Gerusalemme surreale
di Alessandro Taddei
Surreale trovarsi a vivere a fianco del muro del pianto, con gli ebrei che fanno festa perché è sabato e i palestinesi chiusi in casa o a fumare in tre narghile sugli scalini del negozio del padre. Qualcuno di loro fa eco ai festeggianti con una trombetta giocattolo.
I soldati, pochi per la verità, sono agli angoli delle strade che circondano il muro e sotto casa nostra qualcuno sbadiglia, un altro parla con un palestinese per chiedergli del fumo, un altro mi guarda entrare in casa con un bambino sulle spalle.
Nel quartiere armeno una casa di italiani organizza una grigliata, mentre nel quartiere cristiano qualche palestinese ha aperto un centro culturale di arte contemporanea (gli studenti palestinesi lo frequentano, non è il popolo tutto ma almeno è qualcosa).
Ci sono negozietti aperti lungo i vicoli, e i venditori di pane e felafel hanno messo vetri davanti ai loro carretti, così che ai miei occhi sembra di essere in una città surrealmente normale.
Se non fossi in Palestina direi che potrei essere nella nuova Israele: il lavoro sporco è stato fatto in passato, ora si tirano su le reti del presente senza fissa dimora. Difficile dire che schifo, se fossi qui per la prima volta direi che meno male, gli abitanti si stanno mettendo a posto. Ma maledico di non essere qui per la prima volta, perché la mia testa non riesce a non pensare che tutta questa normalità fa paura. E’ un’ombra nera piccola che sta a lato del cervello, un indicatore di sensi che mi dice di non fidarmi. Evidentemente tutta questa calma non è che l’inizio di altro. Allora aspetterò di tornare a Jenin, dove il tempo non ha messo troppi filtri, dove la gente vive in un “non luogo” pieno di ferite, dove è solo il ricordo a non farmi temere di passare per stupido agli occhi dei bambini che hanno portato in scena «Nero», quando domani li ritroverà cresciuti di un altro anno, ormai maggiorenni, chiedendomi “fammi uscire di qui”.
Sì, lo che voi uscire di lì, chi non vorrebbe dopo essere stati al mare?
Mi piacerebbe chiedere ai palestinesi che vivono a Gerusalemme perché non fanno lo sforzo di andare ad ovest: fregarsene di sentirsi discriminati, di andarci con la loro passione, con la loro musica, in tanti, con le loro donne, piene di tutto il fascino arabo, di cantare forte i loro canti, non per provocare ma per rendere grazia alla bellezza, che non appartiene solo a una parte ma a tutti. Fregarsene di sentire il fruscio dei soldati alle loro spalle, perché alla fine non spareranno.
Per quello si “sfogano” a Gaza.
In fondo potrebbero andare, non c’è niente che glielo vieti, nessuna legge, solo il non volere riconoscere un’altra parte della città.
A ragione.
Eppure la ragione alle volte dovrebbe farsi perdonare e lasciare spazio al gioco.
Sabato è finito, gli ebrei ortodossi tornano a casa ridendo, intorno a casa c’è il silenzio, domani mattina i palestinesi vanno a scuola.
BREVE NOTA
Di «Nero inferno», realizzato con ragazze/i di Jenin, si è parlato più volte in blog. (db)
Bellissima questa condivisione, lenta, interiore e intrisa di speranza