Giustizia fiscale e rilancio del welfare
recensione (di Bruno Lai) del libro:Tax the rich. La riforma del fisco per la rinascita del welfare italiano a cura di Piero Bevilacqua, I Libri di Left, aprile 2022
Diversi studiosi si sono riuniti per rispondere alla domanda, “Quale fisco per quale sinistra?”, apparentemente tecnica, ma in realtà di notevole importanza politica. Le loro riflessioni e proposte sono consegnate all’agile volume Tax the rich. La riforma del fisco per la rinascita del welfare italiano, curato da Piero Bevilacqua[i].
Apre il volume l’introduzione di Piero Bevilacqua, che ricorda come la crisi della sinistra, della solidarietà e della fratellanza, sia cominciata ai tempi della rivoluzione conservatrice, avviata dalle presidenze di Margaret Thatcher nel Regno Unito e di Ronald Reagan negli Stati Uniti. Questo cambio di paradigma si è espresso in due direttrici, vincenti per la destra, deleterie per la maggior parte dei cittadini: «la lotta aperta contro i sindacati e la demolizione del sistema fiscale progressivo fondato dopo la Seconda guerra mondiale»[ii].
L’attacco al fisco, ed alla sua progressività, è finalizzato alla riduzione del potere dei lavoratori, ad un peggioramento delle loro condizioni di vita, e ad un aumento delle diseguaglianze, a esclusivo vantaggio dei ceti più ricchi. Anche in Italia si è seguita la stessa traiettoria. «Dal 1974, da quando entrò in funzione l’Irpef, gli scaglioni che allora erano ben 32, con un’impronta progressiva, oggi sono diventati 5. È progressivamente aumentato il carico sugli scaglioni più bassi e diminuito quello sui redditi più alti. La flat tax è già operante – scrive Bevilacqua -. Ma tutto il sistema è squilibrato e costruito in danno dei ceti popolari».
La situazione è grave: «Oggi quasi l’intero gettito dell’Irpef grava sui ceti proletari: il 54% proviene dal lavoro dipendente, il 5% da lavoro autonomo, il 30,5% dalle pensioni. Il contributo dei patrimoni – la grande ricchezza nascosta degli italiani – nel 2016 era del 7,2%». Questo sistema impoverisce la stragrande maggioranza degli italiani, favorendo un’abnorme concentrazione della ricchezza privata in pochissime mani[iii].
Purtroppo, l’impoverimento delle masse popolari è frutto delle politiche neoliberiste portate avanti non soltanto dalle destre: hanno pesantemente contribuito anche partiti che, storicamente, avevano rappresentato la difesa dei diritti delle classi subalterne, ovvero le sinistre. È stata «una scelta suicida dei partiti occidentali. I partiti di Mitterand, di Schroeder, di Clinton, di Blair, di D’Alema. Sono stati i gruppi dirigenti di questi partiti che hanno completato l’opera, già avviata dalle destre neoliberiste, con un lavoro di riduzione sistematica del potere pubblico e hanno permesso, con la retorica di liberare l’economia da lacci e lacciuoli, lo scatenamento su scala mondiale degli interessi economici e finanziari privati»[iv].
Il successo planetario del neoliberismo ha indebolito i sindacati, determinando una perdita di diritti dei lavoratori, la crescente precarizzazione e l’impoverimento del lavoro. «Anche le forze di sinistra si sono progressivamente allontanate dai ceti subalterni, per cercare sempre più consenso nei ceti medio alti. È esattamente per tale subalternità strutturale al mercato – ormai poggiante su un meccanismo che si autoalimenta – che tutti i partiti, qualunque sia il loro linguaggio pubblicitario, corrono verso il centro, si orientano cioè verso una politica moderata, che non modifica in nulla l’assetto mostruosamente disuguale della società italiana, tentando di conservare il consenso su quella porzione sempre più minoritaria di cittadini che ancora si reca alle urne». A pagare i costi delle politiche neoliberiste sono soprattutto gli operai poveri (tragico «miracolo del capitalismo del nostro tempo»), le donne disoccupate del Sud, quelle meno pagate del Nord, e tutta una schiera di nuovi lavoratori poveri: rider, braccianti, giovani costretti a emigrare per sperare in un futuro decente[v].
