Giangiuseppe Pili: Imperialismi di Hobsbawn
Il grande storico E. J. Hobsbawn, autore di grandi lavori quali Il secolo breve, parte da un’analisi del recente passato della storia del mondo (quella del periodo imperiale inglese, il cui apogeo ruota attorno al secolo 1815-1915) per scandagliare somiglianze e differenze tra la politica imperiale britannica e quella del nuovo “impero”, gli Stati Uniti. Hobsbawn è preoccupato sostanzialmente di razionalizzare tutte le inquietudini che il nuovo tipo di tecnica politica statunitense ha scatenato dalla fine dell’Unione Sovietica: con l’Urss unequilibrio di potere era ancora pensabile mentre, oggi, con l’assenza di un uno Stato potente (sotto un profilo militare) che possa controbilanciare le spinte autoritarie della politica estera degli Stati Uniti, ci troviamo di fronte ad un monopolio delle decisioni politiche.
Il libro si divide in tre capitoletti. Il primo “Guerra e Pace nel XX secolo” analizza la definizione di “pace” e di “guerra” e Hobsbawn mette in rilievo le novità della guerra pacifica o della pace combattente: dopo la prima guerra mondiale si assiste all’incapacità di concepire lunghi periodi di stabilità, momenti, cioè, in cui l’assenza di pressioni interne ed esterne garantiscano un periodo di prospera stabilità. Dopo il crescere dell’instabilità politica, frenata parzialmente dalla presenza di due blocchi rigidi, i Paesi Nato da una parte e quelli del Patto di Varsavia dall’altro, si assiste ad una diminuzione netta delle guerre tra Stati ma uno straordinario aumento degli scontri intestini, tra semplici sommosse, scontri di parti troppo insignificanti per costituire un movimento politico coerente, e vere e proprie guerre civili. Una delle caratteristiche dell’attuale sistema di concepire gli scontri armati ruota attorno all’assenza di eserciti di Stato impegnati in scontri definitivi. La guerra si struttura sempre più come contesa privata, resa possibile da una tecnologia efficiente, efficace e a buon mercato, disponibile, di fatto, anche a semplici privati forniti di mezzi economici sufficienti: il punto è che non c’è più bisogno di uno Stato per sostenere le spese di una guerra.
Il secondo capitolo, “Vinta la guerra, l’impero continua ad espandersi”, ancora analizza da un punto di vista di storia comparativa quelle che sono le differenze sostanziali tra l’impero americano e quello britannico. Un punto interessante che emerge è che l’impero degli Stati Uniti abbia ambizioni universali, cioè ritiene di essere il giusto modello da imporre, motivo per cui sono continue le azioni militari intraprese nelle più svariate zone del mondo. L’impero britannico, sebbene fosse ben più esteso sotto un profilo territoriale (un quarto della superficie terrestre) era molto “regionale” sul profilo dell’interesse di base: non c’era nessuna volontà di esportazione di ideali e valori (sebbene sotto il profilo coloniale ci fu una buona fetta della cultura dominante inglese a sostenere la necessità dell’acculturazione di popolazioni indigene barbare…) sotto il profilo politico. Gli Stati Uniti, in questa loro caratteristica, somigliano all’Unione Sovietica, ispirata all’ideale di una rivoluzione globale (sebbene nessuno abbia mai sul serio creduto nella sua possibile attuazione, secondo Hobsbawn) e alla Francia rivoluzionaria. Si legge:
L’impero britannico non aveva una finalità universale, ma semplicemente britannica, anche se naturalmente i suoi propagandisti sapevano trovare motivazioni più altruistiche. In questo senso, l’abolizione della tratta degli schiavi venne usata per giustificare la potenza navale britannica, così come oggi i diritti umani vengono spesso usati per giustificare la potenza militare degli Stati Uniti.
I cambiamenti nella produzione e nella tecnologia, nonché nella difficile situazione economica statunitense, hanno implicato una netta variazione nella gestione del potere politico su Stati esterni. Questo aspetto particolarmente colpisce lo storico Hobsbawn che, incapace di trovare precedenti sufficientemente seri nella storia, considera tale evoluzione sostanzialmente ingestibile: nessuno può contrastare gli Stati Uniti da un punto di vista tecnologico e militare né nessuno ha un peso politico sufficiente per poterlo fare. Tutto ciò porta a un inasprimento della stabilità politica globale perché, con l’aumento dell’informazione e della globalizzazione economica, una piccola variazione regionale può avere delle enormi ripercussioni in tutto il globo. In tutto questo, emerge l’assenza di un progetto politico a lungo termine, capace gettare un nuovo ordine stabile sul mondo. Hobsbawn, in particolare, sottolinea che:
Agli occhi di qualsiasi osservatore esterno, le politiche che negli ultimi anni hanno preso il sopravvento a Washington sembrano talmente folli che è difficile comprendere che cosa ci sia realmente dietro. E’ comunque chiaro che il primo obiettivo di coloro che oggi determinano, almeno in parte, le scelte politiche di Washington, è una pubblica affermazione della supremazia globale americana attraverso l’uso della forza militare. Rimane oscuro l’autentico scopo di questa strategia.
