Giagheddu, racconto di Natale e mirto

di Celestino Tabasso

Il povero Giagheddu – disse il gobbo stringendo i suoi occhi azzurrissimi – era un uomo pieno di personalità.

Nel senso che ne aveva almeno quattro o cinque differenti che si azzuffavano come cani da slitta di un racconto di Jack London. Sbavavano, si azzannavano, tentavano di sopraffarsi finché il ringhio della personalità dominante, il capobranco indiscusso, le gelava.

«Antonello Maria, vergognati di te».

E tutte fuggivano guaendo.

Fuggiva Clint il Duro, una personalità spavalda che di solito si aggirava con i pollici nelle tasche e il sigaro tra i denti. Aveva due fondine piene di battute polemiche nel caso qualcuno mancasse di rispetto a Giagheddu, o gli fottesse il parcheggio. In effetti qualche volta era successo, ma purtroppo ogni volta Clint non era di servizio. Si materializzava sempre dopo – «accidenti ragazzo, lo avrei sistemato io quel trippone» – e giù un catalogo di uscite argute e violente. Roba che avrebbe levato il pelo, se solo ci fosse stato il tempo di usarla.

Fuggiva Shabby lo Sciàbbido, maestro di corteggiamenti e barzellette, addetto alle occhiate malinconiche e allusive, sapiente nel modulare la voce nelle tonalità più calde e romantiche. Di solito faceva capolino al terzo mirto, ed era un peccato perché a quel punto l’alito torbido e sciropposo vanificava tutte le sue arti di seduzione.

Fuggiva, sulle sue gambacce pelose e storte, anche Gavinoide, la più antica tra le personalità. Era una specie di Ur-Giagheddu, un bruto aggressivo e codardo che si voleva solo accoppiare e nutrire. La vera femmina – ringhiava – è arrendevole, porca e sempre vogliosa, ma soprattutto è COMMESTIBILE.

E infine fuggiva Molotov, la personalità anarcoinsurrezionalista che sotto elezioni, sotto Natale ma soprattutto sotto la minaccia di una cena dai suoceri urlava e cantava contro ogni sopruso: «Allosanfàn, compagno Giagheddu, allosanfàn! Assaltiamo il palazzo d’inverno, la terra ai contadini, stella rossa sulla Cina e sempre in culo alla Dc. Muoiano i Romanov, bruci la città e il roastbeef mia suocera se lo metta in culo!».

Fuggivano tutti, si rincantucciavano negli angoli più bui quando, maestosa e crudele come un Tyrannosaurus Mater, la più castrante delle personalità lanciava il suo verso agghiacciante.

«Antonello Maria, vergognati di te».

Quando lo vedevo entrare qui al bar con il sorriso spento, capivo che quella voce gli aveva distrutto le menzogne, le speranze, le fantasticherie. Io lo accoglievo, abbassavo la radio, gli versavo da bere e aspettavo. Se gli davi abbastanza mirto e attenzione, ecco che piano piano la tribù si formava di nuovo. Lo sguardo si faceva un po’ guascone, brillava una scintilla di sarcasmo e tu sentivi, sapevi che Giagheddu, il mio povero Giagheddu, non era più solo. Ora c’era Clint che gli teneva una mano sulla spalla, Clint che suonava l’armonica e alla luce del fuoco, giù al bivacco, caricava le sue pistole con polvere di sarcasmo e proiettili d’argento, per spaccare il cuore ai vampiri e agli stronzi mannari.

Un sorriso, un altro mezzo mirto ed ecco la prima freddura: c’era anche Shabby lo Sciàbbido, e poi ecco anche Gavinoide, col suo fiato pesante, e finalmente – «Compagno barista, dammi tre baci! Vodka dovremmo bere, non mirtaccio!» – c’era anche Molotov, con la sua bandiera che vibrava per la smania di entrare in culo a Marchionne e ai suoi lacchè, a Berlusca e ai suoi bidè, a Gelli e ai suoi fratelli, alla Gelmini e ai suoi bidelli!

E fu Molotov – mormorò il gobbo – a farmi fare l’errore. La sua rabbia rivoluzionaria mi convinse che Giagheddu, il mio povero Giagheddu, ce la poteva fare.