Il fisco, pur fondamentale, non è l’unico tema di cui si occupi l’intervento di Piero Bevilacqua. C’è anche la questione ambientale. «Non è un problema del futuro, ma di oggi. […] In alcune regioni dell’Africa non piove da anni. […] La prolungata siccità di quelle terre è un evento che ci riguarda da vicino e immediatamente […]. Che faremo dei milioni di africani che stanno scappando da terre rese inabitabili dal calore e dalla siccità?». Investire immediatamente sulla transizione ambientale è urgente. «Eppure nel 2021 il nostro governo [Draghi] ha autorizzato una spesa in armamenti, richiesti dalla Nato, per 12 miliardi di euro. Sono anni che sottraiamo risorse fondamentali ai nostri bisogni per produrre e comprare armi, cioè per uccidere esseri umani, distruggere territori, habitat selvaggi, città, opere dell’uomo». Lo scandaloso sperpero di denaro pubblico in armamenti, legato alla nostra ottusa sudditanza agli Usa, porta Bevilacqua ad auspicare «lo smantellamento della Nato, di questa centrale del disordine internazionale, sorgente di spese militari sempre più insostenibili».
Al posto della Nato, «macchina da guerra» che negli ultimi trent’anni ha causato innumerevoli morti e distruzioni in varie parti del mondo, «noi abbiamo bisogno della pace, di un assetto multilaterale del mondo, di una Costituzione della Terra, come ci indica Luigi Ferrajoli (Per una Costituzione della Terra, Feltrinelli, 2022) se vogliamo davvero assicurare la sopravvivenza degli uomini sul pianeta».
Sembrano temi distanti tra loro: fisco, ambiente, pace. Invece sono strettamente collegati. Bevilacqua desidera un rilancio della sinistra, che assuma «una posizione classista, apertamente schierata dalla parte degli ultimi». «Vogliamo cambiare la cultura della politica». Purtroppo, lamenta, i dirigenti politici di oggi non leggono più libri importanti, non avvertono il bisogno di conoscere l’opera di Zygmunt Bauman, Thomas Piketty, Edgar Morin e tanti altri studiosi che, incessantemente, propongono idee per migliorare le condizioni di vita delle classi subalterne. E l’Italia ha un immenso patrimonio politico culturale, disseminato nella società civile, nei «gruppi intellettuali», in «associazioni, circoli, fondazioni, riviste, siti che operano su vari temi e in disparati ambiti territoriali». Questa cultura politica diffusa non rientrerà nei partiti, Bevilacqua non si illude. Ma il ruolo di un partito politico che dia rappresentanza ai ceti subalterni, dialogando incessantemente con le organizzazioni della società civile, sarà fondamentale.
«Il partito politico è stato una delle grandi creazioni della storia contemporanea, insieme al sindacato la leva per l’emancipazione di diverse generazioni di subalterni. Ma io concludo – scrive Bevilacqua – ricordando con Gramsci che il partito moderno non si limita alla rappresentanza, esso ambisce ad organizzare la volontà collettiva, a fare degli individui dispersi una forza ispirata da un progetto generale di cambiamento». Anche un piccolo partito, se svolgerà questo ruolo, potrà fare molto.
Secondo Ernesto Longobardi, «siamo di fronte ad un drammatico indebolirsi della capacità degli Stati nazionali di prelevare tributi per finanziare la spesa pubblica». Questo crollo del potere impositivo degli Stati ha due cause principali: una crisi di consenso e la smaterializzazione dell’economia. Il dilagante populismo fiscale induce parte dell’opinione pubblica e dubitare della legittimità della tassazione per finanziare un uso collettivo delle risorse. Longobardi ricorda un episodio del 2007, quando Tommaso Padoa Schioppa affermò, in una trasmissione televisiva: «“Le tasse sono una cosa bellissima, un modo civilissimo di contribuire tutti insieme a beni indispensabili quali istruzione, sicurezza, ambiente e salute”. Fu sommerso da insulti a destra, ma accolto a sinistra, a dir poco, con imbarazzo e ironia»[vi].
Occorre, secondo Longobardi, «una battaglia culturale sulle imposte. Che ne spieghi il senso e la valenza politica, come mezzo per trasferire le risorse dall’impiego privato a quello pubblico, come principale strumento dell’azione collettiva in campo economico e sociale». Questo cambiamento di paradigma è indispensabile «per una rifondazione del sistema dei servizi pubblici e della protezione sociale, sulla base dei principi dell’universalità e della gratuità delle prestazioni essenziali».
