Graham Greene attuale e incompreso

di Fabio Troncarelli

 

«Uno scrittore vero, non un … autore di narrativa di genere, sta a metà strada tra un profeta … e un matto».1 La battuta è di Piero Gelli uno dei protagonisti dell’editoria italiana del Novecento, che tra gli altri meriti ha quello di avere ritrovato e pubblicato la «Meccanica» di Gadda. Queste parole, da parte di uno che se ne intendeva, dovrebbero essere un monito per tutti quelli che si occupano di letteratura, sia che ci ammorbino con i concorsi-Sanremo tipo il Premio Strega, sia che assumano le pose del Critico Ipercritico che ne sa sempre più di tutti gli adulti e meno di un bambino. Strano a dirlo, ma invece quell’aurea definizione di Gelli è completamente ignota al lettore italiano “tipo”, sia di gusti facili o difficili: per lui lo scrittore è fondamentalmente un personaggio su cui sproloquiare e fare chiacchiere da cortile, un equivalente dell’orsetto – oggetto transizionale – con cui i bambini dormono, un pupazzo spelacchiato, adorato e maltrattato a piacere, che si può buttare per terra o tenere stretto sul cuscino, ma che in ogni caso non ha una vita propria al di fuori di questo spupazzamento, così come quasi nessuno da noi ha una vita propria al di fuori dello spupazzare coatto da parte di famiglie intrusive e viscide.

«Scrittore profeta» e magari «matto». Chi sarà mai? Don Milani? Figuriamoci. Il vero scrittore, si sa, è uno che rilascia interviste, sta sempre in tv, la spara grossa, commenta con battute cretine le idem (cioè battute cretine) dei politici. Lui dice sempre la sua, intrallazza per avere premi, riceve raccomandazioni da altri intrallazzoni, sta sulla bocca di tutti in spiaggia quando è vivo e sull’universo di giornali, telegiornali, server e radioserve quando muore. Uno come noi, mica uno migliore.

L’attuale sagra di paese spacciata per cultura dimentica non solo quale sia l’identità dello scrittore, ma anche e soprattutto quale sia la sua caratteristica prima: la credibilità dal punto di vista poetico. Come ha scritto il poeta inglese Samuel Taylor Coleridge nelle creazioni di fantasia è necessario immettere un minimo di: «interesse umano e una parvenza di verità sufficienti a garantire a queste ombre dell’immaginazione quella volontaria sospensione dell’incredulità da parte del lettore, che costituisce la fede nella poesia» (Biographia litteraria, capitolo XV). L’artista deve stimolare l’immedesimazione del suo pubblico nelle vicende che narra, non baloccarsi con l’astruso. Se un’opera non provoca il coinvolgimento totale del lettore o dello spettatore, suscitando nel suo animo i sentimenti «di pietà e di terrore» che in essa sono racchiusi, l’arte è muta. Ovviamente, l’arte è egualmente muta ed assente se nell’opera non ci sono sentimenti di nessun tipo con solamente arzigogoli, furbate, filosofia stracciona, chiacchiere e luoghi comuni. In ambedue i casi, per distinguere il grano dalla crusca ci vuole una sensibilità particolare, attenta, vigile, intelligente.

Non si può certo dire che sia avvenuto in occasione della ripubblicazione recentissima del capolavoro di Graham Greene, «Brighton Rock» (a cura di Domenico Scarpa, con una nota di Giorgio Fontana, traduzione di Alessandro Carrera, da Sellerio). Leggiucchiando le pagine dedicate a questa nuova edizione – che sembrano scritte più per senso del dovere che per il piacere del testo – si ha una sensazione penosa: un fiume di parole, nelle quali c’è tutto e il contrario di tutto, meno che il fascino dell’opera. E il suo significato storico.