E così una sera, una sera che voi chiamate santa, nel quinto mirto gli versai tre gocce proibite, che se ti beccano rischi l’espulsione. Dalla camera di commercio? Mmh, amico, ancora non ci sei. Nessun barista è solo un barista, ricordatelo. E dentro ogni gobba c’è una storia. Comunque quella roba qualcuno la chiama volontà, altri arbitrio e altri ancora semplicemente libertà. Se ne bevi abbastanza, e se la reggi, può farti fare grandi cose. Ma se non la reggi, amico mio, allora sono cazzi.

Io mi fidai di Molotov e così, la sera del 24 dicembre gli corressi il mirto.

Vaya con Diòs, Giagheddu, dissi dentro di me. O la va o la spacca. E poi aggiunsi: Yes, we can.

Dicono che non si fosse neanche tolto il loden quando sua moglie, con lo sguardo splendente di isteria natalizia, gli intimò: «Fai una scappata in centro e – senza fermarti al bar – compra altri due etti di fegato, dello spago da forno per legare il tacchino, una bella bottiglia di alchermes che fa tanto Natale, trombette, palloncini e cotillon. Almeno stasera vedi di renderti utile».

Dentro Giagheddu si fece un gran silenzio. Poi per primo parlò Gavinoide.

  • Còddatela – disse semplicemente – Còddatela e poi dalle una testata in mezzo agli occhi. Oppure dalle una testata e poi còddatela in mezzo agli occhi.

Anche Shabby disse la sua, urlando di rabbia, e Molotov pure e subito cominciarono a scannarsi finché Clint, con la sua voce forte e calda, disse:

– Stavolta sono arrivato in orario, ragazzo. Te lo dovevo. Ora fai quel che ti dico, e andrà tutto bene. Guardala dritto negli occhi e dille: «Fegato ne ho un sacco, altrimenti non avrei sposato un orrore come te. L’alchermes non lo fanno più da quando le città erano a misura d’uomo e tu eri a forma di donna, che è come dire dallo Pterodattilo Anteriore o come cazzo si chiama, quindi vaffanculo: il mirto andrà benissimo. Lo spago non ci serve perché forse non lo hai notato ma il tacchino è MORTO, pezzo di cretina, e quindi che cazzo lo leghi a fare? Quanto ai cotillon non ci provare nemmeno, squaw: nessuno sa che cosa sono, neanche tu. Quindi non fare domande a trabocchetto e abbassa lo sguardo, porca troia».

Giagheddu, il mio povero Giagheddu, annuì.

Fece un passo avanti. Tirò su col naso e fissò la moglie dritta negli occhi. «Fegato…» cominciò.

E in quella una voce, una voce fredda come un coltello e affilata come un senso di colpa, gli recise il coraggio.

  • «Antonello Maria, vergognati di te».

Dicono che Giagheddu, il mio povero Giagheddu, abbia alzato per un istante gli occhi al cielo, come Achille colpito al tallone, come Icaro tradito nel blu.

Quando riabbassò lo sguardo, non era più lui.

  • «Fegato» – disse – «Fegato e alchermes. E lo spago, ovviamente. E i cotillon».

E venne dritto qui al bar.

Al primo mirto andò via Shabby. Era lui, ma vidi solo un’ombra allontanarsi. Poi Molotov, che piangeva in silenzio. Gavinoide con un grugnito si tuffò nel buio fuori dal bar e subito sentii una passante che strillava. Al quarto mirto Clint si alzò in piedi con uno sbadiglio, si portò due dita alla tesa del cappello, e sparì. Giagheddu se ne andò per ultimo, e ormai gli faceva compagnia soltanto la vergogna.

Volevi un racconto di Natale, amico mio: fàttelo durare, perché da me non avrai più storie né mirto. Passerà qualche secolo prima che mi affidino un altro amico. O anche solo un altro bar.

Spalancò la porta, si alzò sulla punta dei piedi e si levò il cappotto con un unico gesto fluido, come una walkiria che scioglie la treccia. L’enorme gomitolo della gobba si distese in un ampio paio di ali piumate, e fu con un saltello da gabbiano che l’angelo custode disoccupato si lanciò verso il più limpido, stellato e indifferente dei cieli.

 

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