Quanto alla smaterializzazione dell’economia, Longobardi riconosce come i giganti della tecnologia oggi non siano «tassabili con l’armamentario tradizionale dei sistemi tributari nazionali […]. I mezzi e i criteri della tassazione sul piano internazionale andrebbero reinventati».
Le politiche neoliberiste hanno prodotto un tragico aumento della povertà ed un imponente aumento delle disuguaglianze. L’unico modo di porvi rimedio richiede una tassazione progressiva dei redditi e dei patrimoni, per finanziare servizi pubblici gratuiti: il problema della povertà va affrontato dal lato degli investimenti pubblici.
Tra le proposte più innovative emerse in sede internazionale dagli studiosi, Longobardi cita «l’imposta sulle grandi ricchezze a più riprese proposta, negli ultimi anni, dal gruppo di economisti (in particolare, Thomas Piketty, Emmanuel Saez e Gabriel Zucman) che si sono particolarmente occupati del problema della crescita della diseguaglianza e dell’impiego dello strumento tributario per contrastarla. L’imposta patrimoniale in questo caso non è un tributo di massa destinato a colpire la generalità dei contribuenti, ma è strumento di “tassazione dei ricchi”, o addirittura dei “super-ricchi”: colpisce solo una ristretta parte della popolazione al vertice della distribuzione della ricchezza con aliquote significativamente più alte di quelle ammissibili con un’imposta ordinaria di carattere generale».
Pier Giorgio Ardeni sottolinea il ruolo avuto dalla tassazione in alcuni mutamenti economici degli ultimi decenni: «1) La distribuzione individuale del reddito personale è peggiorata; 2) La distribuzione del reddito tra lavoro e capitale è rimasta costante; 3) Le distribuzioni del reddito da lavoro e del reddito da capitale sono variate»[vii].
Analizzando dati economici del Wid, World Inequality Database, Ardeni mostra che «le politiche fiscali e di re-distribuzione servono: aumentano i redditi bassi e diminuiscono i redditi alti». Le tendenze che emergono dicono che chi ha lavorato per vivere, generalmente ha visto il proprio reddito rimanere stabile, mentre è aumentato il reddito di coloro che hanno potuto investire, ovvero il reddito da capitale. «La tassazione ha avuto un’influenza sulla distribuzione, innanzitutto perché le tasse sul reddito personale (e da lavoro) sono maggiori di quelle sul capitale».
Per invertire questa tendenza all’aumento delle diseguaglianze occorre mutare la politica fiscale.
Gaetano Lamanna illustra «l’iniquità fiscale che caratterizza il nostro Paese» citando il superbonus (110%). Del superbonus hanno beneficiato soprattutto le famiglie a reddito alto, per cui la misura ha generato «uno smisurato e vergognoso trasferimento di risorse verso i più ricchi»[viii].
Lamanna ricorda che ormai da decenni non si investono più risorse pubbliche per le case popolari. A suo parere occorre rilanciare l’azione degli enti locali, da finanziare con alcune specifiche tasse. «In una nuova architettura fiscale dovrebbe essere ripristinata l’Imu sulla prima casa per i redditi che superano una certa soglia (ad es. 75mila euro l’anno)». Rilanciare la fiscalità locale, secondo Lamanna, «diventa l’occasione per costruire un programma politico concreto che veda il coinvolgimento della gente del territorio, ricomponendo la frammentazione e le incomprensioni».
Interessante, perché smonta la menzognera propaganda sull’immigrazione delle destre xenofobe, l’analisi di Ignazio Masulli: «Considerando in dettaglio le voci d’entrata e d’uscita del bilancio fiscale dello Stato italiano nel 2019, si può facilmente vedere come le tasse e i contributi versati dagli immigrati eccedano nettamente le spese che li riguardano». La presenza in Italia di persone immigrate conviene allo Stato, anche se si computano, tra le spese legate all’immigrazione, quelle relative alle infami [aggettivo mio] politiche di respingimento[ix].