E’ probabile che essa raggiunga il successo? Il mondo è troppo complesso per poter essere dominato da un singolo Stato.
L’ultimo capitolo “Esportare la democrazia” tratta del tema in modo prospettico più che storico: è giusto esortare un ordine politico o, piuttosto, è corretto giustificare una serie di pratiche militari/politiche sulla base di una presunta necessità di imporre un ordine democratico? Il problema non è solo che esso è ingiusto, sotto un profilo politico e morale, ma anche da un lato pratico e, ciò, per due ragioni: (1) non sempre è una buona cosa, per il popolo sottomesso, accettare un ordine non riconosciuto come proprio, (2) non sempre è possibile “esportare la democrazia” se non a un prezzo tale da rendere tale operazione del tutto ingiustificabile: gli stessi Stati Uniti non accettano le conseguenze di una permanenza sul territorio abbastanza lunga da consentire la costituzione di un ordine stabile e definitivo il che mina la possibilità effettiva di rimodellare un popolo ad un sistema politico non riconosciuto come valido. In fine, e questo è un aspetto interessante, si può finire per credere che l’ordine politico/democratico sia reale: anche nelle democrazie occidentali ci sono sistemi (mediatici, politici…) che ostacolano la democrazia e nascondono, dietro sé, dei problemi irrisolti da affrontare. L’idea di essere a tal punto “democratici” da poter fare a meno di pensare di essere ancora lontani dalla “democrazia reale” è un pericolo pregiudizio che autorizza e giustifica atti di forza inqualificabili. La conclusione di Hobsbawn è che:
Sul piano internazionale, la prospettiva più allarmante è la destabilizzazione del mondo. In proposito il Medio Oriente è solo uno degli esempi: oggi questa regione è molto più instabile di quanto fosse dieci o cinque anni fa. La politica americana viene a indebolire ogni possibile accordo alternativo, ufficiale o ufficioso, volto a mantenere l’ordine.
Sebbene il libro sia indubbiamente interessante, rimane il senso di parzialità delle posizioni riportate: Hobsbawn è chiaramente preoccupato per la situazione di crescente instabilità a livello politico su un piano globale. Inoltre, l’assenza di un progetto politico lungimirante e stabile conduce a una gestione casuale della politica, rivolta, soprattutto, al momento presente: questo, d’altra parte, è una conseguenza sia dell’assenza di un organismo internazionale forte sia del fatto che prendendo anche troppo sul serio l’idea che “il potere è del popolo” si ricade nel paradosso di una totale dipendenza del potere alla base. Ciò implica che l’organo di governo si impernia sulla soddisfazione di interessi parziali e minoritari ma, allo stesso tempo, elettoralmente produttivi. Per tali ragioni, le problematiche globali sono generalmente concepite come utopie la cui attuazione risulta strafottentemente indifferente alla popolazione media: la pace nel mondo, la fame e la sete, lo sviluppo dei Paesi del terzo e quarto mondo eccetera. La politica degli Stati Uniti cela questo vuoto di idee e indifferenza ai problemi sostanziali delle esigenze degli affari pubblici globali, dietro a una facciata di sicurezza rigida ma finta. Tutto questo, comunque, risulta dalle pagine di Hobsbawn rimane sempre il dubbio di un’esagerazione di un senso di emergenza che, tutto sommato, rimane ingiustificabile agli occhi di chi conosce la Storia: essa non è stata più pacifica durante l’Impero romano e l’attualità è sempre vista dai contemporanei come un’assenza totale di certezza o giustizia (come avrebbe osservato Huizinga); in fine, al disordine segue sempre la costituzione di un nuovo sistema generalmente più adatto alle novità epocali. In questo momento, infatti, le novità strutturali sono molte e ancora bisogna riuscire a trovare il sistema di armonizzarsi con esse. Se è vero che esistono preoccupazioni reali intorno alla natura del nostro futuro, è pur vero che ciò ruota soprattutto a quella mancanza di idee e certezze che, d’altra parte, caratterizza da circa un secolo la quotidianità di ciascuno. Sarebbe anche arrivato il momento di costruire tentativi di superare questa empasse storico-politico-culturale (ben rappresentata dalla sinistra europea attuale). E questo potrebbe proprio partire dagli storici che, meglio di loro nessuno, potrebbero dare qualche riflessione e certezza piuttosto che nuovi motivi di conferma di instabilità. La cultura può fare e deve fare di più.
Impossibile non segnalare l’alto costo del libro e l’esiguità delle pagine: 78 pagine per 9 euro.
E. J. HOBSBWAN
IMPERIALISMI
RIZZOLI
PAGINE 78 , EURO 9
questa recensione è ripresa da www.scuolafilosofica.com
Lessi “il secolo breve”, che apprezzai molto. Hobsbawn è uno storico che adotta le categorie del materialismo storico di Marx, più o meno un marxista, insomma. Su questo libro non mi pronuncio, non avendolo letto, ma grazie per la recensione.