Giù le mani dalla Patagonia

di David Lifodi

Terra incontaminata e sterminata, ricca di fiumi e ghiacciai, caratterizzata da montagne che la rendono meta privilegiata per il senderismo alternativo dei trekkers, la Patagonia rischia seriamente di veder danneggiato il suo ecosistema unico al mondo. Tra i responsabili si trovano governatori locali inclini alla svendita di questo immenso patrimonio agli investimenti stranieri e famosissime imprese italiane senza alcun scrupolo.

Il 29 Ottobre 2010 il Congresso argentino aveva finalmente approvato la Ley de Presupuestos Mínimos para la Preservación de los Glaciares y el Ambiente Periglacial. L’obiettivo era quello di tutelare gli enormi ghiacciai conosciuti in tutto il mondo, dal Perito Moreno all’Uppsala, solo per citare i più noti in territorio argentino. La legge in quanto tale era assai all’avanguardia in quanto a rispetto dell’ecosistema: creazione di un Inventario Nacional de Glaciares ad opera dell’Ianigla (l’Instituto Argentino de Nivología, Glaciología y Ciencias Ambientales) e difesa degli enormi strati di gelo come riserve strategiche imprescindibili per le conche idrografiche tra i passaggi più apprezzati della legge. Agli aspetti positivi della Ley de Glaciares si sono però contrapposti immediatamente forti interessi economici. Il governatore della provincia di San Juan si è subito messo di traverso vantando il diritto di poter disporre a piacimento delle ricchezze naturali presenti sul suo territorio. Tradotto: pretendeva, e pretende tuttora, di aprire le porte della sua provincia alle multinazionali minerarie, su tutte la canadese Barrick Gold. Si tratta di un problema non da poco poiché la Ley de Glaciares deve ottenere l’approvazione di tutte le province affinché diventi realmente operativa, quindi esiste il rischio concreto che la vicenda si trascini per un tempo indefinito. Non a caso il carattere innovativo della Ley de Glaciares, che considerava i ghiacciai come bene comune e di carattere pubblico, è stato immediatamente ostacolato con la sua sospensione proprio nella provincia di San Juan. Il magistrato responsabile dello stop ha spiegato che la proibizione dello sfruttamento volto all’estrazione mineraria e di idrocarburi (elemento chiave della legge) porterebbe a pesanti ripercussioni sull’economia della provincia ed ha sottolineato come la legge possa dettare si i presupposti minimi di tutela dei ghiacciai, ma spetta alle province darne attuazione in piena autonomia interpretativa. Altro punto che rischia di essere disatteso riguarda l’inventario su cui dovrebbe lavorare l’Ianigla: le aree da sottoporre a inventario non sono definite con chiarezza e questo rischia, nel migliore dei casi, di ritardare di almeno un anno la mappatura completa dei ghiacciai, a tutto vantaggio delle fiorenti attività di carattere industriale e minerario, per non parlare delle grandi infrastrutture. E’ per questi motivi che la Ley de Glaciares, pur rappresentando un primo passo significativo, resta comunque deficitaria nella sua attuazione per i movimenti ambientalisti, che hanno organizzato tra febbraio e marzo mobilitazioni al confine tra Cile e Argentina nella provincia di San Juan, dove si è installata la Barrick Gold allo scopo di condurre a termine la costruzione della miniera a cielo aperto di Pascua Lama, a quattromila metri di altezza. La multinazionale canadese intenderebbe estrarre quasi 500 tonnellate d’oro. Il fronte cileno della Patagonia deve però guardarsi anche da un altro attacco, stavolta proveniente dalla nostra Enel. E’ per questo motivo che è sorto il Coordinamento Italiano Campagna Patagonia Senza Dighe, una piattaforma di cui è capofila la Campagna per la Riforma della Banca Mondiale (Crbm). Fino al 14 marzo è stata effettuata la raccolta delle cartoline “Enel fuori dalla Patagonia”, inviate all’amministratore delegato di Enel Fulvio Conti, in cui si denunciavano i profitti sull’acqua cilena ad opera dell’azienda italiana. Secondo quanto emerso nel corso di una missione condotta in loco da esponenti della Campagna Patagonia Senza Dighe, lo sfruttamento delle risorse idriche avverrebbe tramite la costruzione di cinque centrali idroelettriche sui fiumi Baker e Pascua, nella regione dell’Aysén. Al progetto sta lavorando il consorzio HydroAysén, di cui fanno parte Endesa (a sua volta controllata da Enel) e Colbùn. Già l’Università di Santiago del Cile ha dimostrato che il progetto HydroAysén non rappresenta tanto una necessità per il paese quanto invece per Endesa Chile (e di conseguenza Enel), poiché l’energia prodotta dalle dighe serve per quell’estrazione mineraria a cui aspirano le imprese straniere. Seguono le conseguenze ben conosciute: inondazioni, trasferimenti forzati delle popolazioni residenti in quella zona, estinzione di alcune specie animali, alterazione della geografia del territorio ecc… . Sul controllo del suolo, delle risorse naturali e della gestione economica prodotta dalle ricchezze di quelle terre è in corso