«Un’autentica politica di accoglienza e di integrazione degli immigrati ne favorirebbe la regolarizzazione anagrafica e l’inserimento nel mondo del lavoro, con i vantaggi anche fiscali che abbiamo appena visto». L’analisi del mercato del lavoro, in Italia e negli altri Paesi europei, smentisce un’altra falsità e dimostra che «gli immigrati non sottraggono lavoro ai nativi; […] la loro attività è fondamentale per lo sviluppo dei Paesi ospiti: Per restare alla situazione italiana del 2019, il lavoro degli immigrati ha determinato una crescita del 9% del Pil».
Molto interessante anche l’intervento di Francesco Pallante, che parte da un assunto, dimostrato dai costituzionalisti statunitensi Stephen Holmes e Cass R. Sunstein nel loro libro Il costo dei diritti. Perché la libertà dipende dalle tasse: «i diritti e le libertà del singolo dipendono dal vigore dell’azione pubblica, poiché senza un governo effettivo i cittadini […] non potrebbero godersi, come fanno, i propri beni, ed è anzi certo che essi godrebbero di pochi o di nessuno dei diritti garantiti loro dalla Costituzione. […] La sfera privata alla quale giustamente attribuiamo così tanto valore, è difesa, anzi resa possibile, grazie all’intervento pubblico»[x].
Il contrario della dottrina del laissez faire, del liberismo: «se non ci fosse lo Stato […] nessuna libertà sarebbe realmente esercitabile». Tutte le attività svolte dallo Stato hanno un costo: il mantenimento della pace; l’attuazione dei diritti costituzionali, siano essi civili, politici o sociali; costa garantire la libertà di circolazione, il diritto all’istruzione o quello di voto. Se la propaganda delle destre neoliberiste afferma di voler proteggere la libertà di commercio e la ricchezza dei privati dall’ingerenza dello Stato, Holmes e Sunstein replicano che «la “ricchezza privata” quale noi la conosciamo, esiste solo grazie alle istituzioni statali. Coloro che criticano tutti i programmi di assistenza sociale in via di principio dovrebbero essere indotti a considerare ciò che dovrebbe essere ovvio – e precisamente che la definizione stessa, il riconoscimento, l’interpretazione e la tutela del diritto di proprietà costituiscono un servizio reso dallo Stato a vantaggio di coloro che attualmente possiedono beni, finanziato a carico di tutti i cittadini».
Siccome la definizione e la garanzia dei diritti da parte dello Stato costa, la garanzia di alcuni diritti può comportare un sacrificio per altri. È allora centrale la legislazione di bilancio, in cui si stabiliscono le priorità politiche tra diverse istanze presenti nella società ed in concorrenza tra loro. «Sul piano politico, il conflitto riguardo al contenuto da dare alla costituzione si trasforma in conflitto sull’attuazione di quel contenuto, vale a dire sulla scelta, rimessa alla discrezionalità legislativa, dell’ordine e dell’intensità di realizzazione concreta delle diverse previsioni costituzionali, pur con l’onere di non dimenticarne nessuna».
La garanzia dei diritti sanciti dalla Costituzione pone dei vincoli alla discrezionalità del legislatore nelle scelte di spesa pubblica: «non tutti gli impieghi delle risorse pubbliche risultano tra loro equivalenti. Occorre distinguere tra spese costituzionalmente vincolate, spese costituzionalmente facoltative e spese costituzionalmente vietate»[xi].
La discrezionalità del legislatore trova un limite nella Costituzione: «Posta, dunque, l’inammissibilità delle spese costituzionalmente vietate, le spese costituzionalmente vincolate devono avere la priorità sulle spese costituzionalmente facoltative». Queste ultime potranno essere decise soltanto se avanzano risorse dopo che sono state soddisfatte le prime, le spese vincolate.
In concreto, Pallante ricorda la proposta del costituzionalista Gianni Ferrara: «modificare la Costituzione inserendovi una espressa “riserva di bilancio in favore dei diritti sociali” in modo “che nei bilanci di previsione dello Stato, delle regioni, dei comuni il cinquanta per cento della spesa risulti complessivamente destinato a garantire direttamente o anche indirettamente i diritti: alla salute, all’istruzione, alla formazione e all’elevazione professionale delle lavoratrici e dei lavoratori, alla retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro, all’assistenza sociale, alla previdenza, all’esistenza dignitosa dei lavoratori e delle loro famiglie»[xii].