Il romanzo è stato pubblicato nel 1938, quando Greene non era ancora uno scrittore estremamente famoso, ma aveva già acquisito una certa notorietà con le sue prime opere. Il protagonista è un gangster di diciassette anni, psicopatico e asociale. Somiglia al killer più adulto dell’opera precedente di Greene, «Una pistola in vendita» (A gun for sale) del 1936. In ambedue i casi i protagonisti sono individui che uccidono senza scrupoli, attanagliati però dalla sensazione di essere come lupi: al di fuori della società, privi di relazioni umane e affettive, completamente in balia di una vita mostruosa senza senso e senza limiti. Grazie alla tecnica narrativa del romanzo possiamo conoscere i loro sentimenti, i pensieri ossessivi, cupi e tragici: ma li potevamo intuire anche solo attraverso il loro comportamento. Del resto li possiamo “conoscere” sullo schermo attraverso il comportamento di due altri celeberrimi psicopatici comparsi sulla scena artistica negli anni Trenta, poco prima dei due romanzi: Hans Beckert, l’assassino seriale protagonista di «M. Il mostro di Düsseldorf» di Fritz Lang del 1931 e Tony Camonte, protagonista di Scarface di Howard Hawks del 1932, ambedue rifiuti umani e rifiuti della società, che uccidono con la naturalezza con cui respirano (anche se il primo uccide in preda a un raptus, mentre il secondo sembra avere motivi mentre è un caso psichiatrico).

L’archetipo di questi omuncoli che si sentono superuomini è Raskòl’nikov di «Delitto e castigo», ma nel contesto degli anni Trenta e dell’inquietante successo del nazismo tutto assume una diversa sfumatura: i pazzi che si sentono superuomini, immaginati dagli artisti, sono divenuti esseri in carne ed ossa; sono scesi nelle piazze e pronti a scatenarsi. Greene è stato abilissimo nell’intercettare l’angoscia che pervadeva tutti e tradurla nei termini di un romanzo noir, rivolto al vasto pubblico. La storia che racconta è particolarmente coinvolgente.

L’omicidio di Kite, il boss di una gang da quattro soldi, menzionato in ‎‎«A gun‎‎ ‎‎for sale»‎‎, permette al ‎‎sociopatico‎‎ diciassettenne Pinkie di prendere il controllo della sua banda che gestisce le scommesse sulle corse all’ippodromo, il Brighton Racecourse, Whitehawk Hill e mette in moto gli eventi del romanzo‎‎. ‎‎‎ L’omicidio di Kite era stato causato da un rapporto di Charles “Fred” Hale sul ‎‎«Daily Messenger»‎‎‎‎. Ora Hale, decaduto dal suo ruolo di cronista, è stato inviato dal giornale a ‎‎Brighton‎‎ per distribuire cartoline numerate, che fanno vincere premi in un concorso con estrazione dei numeri. Hale si rende conto di essere braccato dalla mafia di Pinkie. Incontra per caso Ida Arnold, una cantante di mezza età in un pub. Terrorizzato, esce in strada con lei sul ‎‎Palace Pier‎‎ mentre la folla si sta avvicinando, ma viene portato via senza che Ida si renda conto di quello che gli è successo. Di nascosto Pinkie lo ha raggiunto ed ucciso. Per confondere le indagini della polizia, Pinkie fa distribuire le cartoline di Hale in città da un membro della gang, Spicer, per far credere Hale fosse ancora vivo. Ma Spicer si fa scoprire da Rose, la giovanissima cameriera di un pub che potrebbe riconoscerlo e testimoniare contro di lui alla polizia. Pinkie deve fare qualcosa per impedirlo. Decide di fare la corte a Rose per sposarla, in modo che ‎‎non possa testimoniare contro di lui‎‎. In realtà la considera con disprezzo e la odia perché viene dal suo stesso quartiere, povero e malfamato.

Pinkie e Rose non appartengono alla Brighton scintillante e ruffiana dei turisti; sono nati e cresciuti in quartieri miserabili, sotto Carlton Hill, dietro a Edward Street, distrutti verso la fine degli anni Trenta. In questi ambienti vivono gli ultimi della scala sociale, che nell’Inghilterra protestante sono proverbialmente i cattolici, siano essi irlandesi o inglesi. Anche Rose e Pinkie sono stati battezzati ed educati nella fede cattolica che hanno poi quasi dimenticato.

