Giancarlo Biffi: Fiat lux

La Fiat è nuovamente scesa in campo a fare scuola, a dirigere la politica finanziaria e industriale dell’Italia nella direzione che permetta all’azienda maggiori profitti: trattenere i guadagni e collettivizzare le perdite. Come del resto ha sempre fatto.

Trema Torino, la città Fiatcentrica che intorno a quella industria ha modellato l’intera città, così come trema tutto il Paese. La dirigenza aziendale vuole mani libere per potersi muovere senza vincoli nel mercato internazionale e sfidare la concorrenza nella palude del liberismo, in cui come succede da sempre i profitti li incamera l’azienda ma i debiti economici e sociali sono scaricati sulla comunità. Col tentativo di svincolare i contratti di lavoro aziendali dal contratto nazionale dei metalmeccanici, il modello Fiat, che nel tempo è diventato il modello Italia, si appresta a fare un ulteriore salto di qualità. Dopo Pomigliano d’Arco, era fin troppo chiaro che il piano industriale sarebbe stato “rivoltato” in favore di una politica sfrontatamente liberista: riduzione dei diritti dei lavoratori per favorire una maggiore produttività. Adeguare gli stipendi al ribasso è un obiettivo che i vertici Fiat si sono sempre posti, così come utilizzare determinate strategie per ricattare uno Stato che sotto la minaccia della perdita di posti di lavoro non ha mai lesinato sostegni diretti e indiretti: finanziamenti, casse integrazioni, detassazioni, incentivi tendenti a favorire in ogni modo la vendita d’automobili, così come il furioso sviluppo di una rete autostradale a scapito della mobilità su rotaie. Aiuti così cospicui da farla sembrare un’industria di Stato.

La Fiat non è solo auto ma anche finanza, assicurazioni, banche, editoria… Nel mondo globalizzato si può ormai produrre in Serbia come in Polonia e non c’è da scandalizzarsi, non penso che la pancia di un italiano sia più importante di quella di un serbo, non mi appassiona il rigurgito nazionalistico o padan-patriottico di Lega e affini. Quel che m’interessa è lottare per un mondo in cui tutti i lavoratori godano degli stessi diritti, delle stesse tutele, delle medesime remunerazioni. Allora perchè non adeguare i livelli dei lavoratori serbi allo standard degli italiani e magari, chissà, quello degli italiani a quello degli operai Fiat/Chrysler di Detroit?

Redazione
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Un commento

  • Condivido l’analisi anti-nazionalista, però occorre anche smascherare l’ipocrisia di un governo e di una classe imprenditoriale che si riempie la bocca di “made in italy”, “compra italiano”, “qualità italiana” fino alla parodia dell'”italia fara da sè” di ducesca memoria e poi svende tutto al migliore offerente di oltralpe, senza minimamente preoccuparsi delle condizioni e dei destini dei lavoratori e delle lavoratrici. Anche per me il lavoro non ha confini, ma a non avere confini devono essere soprattutto i diritti dei lavoratori e delle lavoratrici; e la direttiva Bolkenstein affossa questa possibilità anche nel terzo settore. Ma dove sono quelli che dicevano che era anacronistico rimpiangere gli scioperi generali, che non si doveva dire più “padrone”, che la contrapposizione frontale tra lavoratore e imprenditore era assurda e via concertando? Ah, già, Fassino ha appena detto che per lui Marchionne è socialdemocratico…sono sempre lì, non ce ne libereremo mai. Vien voglia di essere bolsceviki post-litteram!

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