Rita Castellani parte dalla constatazione che negli ultimi vent’anni è cresciuta «in modo abnorme la concentrazione di redditi e ricchezza, lasciando in condizioni di povertà crescente larga parte della popolazione. Subito prima della pandemia, nel mondo 26 persone possedevano la ricchezza di 3,8 miliardi di persone, la metà più povera della popolazione. In Italia il 5% più ricco della popolazione godeva di risorse equivalenti a quelle del 90% più povero. Il trend era ovunque crescente e pandemia e guerra potrebbero accentuarlo ulteriormente»[xiii].
Questi drammatici dati, insieme alla stagnazione di lungo periodo, sono il risultato di quarant’anni di deregolazione e di privatizzazione. «Appare evidente che il modo più efficace di contrastare tale andamento è il ritorno di capacità regolatrici dell’operatore pubblico, che stabilisca un ordine di priorità tra gli obiettivi da perseguire e agisca coerentemente con esso». «Abbiamo bisogno di un modello alternativo a quello di ispirazione liberista, in grado di segnare un vero e proprio cambio di paradigma».
Roberto Musacchio compie una rapida analisi della situazione del fisco in Europa. L’Italia non è l’unico Paese in cui è stato frantumato il «contesto virtuoso che vedeva la piena occupazione, il fisco redistributivo, il welfare e il settore pubblico». Musacchio constata, amaramente, che «con la pandemia i processi a favore dei più ricchi si sono moltiplicati, nel Mondo e in Europa. I profitti delle multinazionali dei farmaci, delle comunicazioni, dell’energia sono cresciuti a dismisura. E cosa si fa? Si pensa di fare pagare alle multinazionali più grandi una tassa, del 15%, che è inferiore di gran lunga a ciò che pagano le persone e gran parte delle stesse imprese»[xiv].
È abbastanza noto che l’Italia sia il Paese europeo in cui si registra la più elevata evasione fiscale. I sistemi fiscali dei diversi Stati europei sono differenti sotto vari aspetti, tra cui il livello medio di tassazione rispetto al Pil: la media europea nel 2015 era del 36%, per una banda che va dal massimo danese del 46,5%, al minimo irlandese del 23,4%[xv].
A questi livelli di tassazione si sottraggono in parte persone e imprese, soprattutto multinazionali, che praticano l’evasione e l’elusione fiscale, che il Parlamento europeo definisce «pianificazione fiscale aggressiva», ovvero «la ricerca del modo migliore di pagare meno tasse». Si stima che questo fenomeno sottragga alle casse dei Paesi Ue «tra 50 e 70 miliardi annui», favorito dalle disparità esistenti tra i sistemi fiscali interni all’Europa. La situazione ha gravi conseguenze, perché in questo modo «le imprese multinazionali possono pagare fino al 30% d’imposta in meno rispetto ai concorrenti nazionali e dunque queste pratiche di aggressività pianificata distorcono la concorrenza per le imprese nazionali, in particolare le piccole e medie imprese».
Al di là di evasione ed elusione, «c’è una generale riduzione delle aliquote nominali dell’imposta sulle società, che a livello Ue sono diminuite del 10%, passando da una media del 32% nel 2000 al 21,9 nel 2018». L’insieme di queste situazioni porta a quella che Luciano Gallino denunciava come «lotta di classe rovesciata», cioè «redistribuzione verso i più forti di ricchezza e potere».
Occorre una netta inversione di tendenza. «Il patto fiscale democratico su cui si fondava l’Europa sociale [… era] volto a perseguire gli obiettivi sociali dichiarati con una redistribuzione verso il lavoro, il welfare e il settore pubblico. Con un carattere progressivo. L’Europa reale, e il capitalismo finanziario globalizzato, fanno il contrario: spostano sistematicamente risorse dal lavoro, dal settore pubblico e dal welfare verso impresa, profitto e rendite. La riduzione delle tasse è per tutti i potenti anche se sono i più potenti a farsi maggiormente strada».
Chiude il volume una proposta di Filippo Barbera e Guido Ortona per aumentare sensibilmente l’occupazione giovanile, coniugando giustizia fiscale ed azione pubblica. «Se si vuole attuare una seria riforma della Pubblica amministrazione è necessario che l’organico aumenti, e di molto. I nostri studi suggeriscono che un aumento di circa un milione di unità è ragionevole e può essere finanziato agevolmente»[xvi].