Tornata a Londra, Ida legge dell’inchiesta sulla morte di Hale e – ricordando lo stato di terrore in cui si trovava l’ultima volta che lo ha visto – decide di andare a Brighton per scoprire la verità. Qui ritrova un vecchio amante e comincia insieme a lui la sua inchiesta. Rose rifiuta di collaborare e avverte Pinkie dell’indagine di Ida: il giovane boss s’innervosisce e ha paura che Rose spifferi tutto. Comincia ad avere paura anche di Spicer, che pure era suo amico: messo alle strette potrebbe parlare. Nel frattempo Pinkie viene convocato da Colleoni, un potente gangster che vuole essere l’unico padrone di Brighton. Pinkie rifiuta l’invito di unirsi a lui, ma poi finge di averci ripensato per convincere Colleoni ad uccidere Spicer durante le corse all’ippodromo, con la scusa che è un ostacolo per i loro rapporti. Colleoni diffida di Pinkie e gli manda contro i suoi sicari che lo sfregiano col rasoio per dargli una lezione. Intanto altri killer cercano di eliminare Spicer, che riesce a fuggire.

Pinkie, ferito nel corpo e nell’orgoglio, torna a casa: trova Spicer impaurito e lo butta di sotto da una scala. Poi chiama il suo avvocato, un losco personaggio che si chiama Prewitt: lo convince ad aiutarlo a coprire l’omicidio e a ottenere la licenza di matrimonio con Rose, nonostante sia minorenne. L’avvocato riesce in tutte e due le imprese: il matrimonio civile viene celebrato e la polizia chiude il caso di Spice, etichettandolo come “disgrazia”. Pinkie non è ancora soddisfatto: scopre che Rose ha sempre saputo della sua vita criminale, ma non se ne è mai preoccupata e questo lo fa sentire ancora più vulnerabile. E teme anche le reazioni di un altro membro della banda, Cubitt, un amico di Spicer, che capisce come la sua morte non sia stata casuale. Sentendosi in trappola, Pinkie propone un ‎‎patto suicida‎‎ a Rose, con la scusa che Ida sta per farlo arrestare dalla polizia. Il suo piano è convincerla a spararsi prima di lui e poi fuggire. Per questo la porta fuori città: a Peacehaven, dove ci sono case in costruzione che nessuno sorveglia. Ma Ida e il suo compagno li hanno pedinati, convincendo un poliziotto a seguirli. Pinkie li scopre e cerca di lanciare ‎‎una bottiglia di vetriolo‎‎ contro di loro, ma tradito dall’emozione si versa il vetriolo addosso e brucia come un dannato dell’inferno, correndo su una scogliera e precipitando di sotto.

Rose sconvolta si ‎‎confessa e‎‎ spiega al prete che aveva voluto accompagnare Pinkie anche nella dannazione. Le viene detto che se Pinkie l’aveva amata, allora c’era del buono in lui e lei poteva diventare il mezzo per la sua salvezza finale. Rose se ne va, non vede l’ora di ascoltare una registrazione che ha fatto per gioco il giorno del loro matrimonio, credendo che nel disco Pinkie le confessi il suo amore. Invece il ragazzo ha registrato un messaggio crudele, dicendole che è una puttana e che la odia, riuscendo così a ferirla, a sfregiarla anche dall’al di là.

