Governo Meloni bocciato in economia
di Luigi Pandolfi (*)
La situazione economica del Paese non è buona. Ma il Governo sembra non accorgersene, intento com’è a magnificare pezzetti sparsi di un quadro complessivo, che presenta invece non poche criticità.
Nel secondo trimestre di quest’anno, contrariamente a quanto ci si aspettava, sull’andamento del PIL è tornato il segno negativo (-0,3%), con una flessione distribuita tra il settore primario (agricoltura) e quello dell’industria.
Abbiamo fatto peggio di tutti gli altri paesi europei, ancorché dappertutto prevalga un clima di bonaccia. Sono già alle spalle i tempi in cui la Meloni si faceva scherno dei mali altrui (recessione tecnica della Germania, la Francia che cresceva meno di noi) e gongolava per il +0,6% del primo trimestre. Se andrà bene, per quest’anno avremo una crescita di poco sopra lo zero (si chiama “stagnazione”).
Ma non è detto che il mix di inflazione, indebolimento della domanda mondiale e crisi energetica non ci mandino direttamente in recessione.
Finora ce la siamo cavata con una domanda interna trainata essenzialmente dal reddito di cittadinanza e dal superbonus edilizio.
Due misure che il Governo Meloni ha deciso di cancellare – o comunque di depotenziare fortemente – senza valutare gli impatti delle sue scelte sulla congiuntura.
In uno studio recente (Sulla presunta crescita dell’economia italiana. Guardare la luna o il dito?, www.effimera.org), Andrea Fumagalli e Roberto Romano fanno rilevare che dal 2019 al 2023 la spesa per il reddito e la pensione di cittadinanza è stata di 30,3 miliardi (picco nel 2021 con 8,8 miliardi).
Nel primo anno, scrivono gli autori, «il moltiplicatore (aumento del PIL in rapporto alla spesa effettuata) è inferiore a 1 (0,9) per poi salire sino a 1,2 dopo il terzo anno. Le stime di medio periodo (10 anni) ci dicono che il moltiplicatore potrebbe raggiungere il valore di 1,5 e di 1,7 (con politica monetaria accomodante). In altre parole, è proprio nell’anno in cui viene ridimensionato che il reddito di cittadinanza è in grado di esplicitare il proprio potenziale di crescita economica, per di più in un contesto di forte riduzione del potere d’acquisto dei redditi da lavoro». Un caso evidente di dissociazione dalla realtà.
Anche le esportazioni ci hanno aiutato, finora.
Quelle verso la Cina però, che hanno attenuato gli effetti della contrazione del nostro export verso i Paesi europei. Volumi più che triplicati in un anno, dalla primavera scorsa ad oggi.
Si è chiusa in ogni caso con un -5,4% ad aprile, e un crollo di nove punti per quanto riguarda il mercato tedesco (guai a gioire dei guai della Germania!).
Ma anche su questo versante le scelte del Governo si stanno rivelando incoerenti e pericolose.
Le esportazioni verso la Cina sono in crescita? Usciamo dal memorandum sulla Via della Seta. Sembra follia, ma invece è realtà. Gli Stati Uniti vogliono così e noi obbediamo. Sovranismo? Ci accontentiamo di esercitarlo contro i disgraziati che arrivano coi barconi dall’Africa.
Intanto, il caro carburanti non dà tregua a cittadini e imprese.
Colpisce le aziende, ma soprattutto i ceti popolari. Il Governo se la prende con le accise, ma si guarda bene dal tagliarle, come aveva promesso sfacciatamente in campagna elettorale (e nello stesso decreto che aveva cancellato i tagli di Draghi).
Ma è anche troppo facile tirare in ballo la speculazione, come fanno le associazioni dei consumatori. Beninteso, la speculazione c’è pure, come le accise, ma da una parte e dall’altra si omette una verità scomoda: nell’aumento dei prezzi alla pompa c’entrano anche le sanzioni alla Russia e le strategie dei paesi dell’Opec (riduzione dei barili per sostenere il prezzo), di cui anche la Russia fa parte.
Fino al 5 febbraio di quest’anno, l’Unione europea, compresa l’Italia, importava dalla Russia prodotti petroliferi per un valore di 70 milioni di euro al giorno.
Poi è scattato l’embargo. Stop ai prodotti raffinati russi, con qualche scappatoia: alcuni paesi, come la Turchia o l’India, si sono messi a raffinare un po’ di petrolio russo anche per noi. Ma non basta.
C’è da fare in proprio e affidarsi agli Stati Uniti. Finché ne hanno.
Infatti, proprio il calo delle scorte Usa, insieme alla chiusura di alcune raffinerie in Europa, è oggi uno dei fattori principali della fiammata dei prezzi alle stazioni di servizio.
Ma noi siamo amici degli americani e per gli amici a volte si deve fare pure qualche sacrificio. Come rinunciare al gas russo e comprare gas liquido a un prezzo cinque volte superiore.
Non va meglio sul fronte dei conti pubblici, che potrebbero peggiorare a causa della frenata dell’economia (è in rapporto al PIL che si valuta la sostenibilità del debito), mentre incombe il ritorno delle regole del Patto di Stabilità e Crescita. Se gli Stati membri non si metteranno d’accordo entro l’anno sulle regole di bilancio, torneranno tutti i vincoli previsti dalle assurde norme vigenti, solo sospese negli ultimi due anni per via della pandemia (Giorgetti al Meeting di Rimini ha già messo le mani avanti, dicendo che non ci si può aspettare troppo dalla prossima manovra). Lo spettro dell’austerità, insomma, che, come si sa, è tutt’altro che “espansiva”.
Ciò, mentre al debito storico abbiamo sommato quello del PNRR (i “soldi che ci ha dato l’Europa”, sono per i due terzi a debito, circa 140 miliardi di euro, e assoggettati al cosiddetto “semestre europeo”, le procedure che assicurano l’osservanza dei parametri di bilancio), che per giunta il Governo sta dimostrando pure di non saper spendere tutto (a luglio cestinati progetti per 16 miliardi).
Meno soldi per investimenti che si sommano a meno soldi del reddito di cittadinanza, mentre la benzina costa quanto l’oro e l’inflazione si mangia il potere d’acquisto di salari, stipendi e pensioni (per il “carrello della spesa” l’indice si mantiene a due cifre).
C’è tutto quel che “serve” per far precipitare la situazione, in un quadro europeo e mondiale pesantemente condizionato dalle tensioni geopolitiche legate alla guerra in Ucraina.
E sul versante del lavoro?
Non sono sufficienti i dati dell’ultimo mese di luglio per capire ciò che sta accadendo. Più utile l’ultimo “Rapporto sulla precarietà” dell’Inps, che spiega come nel periodo gennaio-maggio 2023 le assunzioni nel settore privato sono diminuite rispetto al 2022, e che contestualmente sono calati i nuovi contratti a tempo indeterminato.
A crescere sono solo i contratti a termine, i lavoratori stagionali e i contratti intermittenti. Più occupati sì (pesa il recupero fisiologico del dopo pandemia), ma più precari. Una linea di tendenza.
Ma tranquilli, il Governo, in vista della prossima legge di bilancio, sta lavorando per un altro taglio al cuneo fiscale!
(*) Tratto da Volere la luna.
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