In Italia, rispetto agli altri Paesi europei, gli occupati nel settore pubblico sono troppo pochi, e la loro scarsa consistenza contribuisce ad aggravare il livello di disoccupazione. La proposta di assumere un milione di dipendenti pubblici può sembrare una provocazione, ma è tutt’altro che irrealizzabile. I due studiosi stimano che l’operazione comporti un investimento di circa 26,5 miliardi all’anno. Tra i tanti possibili modi in cui si possono reperire queste risorse, Barbera e Ortona propongono quello che ritengono più semplice e più conveniente: «una imposta di solidarietà sulla ricchezza finanziaria (quindi non sugli immobili). Tale ricchezza è molto elevata (4.445 miliardi, quasi tre volte il Pil di un anno) e molto concentrata, quindi 26,5 miliardi possono essere ottenuti con aliquote molto basse». In questo modo «l’esborso per i contribuenti sarebbe inferiore al rendimento normale della ricchezza finanziaria, e quindi […] lo stock iniziale di capitale non verrebbe ridotto». Questa imposta di solidarietà, con aliquote decisamente basse, l’1% o poco più, interesserebbe quasi esclusivamente i due decimi più ricchi delle famiglie[xvii].
Un ulteriore vantaggio di questa misura è costituito dal fatto che, secondo un sondaggio ed un’indagine ad hoc, i contribuenti interessati da questa imposta sarebbero in gran parte favorevoli. Si darebbe così lavoro ad un milione di giovani disoccupati o sotto-occupati, con costi di esazione praticamente nulli sia per lo Stato che per i cittadini. «La misura raggiungerebbe contemporaneamente quattro obiettivi: promuovere la giustizia fiscale, potenziare l’azione pubblica, combattere la sotto-occupazione e la disoccupazione dei giovani laureati, aumentare la crescita economica. Il fulcro dell’operazione è un’imposta straordinaria “di scopo” sui patrimoni finanziari, disegnata in modo tale da esentare la maggioranza assoluta dei contribuenti».
Barbera e Ortona riportano i risultati di un sondaggio telefonico su un campione rappresentativo, da cui risulta che la maggioranza degli intervistati approva il progetto: «collegare un’imposta patrimoniale a uno scopo riconosciuto come giusto la rende accettabile». Non è vero, secondo i due studiosi, che le tasse facciano perdere consenso. La loro proposta avrebbe un deciso consenso nel Paese, soprattutto se «venisse formulata all’interno di una riforma fiscale complessiva, che reintroduca la progressività fiscale dell’Irpef, riduca il cuneo fiscale, tassi le rendite improduttive, combatta elusione ed evasione fiscale. Da un punto di vista politico non è mai esistito nella storia Repubblicana un periodo più favorevole per una revisione del sistema fiscale in senso perequativo e di sviluppo. Serve la volontà politica per non perdere l’occasione».
[i] Si tratta degli interventi al convegno “Quale fisco per quale sinistra?”, svoltosi a Roma il 9 marzo 2022, organizzato da Piero Bevilacqua, storico e saggista, già professore ordinario di Storia contemporanea presso l’Università La Sapienza di Roma. “Left”, con cui Bevilacqua collabora, lo scorso aprile li ha pubblicati in uno dei “Libri di Left” (pp. 123). I contenuti e le proposte sono piuttosto interessanti e ritengo che meritino di essere ulteriormente divulgati. L’argomento può sembrare un po’ tecnico, ma è di assoluta importanza per il futuro delle nostre democrazie, del welfare, dello Stato sociale, quella conquista politica che ha permesso un miglioramento delle condizioni di vita di milioni di persone nei primi decenni del secondo dopoguerra. L’aumento e la diffusione del benessere attivati nel periodo di crescita dello Stato sociale sono stati interrotti dall’ascesa al potere delle destre neoliberiste nell’ultimo ventennio del secolo scorso. Al link: https://transform-italia.it/quale-fisco-per-quale-sinistra-intervista-a-piero-bevilacqua/ è possibile ascoltare un’intervista a Piero Bevilacqua, rilasciata prima del convegno.
[ii] La sociologa statunitense Monica Prasad conferma che uno dei primi atti del presidente repubblicano è «l’Economic recovery tax varato da Ronald Reagan nel 1981 [che è stato] “il più grande taglio di tasse nella storia americana”». Monica Prasad, The politics of free market. The rise of neoliberal economic policies in Britain, France, Germany & the United States, Chicago university press, Chicago 2006, p. 45.