Il romanzo di Greene si chiude con la parola «orrore». Una diretta reminiscenza della ultime parole pronunciate dal mostruoso protagonista di «Cuore di Tenebra» di Joseph Conrad, che risuonano cupe e spaventose nel cuore di ogni lettore del testo e soprattutto in chi ha avuto la fortuna di sentirle sussurrare con una voce trasandata e allucinata da Orson Welles, nel suo adattamento del romanzo per il Mercury Theatre del 6 novembre 1938 (https://www.youtube.com/watch?v=PcKH74lnPEo, minuti 22, secondi 12-16). Il cuore di tenebra, ci grida in faccia Greene, è nel cuore della nostra civiltà. Non c’è bisogno di andare fino in Congo per trovare il Male: è qui, vicino a noi, proprio dove la gente va a divertirsi e a fare follie. Come chi va a Brighton, che agli inizi del Novecento era divenuto una specie di immenso Twiga, un baraccone osceno in cui si esibiscono vecchie cortigiane con il viso impiastricciato che sembrano la Saraghina del film «8 e 1/2» di Fellini; una Nuova Sodoma dove tutti, esaltati e ubriachi, si abbandonano a un lusso e a una lussuria immaginari: mitomani maniacali che nascondono con questo spettacolo triste un’immensa miseria morale e una profonda, allucinata perversione. Pinkie è il simbolo dell’infanzia tradita, dell’innocenza perduta, della disperazione più cruda. E si staglia come un fantasma sinistro davanti ai nostri occhi, non solo per la sua vita violenta, ma per la sua vita violentata, profanata. Sfregiato nel corpo e nell’anima è l’immagine espressionista di un mostro che urla il suo dolore come una belva ferita e lo scaglia come se fosse un’arma contro un mondo di mostri che vuole solo farlo a pezzi, e che finisce per sbranarlo. Come Peter Lorre in «M.». Come Paul Muni in «Scarface» di Howard Hawks.

Con «Brighton Rock» Greene mette sulla pagina esseri umani che potrebbero figurare in un film di Friederich Murnau o di Fritz Lang: personaggi sinistri a metà strada tra Nosferatu e Sigfrido, condannati a vivere in un Luna Park crudele e abietto. L’effetto è quello di un quadro di Goya: esagerato, esasperato, indemoniato, violento, sconcertante. Non è un caso se la rispettabilissima società britannica arricciò il naso, nonostante il compiacimento apparente per lo scandalo suscitato da uno dei suoi figli prediletti, certo il più nevrosé, che garantiva soldi a palate per case editrici e librai anche con rifacimenti e riadattamenti teatrali. Nel film del 1947, girato con scrupolo ossessivo nei luoghi descritti dallo scrittore, la ferrea censura del conformismo duro e puro impose a Greene, che pure collaborò alla sceneggiatura, due capestri che devitalizzavano del tutto l’opera. All’inizio appariva un’ arcigna dichiarazione di responsabilità limitata che proclamava: «Brighton oggi è una ridente, gioiosa città di mare.. Ma negli anni fra le due Guerre… esisteva un’altra ‎‎Brighton, fatta‎‎ di vicoli bui e baraccopoli in putrefazione …dalla quale scaturrono crimine, violenza e guerra tra bande fino a quando la polizia non intervenne in modo definitivo. Questo film parla di quest’altra Brighton, che ora fortunatamente non esiste più». Quanto alla fine, non si sentiva più la frase spaventosa di Pinkie sul disco e Rose credeva, con gli occhi pieni di lacrime, di essere stata amata.

Non fu diversa la sorte di film come «M» o come «Scarface», nonostante il successo di pubblico. Il primo fu ritirato dalle sale in Germania dai nazisti ed ebbe una vita travagliata all’estero: si pensi che in Italia fu proiettato per la prima volta solo nel 1960 e solo per preparare il terreno a «Psycho» di Hitchcock, che comparve qualche mese dopo. Il secondo fu pesantemente manipolato dalla censura statunitense e, alla fine, ritirato dalle sale dagli stessi produttori, che lo rimisero in circolazione solo nel 1979.