una partita fondamentale sia per il destino dei versanti patagonici cileno e argentino sia per le multinazionali. Da qui proviene il terzo attacco a questo territorio così esteso, ma scarsamente popolato e quindi ancor più appetibile per le imprese straniere, che considerano i pochi residenti come un impiccio da spazzar via senza troppi complimenti. Il portale di cultura e tradizioni indigene Servindi ha riportato il 9 marzo scorso la notizia della vittoria del gruppo italiano Benetton sulla comunità mapuche Santa Rosa Leleque. Il Tribunale di Esquel, cittadina argentina della provincia di Chubut, ha infatti dichiarato che i 500 ettari di terreno su cui era da tempo sorta una controversia tra l’azienda trevigiana e gli indigeni, ovviamente spettano a Benetton. I mapuche presenteranno ricorso, ma nel frattempo sono stati obbligati a lasciare quei terreni nel giro di pochissimo tempo. Secondo il quotidiano argentino Página 12 sarebbero quasi nove milioni gli ettari di terra su cui sono in atto controversie tra le comunità indigene e le multinazionali. E’ scontato sottolineare che Benetton non ci fa una gran bella figura poiché ha ottenuto la potestà sulle terre mapuche approfittando di una campagna diffamatoria condotta ad arte dai proprietari delle terre del Chubut, i quali hanno esercitato forti pressioni sulla giustizia affinché riconoscesse il loro diritto alla tutela della proprietà privata ed hanno accreditato la tesi, del tutto infondata, per cui i mapuche-tehuelche sono una “pseudo-comunità indigena”. Inoltre, si tratta di una flagrante violazione della Costituzione argentina, che riconosce i diritti dei popoli nativi all’articolo 75. Il comportamento scorretto di Benetton però non si ferma qui, ma segue una prassi ben consolidata secondo la quale i grandi marchi non appaiono in prima persona in operazioni di questo tipo. In questo caso la disputa ufficiale sarebbe tra i mapuche e la Compañia de Tierras Sud Argentino, che altro non è se non la filiale della nota azienda di abbigliamento italiana con quartier generale a Treviso. Benetton, Enel, Barrick Gold e imprenditori locali hanno una visione dell’economia fondata su profitti e ricavi senza alcun interesse reale per ciò che hanno intorno, si tratti di ambiente, comunità indigene, piccole reti solidali poco importa, mentre noi abbiamo una sola possibilità, boicottarli: non è facile (vedi la partecipazione di Benetton in Autostrade per l’Italia), ma proviamoci! Giù le mani dalla Patagonia! 31 MAR di David Lifodi Terra incontaminata e sterminata, ricca di fiumi e ghiacciai, caratterizzata da montagne che la rendono meta privilegiata per il senderismo alternativo dei trekkers, la Patagonia rischia seriamente di veder danneggiato il suo ecosistema unico al mondo. Tra i responsabili si trovano governatori locali inclini alla svendita di questo immenso patrimonio agli investimenti stranieri e famosissime imprese italiane senza alcun scrupolo. Il 29 Ottobre 2010 il Congresso argentino aveva finalmente approvato la Ley de Presupuestos Mínimos para la Preservación de los Glaciares y el Ambiente Periglacial. L’obiettivo era quello di tutelare gli enormi ghiacciai conosciuti in tutto il mondo, dal Perito Moreno all’Uppsala, solo per citare i più noti in territorio argentino. La legge in quanto tale era assai all’avanguardia in quanto a rispetto dell’ecosistema: creazione di un Inventario Nacional de Glaciares ad opera dell’Ianigla (l’Instituto Argentino de Nivología, Glaciología y Ciencias Ambientales) e difesa degli enormi strati di gelo come riserve strategiche imprescindibili per le conche idrografiche tra i passaggi più apprezzati della legge. Agli aspetti positivi della Ley de Glaciares si sono però contrapposti immediatamente forti interessi economici. Il governatore della provincia di San Juan si è subito messo di traverso vantando il diritto di poter disporre a piacimento delle ricchezze naturali presenti sul suo territorio. Tradotto: pretendeva, e pretende tuttora, di aprire le porte della sua provincia alle multinazionali minerarie, su tutte la canadese Barrick Gold. Si tratta di un problema non da poco poiché la Ley de Glaciares deve ottenere l’approvazione di tutte le province affinché diventi realmente operativa, quindi esiste il rischio concreto che la vicenda si trascini per un tempo indefinito. Non a caso il carattere innovativo della Ley de Glaciares, che considerava i ghiacciai come bene comune e di carattere pubblico, è stato immediatamente ostacolato con la sua sospensione proprio nella provincia di San Juan. Il magistrato responsabile dello stop ha spiegato che la proibizione dello sfruttamento volto all’estrazione mineraria e di idrocarburi (elemento chiave della legge) porterebbe a pesanti ripercussioni sull’economia della provincia ed ha sottolineato come la legge possa dettare si i presupposti minimi di tutela dei ghiacciai, ma spetta alle province darne attuazione in piena autonomia interpretativa. Altro punto che rischia