e lui si dispera, misteri e violenze da affrontare risultano davvero tanti. Nonostante la sua perizia, i conti in sospeso restano troppi.
Quattordicesimo godibilissimo romanzo con Schiavone per l’attore e regista di teatro Antonio Manzini (Roma, 1964), eccelsa serie concepita come opera unica “alla ricerca del tempo perduto”. L’apprezzamento di critica e di pubblico è risultato sempre straordinario e meritato (anche in televisione, uno dei più grandi successi della storia di Rai Fiction). Oltre ai connessi tredici racconti, a ottimi sette romanzi e due racconti “altri”, dal 2013 ha narrato finora di fatto solo due anni valdostani del suo vedovo personaggio romano nato nel 1966, “insoburdinata” naia in aeronautica e intensi dolori lombari, gran scassinatore e incapace di uccidere; con incursioni nel passato trasteverino e talora “trasferte” nella capitale; accanto a costanti “apparizioni” affettuose della moglie uccisa Marina, qui quattro (intorno al termine “nazireo”). Nella nuova avventura viene preso di petto da Marina (e altri) il processo di desertificazione interiore di Rocco (il continuo circuito di inedia e rabbia, illusioni e delusioni, attrazione e solitudine amorosa). Sandra, prima di scomparire suo malgrado, gli dice: “tu ci sguazzi nella memoria pur di evitare il presente. Figuriamoci il futuro”. Marina gli fa pensare in testa: “non ti devi liberare da qualcosa che non sai o non vuoi vivere. Devi tornare a imparare a vivere. Accogliere la vita”. Si sa: lui non vuole negare il passato e giustificare i danni inferti. E però questa volta si domanda di continuo se forse non abbiano proprio ragione e se il presente non precipiti troppo presto sul passato (da cui il titolo). Mentre intanto continua a fare il tifo consapevole per le efficaci azioni ecologiste di protesta dell’Esercito di Liberazione del Pianeta, acronimo ELP; a chiedere consiglio e aiuto (anche di presenza) ai cari amici abbastanza fuorilegge Brizio e Furio; a stringere maggiore conflittuale amicizia con il questore Costa e il magistrato Baldi; a scherzare con i colleghi amici “scienziati” Michela e Alberto, alla vigilia dei loro matrimonio e viaggio di nozze; a girare in Loden e sostituire Clarks; ad aggiornare il cartellone con nuove rotture di coglioni (al nono cerimonie come battesimi, cresime, comunioni e matrimoni; come pure i cibaroli scassacazzi del menu; all’ottavo la speranza e le storie d’amore); ad arricchire l’immediata associazione di una nuova conoscenza a una qualche specie animale (nel bestiario questa volta una cattiva rana della pioggia, un’iguana trasformista, un cricetus cricetus e altro ancora); a gestire la fedele Lupa. La narrazione avviene in terza persona varia al passato (in prevalenza su Rocco), un capitolo dedicato a ognuna delle diciannove intense giornate per giungere a togliersi qualche sassolino dalle scarpe in conferenza stampa e per correre all’ospedale. Lo stile appare sempre curato e coerente fra commozione e sorriso; i dialoghi risultano brillanti e divertenti, molti con l’affiatato vice di fatto e sciupafemmine Antonio; anche quelli fra gli altri lenti cauti scalcagnati agenti, alle prese con poesie o affetti. Un Fiano al Grottino sotto casa, la Barbera alla festa dei promessi sposi, Bellavista Franciacorta con gli amici al ristorante di montagna, grappa in Friuli. A Roma, dopo il secondo omicidio, un pensiero bello e triste va a un grande successo di Ornella Vanoni, sul domani.