C’è poco da aggiungere: la società non ne vuole sapere dei mostri. O meglio: non ne vuole sapere quando i mostri sono così sconvolgenti e coinvolgenti: quando rivelano la parte mostruosa che c’è in ciascuno di noi. Se invece sono personaggi da Grand Guignol, allora non c’è problema, tanto sono solo marionette! E allora dagli giù con «Hannibal the cannibal» e schizzi di sangue-pomodoro alla Tarantino! E’ come con il sesso: «L’ultimo tango a Parigi» bisogna bruciarlo, manco fossimo ai tempi dell’Inquisizione; ma tutto il porno-soft delle Edwige Fenech, Laura Antonelli e compagnia bella lo si vede la sera in famiglia!

Ci fosse solo la censura. Il peggio è rappresentato dalla critica letteraria e dai giornalisti, sempre pronti ad aizzarsi per difendere i padroni dai lupi, andando in soccorso al vincitore, come scrisse Ennio Flaiano. Il tormentone su Greene è cominciato subito dopo la pubblicazione del libro e continua anche oggi, nonostante o forse proprio a causa del grande successo di un autore a cui non viene perdonato di essere popolare. I primi ragli si udirono subito: Greene è uno scrittore cattolico e descrive personaggi e situazioni degne del suo credo. L’assurdità di questo raglio è duplice. La prima è che anche Dante era “cattolico” ma noi lo leggiamo lo stesso e restiamo impressionati dal Conte Ugolino che morde il teschio del suo rivale o da Paolo e Francesca che si amano anche nell’Inferno per la loro forza espressiva, non certo perché sono la traduzione in versi del catechismo. La seconda assurdità del raglio consiste nel trascurare un elemento addirittura banale, a cui tuttavia non è stata data la dovuta importanza: Brighton è una delle città inglesi dove ci sono da sempre un gran numero di cattolici, ovviamente poveri ed emarginati. Nonostante le leggi contro il £papismo” in Gran Bretagna fin dall’inizio del XIX secolo, molte restrizioni furono allentate dall’approvazione degli atti del Parlamento nel 1778 (il ‎‎Papists‎‎ Act) e nel 1791 (il ‎‎Roman Catholic Relief Act‎‎). La legge del 1791 permise la costruzione di chiese cattoliche per la prima volta, anche se c’erano restrizioni sul loro aspetto (non erano consentite campane o campanili). ‎‎‎‎La comunità cattolica di Brighton al tempo del Relief Act era piccola, ma due fattori la fecero crescere nel 1790. Molti rifugiati della ‎‎Rivoluzione francese‎‎ si stabilirono a Brighton; e ‎‎Maria Fitzherbert‎‎, una cattolica rimasta vedova due volte, iniziò una relazione con il ‎‎principe reggente‎‎ (e lo sposò segretamente nel 1785 in una cerimonia che era illegale secondo l’Act of Settlement del 1701 e il ‎‎Royal Marriages Act del 1772‎‎).‎‎ La donna accompagnava il principe reggente ogni volta che visitava Brighton, e aveva la sua casa in città (Steine House su Old ‎‎Steine‎‎). ‎‎

Il primo luogo di culto cattolico a Brighton fu fondato nel piano superiore di un negozio nel 1798; e‎‎ fu uno dei primi in Gran Bretagna. ‎‎Nel 1805 il sacerdote responsabile, un ‎‎emigrato‎‎ francese, iniziò a raccogliere fondi per un edificio permanente; fu trovato un sito su High Street, ad est del ‎‎Royal Pavilion‎‎ e Old Steine, vicino a Nelson Place … dove sono nati Pinkie e Rose. La chiesa ‎‎in stile classico‎‎ fu completata nel 1807. E’ stata demolita solo nel 1981. Nel 1829, quando l’emancipazione dei “papisti” inglesi fu pienamente raggiunta, la comunità cattolica di Brighton costruì una chiesa più grande ed elaborata un po’ più a sud: la nuova chiesa di San Giovanni Battista fu consacrata il 7 luglio 1835 e inaugurata il 9 luglio 1835; la quarta a essere consacrata in Inghilterra dalla ‎‎Riforma‎‎ nel 16 ° secolo. ‎‎

Non è affatto strano, di conseguenza, che due sottoproletari di Brighton come Pinkie e Rose possano avere avuto un’educazione cattolica e nutrire sentimenti che derivano dalla loro educazione come il senso ingenuo di una redenzione impossibile da parte di Rose e come, soprattutto la delirante fiducia nell’esistenza dell’inferno, di Satana e della dannzione eterna da parte di Pinkie.