di essere disatteso riguarda l’inventario su cui dovrebbe lavorare l’Ianigla: le aree da sottoporre a inventario non sono definite con chiarezza e questo rischia, nel migliore dei casi, di ritardare di almeno un anno la mappatura completa dei ghiacciai, a tutto vantaggio delle fiorenti attività di carattere industriale e minerario, per non parlare delle grandi infrastrutture. E’ per questi motivi che la Ley de Glaciares, pur rappresentando un primo passo significativo, resta comunque deficitaria nella sua attuazione per i movimenti ambientalisti, che hanno organizzato tra febbraio e marzo mobilitazioni al confine tra Cile e Argentina nella provincia di San Juan, dove si è installata la Barrick Gold allo scopo di condurre a termine la costruzione della miniera a cielo aperto di Pascua Lama, a quattromila metri di altezza. La multinazionale canadese intenderebbe estrarre quasi 500 tonnellate d’oro. Il fronte cileno della Patagonia deve però guardarsi anche da un altro attacco, stavolta proveniente dalla nostra Enel. E’ per questo motivo che è sorto il Coordinamento Italiano Campagna Patagonia Senza Dighe, una piattaforma di cui è capofila la Campagna per la Riforma della Banca Mondiale (Crbm). Fino al 14 marzo è stata effettuata la raccolta delle cartoline “Enel fuori dalla Patagonia”, inviate all’amministratore delegato di Enel Fulvio Conti, in cui si denunciavano i profitti sull’acqua cilena ad opera dell’azienda italiana. Secondo quanto emerso nel corso di una missione condotta in loco da esponenti della Campagna Patagonia Senza Dighe, lo sfruttamento delle risorse idriche avverrebbe tramite la costruzione di cinque centrali idroelettriche sui fiumi Baker e Pascua, nella regione dell’Aysén. Al progetto sta lavorando il consorzio HydroAysén, di cui fanno parte Endesa (a sua volta controllata da Enel) e Colbùn. Già l’Università di Santiago del Cile ha dimostrato che il progetto HydroAysén non rappresenta tanto una necessità per il paese quanto invece per Endesa Chile (e di conseguenza Enel), poiché l’energia prodotta dalle dighe serve per quell’estrazione mineraria a cui aspirano le imprese straniere. Seguono le conseguenze ben conosciute: inondazioni, trasferimenti forzati delle popolazioni residenti in quella zona, estinzione di alcune specie animali, alterazione della geografia del territorio ecc… . Sul controllo del suolo, delle risorse naturali e della gestione economica prodotta dalle ricchezze di quelle terre è in corso una partita fondamentale sia per il destino dei versanti patagonici cileno e argentino sia per le multinazionali. Da qui proviene il terzo attacco a questo territorio così esteso, ma scarsamente popolato e quindi ancor più appetibile per le imprese straniere, che considerano i pochi residenti come un impiccio da spazzar via senza troppi complimenti. Il portale di cultura e tradizioni indigene Servindi ha riportato il 9 marzo scorso la notizia della vittoria del gruppo italiano Benetton sulla comunità mapuche Santa Rosa Leleque. Il Tribunale di Esquel, cittadina argentina della provincia di Chubut, ha infatti dichiarato che i 500 ettari di terreno su cui era da tempo sorta una controversia tra l’azienda trevigiana e gli indigeni, ovviamente spettano a Benetton. I mapuche presenteranno ricorso, ma nel frattempo sono stati obbligati a lasciare quei terreni nel giro di pochissimo tempo. Secondo il quotidiano argentino Página 12 sarebbero quasi nove milioni gli ettari di terra su cui sono in atto controversie tra le comunità indigene e le multinazionali. E’ scontato sottolineare che Benetton non ci fa una gran bella figura poiché ha ottenuto la potestà sulle terre mapuche approfittando di una campagna diffamatoria condotta ad arte dai proprietari delle terre del Chubut, i quali hanno esercitato forti pressioni sulla giustizia affinché riconoscesse il loro diritto alla tutela della proprietà privata ed hanno accreditato la tesi, del tutto infondata, per cui i mapuche-tehuelche sono una “pseudo-comunità indigena”. Inoltre, si tratta di una flagrante violazione della Costituzione argentina, che riconosce i diritti dei popoli nativi all’articolo 75. Il comportamento scorretto di Benetton però non si ferma qui, ma segue una prassi ben consolidata secondo la quale i grandi marchi non appaiono in prima persona in operazioni di questo tipo. In questo caso la disputa ufficiale sarebbe tra i mapuche e la Compañia de Tierras Sud Argentino, che altro non è se non la filiale della nota azienda di abbigliamento italiana con quartier generale a Treviso.

Benetton, Enel, Barrick Gold e imprenditori locali hanno una visione dell’economia fondata su profitti e ricavi senza alcun interesse reale per ciò che hanno intorno, si tratti di ambiente, comunità indigene, piccole reti solidali poco importa, mentre noi abbiamo una sola possibilità, boicottarli: non è facile (vedi la partecipazione di Benetton in Autostrade per l’Italia), ma proviamoci!

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