Grecia, un inferno alle porte dell’Europa
articoli di Francesca Del Giudice e di Doriana Goracci
Il mondo sospeso di Vial
testo e foto di Francesca Del Giudice (*)
L’ex fabbrica di alluminio Vial, nell’isola greca di Chios, è stata trasformata in un campo rifugiati. Si arriva qui in attesa di attraversare la rotta balcanica verso l’Europa del nord. Vial doveva accogliere poche centinaia di persone: sono settemila e altre cinquemila, tra cui molti bambini, sopravvivono in condizioni disperate nella “giungla” che si è formata intorno. Tutto il campo è invaso da ratti e scarafaggi. “Chi è stato anche al campo di Moria a Lesbo sostiene che questo di Chios, se possibile, è ancora peggio”, racconta Francesca Del Giudice rientrata dall’isola.
Elyas è un ragazzo di diciassette anni, partito dall’Afghanistan per raggiungere suo zio ad Amburgo. Dopo qualche giorno dal nostro primo incontro, mi racconta del suo viaggio: nel luglio scorso ha preso un volo per l’Iran, da lì ventuno ore di autobus per la Turchia dove ha atteso tre mesi prima di prendere la barca per la traversata di dodici ore che l’ha portato a Chios, una delle isole greche interessate dalla crisi migratoria dal 2015. Elyas conosce sei lingue, ha studiato sempre e tanto, e si distingue per il suo essere pacato e sorridente. È lui che mi porta dentro al campo rifugiati di Vial. Ed è lui a facilitarmi i discorsi con i residenti migranti del campo che condividono con me esperienze e dinamiche di questa tragica parentesi di vita.
La storia di Elyas è simile a molte altre qui a Vial, un’ex fabbrica di alluminio nel villaggio di Kalkios, a più di sette chilometri di distanza dalla capitale dell’isola, lontano dal mare, lontano dagli occhi di tutti. Parliamo di un campo, nato nel 2016 e gestito dal governo greco e dall’esercito, che ufficialmente potrebbe ospitare non più di mille persone, e che ad oggi conta più di settemila rifugiati, provenienti principalmente dall’Afghanistan, Iraq, Siria e Kurdistan, poi Palestina, Somalia, Camerun, Congo e Yemen. Questo numero è destinato a crescere sempre di più soprattutto perché, anche in pieno inverno e con il mare mosso, i migranti tentano lo stesso di imbarcarsi vista la distanza ridotta con la costa turca. Quando sono andata per la prima volta a Chios sono rimasta impressionata da tale vicinanza: le montagne della Turchia, le luci della città di Smirne e dei paesi vicini, i segnali di avvistamento del mare turchi, sono visibili a occhio nudo.
Vial versa in condizioni disperate: chi è stato anche al campo di Moria a Lesbo sostiene che questo di Chios – se possibile – è ancora peggio. Un campo pericoloso e promiscuo, con pochissimi servizi e senza misure di sicurezza, dove convivono uomini, donne, anziani, minori, bambini, neonati. Il campo è formato da un’area formale dove sono situati i container di UNHCR, l’info-point adibito alla registrazione e le visite mediche e legali, i bagni e gli scarni servizi di ristorazione; e un’area esterna, la cosiddetta “giungla”, che si è formata negli ultimi mesi e dove vi sono ormai più di cinquemila persone, senza luce, senza elettricità, senza acqua, senza una fonte di calore. Non c’è spazio vitale, e ormai i rifugiati arrivano e iniziano a costruire dove trovano un fazzoletto libero di terra: intere famiglie vivono in tende con un ramo spesso che ne crea un’altezza tale da poter stare in piedi, gruppi di ragazzi invece hanno creato un vero e proprio villaggio, come quello dove vive Ahmed, un palestinese, con quattro grandi tende che circondano un giardino con ciottoli e piante grasse; altri costruiscono vere e proprie abitazioni, come quella di alcuni uomini siriani: martello e chiodi per realizzare la struttura di quella che diventerà l’alloggio dove ripararsi dalle intemperie, dal vento, dal sole, da chissà quante stagioni ancora.