Dunque il primo raglio non ha ragione di esistere: eppure ogni tanto il suo eco ritorna ancora oggi (si veda per esempio l’articolo, peraltro brillante, di Jake Arnott, Mad, bad and dangerous to know apparso sul «Guardian» del 20 luglio 2002).

Il coro dei ragli è proseguito sempre più col passare del tempo. Moravia, come ricorda Scarpa nella postfazione dell’edizione Sellerio, affermò nel 1949, lapidario e cretino come sempre, che Pinkie, Rose e Ida: «esistono in quanto esiste la realtà materiale e concreta di cui fanno parte; fuori di questa realtà non è possibile isolarli». Un’affermazione perfetta anche per «Ladri di biciclette» e «Germania anno zero!». Lo scrittore John Maxwell Cotzee, scrisse nel 2004 in una prefazione al testo che in Brighton Rock ci son «momenti di comico eppure terribile orgoglio luciferino» aprendo la via a coloro che si sono meravigliati come in Greene ci sia qualcosa di «grottesco», quasi che il “grottesco” non sia l’altra faccia dell’incubo, come mostrano chiaramente l’Inferno di Dante o i Capricci di Goya.

E’ raro trovare qualcuno che ami Greene per quello che è; e sia felice di provare l’orrore e il dolore che ci ha voluto trasmettere, senza alcuna redenzione se non quella di sentirci più umani. Non voglio dire che nessuno capisca lo scrittore, che anzi è molto apprezzato da una vasta serie di fedeli lettori. Ma voglio dire che, nonostante gli anni, Greene è ancora per molti versi una fonte di imbarazzo. Valgano per tutte le parole di Paolo Bertinetti, che ha curato, la pubblicazione dell’opera omnia dell’autore nella collana dei Meridiani di Mondadori: «Con Greene abbiamo uno dei massimi scrittori inglesi del Novecento. Eppure non è stato capito. La principale ragione di questo “abbaglio” risiede nel pregiudizio snob, da parte della critica letteraria, che lo accusava di essere scrittore di “troppo grande” successo. Uno scrittore che vende troppe copie rischia questa forma di “ostracismo”… A tale ragione se ne aggiunse poi un’altra, verso la fine degli anni ’50, quando, anche in Italia, Greene fu ritenuto uno scrittore anti-americano. Mi riferisco soprattutto alla critica giornalistica – perché quella accademica era appunto “intrappolata” nel primo pregiudizio – che lo bollò come antiamericano soprattutto a causa della pubblicazione di romanzi come Un americano tranquillo (secondo me uno dei suoi migliori libri, in cui, fin troppo facilmente, Greene profetizzava la degenerazione del conflitto vietnamita); libro, questo, nel quale il governo degli Stati Uniti non faceva proprio una bella figura». (vedi Graham Greene attuale e incompreso, intervista di Andrea Monda a Paolo Bertinetti: Rai cultura, dicembre 2019).

Forse sarebbe il caso che ci liberassimo di tutti gli arzigogoli e variazioni sul tema “Greene è imbarazzante” e cominciassimo ad accettare che l’incubo è accanto a noi, dentro di noi, anche se ci fa comodo credere di vivere nel migliore dei mondi possibili, nell’epoca che è stata definita «la fine della storia» da chi pensa che la storia inizi e finisca con lui (poveraccio!).

 

1 Antonio Gnoli , Piero Gelli, testimone dell’editoria italiana, “Repubblica”, 9 marzo 2015

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Un commento

  • angelo maddalena

    Meraviglioso, grazie, non l’ho letto tutto ma la prima parte mi sta dando parecchi spunti di riflessione che sto cominciando a trascrivere, grazie

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