[iii] Bevilacqua cita dati ricavati dal dossier Fisco & debito. Gli effetti delle controriforme fiscali sul nostro debito pubblico, curato da Rocco Artifoni, Antonio De Lellis, Francesco Gesualdi (qui: http://www.cnms.it/categoria-argomenti/19-debito-e-finanza/189-fisco-e-debito).
[iv] Tra i libri che, a livello internazionale, documentano questo declino dello Stato del benessere, parallelo e causa della crisi delle sinistre, Bevilacqua cita Serge Halimi, Il grande balzo all’indietro. Come si è imposto al mondo l’ordine neoliberale, Fazi Editore, 2006; nonché David Harvey, Breve storia del neoliberismo, Il Saggiatore, 2005).
[v] Sul tema dell’allontanamento dei partiti di sinistra dalle classi subalterne, e sulla conseguenza per cui oggi votano a “sinistra” i ceti più colti, mentre gli operai votano a destra, segnalo La sinistra bramina, intervista di David Broder agli economisti Amory Gethin, Clara Martínez-Toledano e Thomas Piketty (autori del libro Political Cleavages and Social Inequalities. A Study of Fifty Democracies, 1948-2020, [Fratture politiche e disuguaglianze sociali], Harvard University Press, 2021), in “Jacobin Italia”, n. 17, La reazione al potere, Inverno 2022, pp. 85-89.
[vi] Ernesto Longobardi è professore emerito di Scienza delle finanze all’Università degli studi di Bari “Aldo Moro”.
[vii] Pier Giorgio Ardeni è professore ordinario di Economia politica e dello sviluppo all’Università di Bologna.
[viii] Gaetano Lamanna è stato dirigente sindacale della Cgil.
[ix] Ignazio Masulli è stato professore ordinario di Storia del lavoro all’Università di Bologna.
[x] Francesco Pallante è professore associato di Diritto costituzionale all’Università di Torino. Cfr. Stephen Holmes, Cass R. Sunstein, Il costo dei diritti. Perché la libertà dipende dalle tasse, trad. it. Il Mulino, Bologna 1999.
[xi] Qui Pallante fa riferimento a Lorenza Carlassare, Priorità costituzionali e controllo sulla destinazione delle risorse, in “Costituzionalismo.it”, n. 1, 2013.
[xii] Gianni Ferrara, Regressione costituzionale, in “Costituzionalismo.it”, 18 aprile 2012.
[xiii] Rita Castellani è professoressa di Economia presso l’Università di Perugia.
[xiv] Roberto Musacchio è assiduo collaboratore di “Left”, già europarlamentare nel 2004 per Rifondazione comunista ed oggi attivista di Transform! Italia.
[xv] I dati che utilizza Musacchio nel suo lavoro sono quelli raccolti dal ricercatore Richard Murphy, direttore del Tax research Llp.
[xvi] Filippo Barbera è professore ordinario di Sociologia economica dell’Università di Torino. Guido Ortona è economista, già professore ordinario di politica economica all’Università del Piemonte Orientale. Gli studi a cui fanno riferimento i due autori sono riportati in un documento scaricabile dal sito www.centrostudiargo.it, che però attualmente (febbraio 2023) risulta in ristrutturazione.
[xvii] L’imposta proposta riguarda la ricchezza finanziaria, «quindi conti in banca, azioni, obbligazioni, bot». Barbera e Ortona esaminano diverse combinazioni di aliquota e quota di esenzione. «Nel nostro scenario-base, quello con aliquota e quota esente più basse (rispettivamente 1% e 100mila euro) il 60% meno abbiente della popolazione non pagherebbe nulla, e il settimo e l’ottavo decimo quasi nulla; l’aliquota effettiva, data l’esenzione, sarebbe minore dell’1% anche per il decimo più ricco. Naturalmente operando sulla quota esente e sull’aliquota si possono ottenere diversi scenari: per esempio, con una quota esente di 200mila euro ed un’aliquota dell’1,33% sarebbe l’80% delle famiglie a non pagare nulla, e il decimo più ricco pagherebbe poco più dell’1%, mentre, con una quota esente di 300mila euro e un’aliquota dell’1,73% solo il decimo più ricco sarebbe tassato, pagando l’1,16%. La futura disponibilità di dati più aggiornati potrebbe rendere necessario modificare queste cifre, ma solo di molto poco».