Le file per lavarsi e andare in bagno sono interminabili e non mancano giorni in cui la fornitura d’acqua viene tagliata senza preavviso. Per colpa delle lunghe file, spesso i bisogni fisici vengono espletati nei campi, ed è per questo che si creano quelli che scherzosamente vengono definiti “bombs land”, interi pezzi di terra pieni di escrementi umani. Le condizioni igieniche sono al limite: tutto il campo è invaso da ratti e scarafaggi e il pericolo di diffusione di malattie è molto alto.
Chi sbarca a Chios sa che – salvo casi eccezionali – dovrà rimanere per diversi mesi a Vial prima di poter fare l’intervista per la propria domanda d’asilo e prima di ricevere la Khartia, il documento che permette lo spostamento in Grecia, e che spesso dà avvio alla rotta balcanica, ossia il passaggio di frontiere e Paesi in modo illegale perché unica via verso la libertà e verso il nord Europa, dove molti di loro vogliono arrivare. C’è chi addirittura mi confessa che preferirebbe essere messo in carcere ad Atene per provare a fuggire ed essere già sulla terraferma, chi invece escogita piani di fuga illegali per iniziare la rotta verso nord.
Le tensioni sono sempre all’ordine del giorno, soprattutto tra le diverse comunità che compongono il campo: per questo ogni comunità ha una propria sezione dove vivere e un proprio leader, a cui si chiede, anche di mediare in caso di conflitto. Elyas e altri rifugiati del campo mi spiegano anche che ciascuno di loro dovrebbe ricevere ogni mese dallo Stato circa 90 euro, ma in realtà il contributo effettivo che arriva loro è di 50 euro e, ovviamente, questi soldi finiscono molto presto. Così i rifugiati che stanziano a Vial si indebitano con altri residenti oppure vivono miseramente, cercando di risparmiare quanto più possibile su ogni bene primario e necessario, come cibo o acqua.
Sono stata due volte a Chios come volontaria, e mi sono occupata di diverse attività: mettere in ordine, lavare e cucinare verdure nella cucina vegetariana, la “Chios People’s Kitchen”, gestita da uno chef siriano e messa a disposizione da un cittadino locale di Chios, dove ogni giorno vengono preparati circa duecento pasti per le famiglie che hanno la protezione internazionale e la possibilità di vivere negli appartamenti affidati da UNHCR nelle cittadine centrali dell’isola. Mi sono occupata poi di aiutare l’associazione inglese “Refugee Biryani & Bananas” nello smistamento e distribuzione di oltre mille pacchi di cibo e vestiti a oltre cinquecento uomini. Quest’ultima è una delle poche associazioni presenti sull’isola e per questo di fondamentale importanza per chi vive nel campo, soprattutto in termini umani perché non si sentono del tutto abbandonati e lasciati soli.
L’invito che rivolgo a tutti è di raggiungere queste isole, anche se si hanno pochi giorni a disposizione, perché si incontra il peggio e il meglio dell’umanità e perché questa realtà è come una bolla sospesa nello spazio e nel tempo, che non ti abbandona. Malgrado tutto, ti arricchisce il cuore e l’anima.
(*) Fonte: Comune-Info
Siamo in Grecia a Moria, Lesbo, Europa e il futuro?
di Doriana Goracci (*)
Bambini anche di pochi mesi con gli occhi rossi per il gas, un corteo pacifico guidato dalle famiglie attaccato senza pietà dalla polizia. Chiedono giustizia, libertà, rispetto dei più elementari diritti umani, questo quello che ricevono in cambio.
E’ quanto leggo sulla pagina di Federica Tourn, su Facebook, ci sono le foto che accompagnano sempre i suoi scritti di attenta e partecipe giornalista…sono gli scatti di Stefano Stranges.
Siamo in Grecia a Moria, Lesbo, Europa
Da Greekreporter.com “La polizia sull’isola dell’Egeo orientale di Lesbo ha usato gas lacrimogeni per disperdere una marcia di richiedenti asilo e migranti dal famigerato campo di Moria e impedire loro di raggiungere la capitale di Mytilini lunedì 3 febbraio.La polizia si è scontrata con circa 1.000 manifestanti, che stavano cercando di sfondare un cordone allestito sulla strada principale che porta da Moria a Mitilene. Molti manifestanti stavano marciando insieme a tutte le loro famiglie.Alcuni manifestanti hanno anche incendiato un’area vicino alla centrale elettrica di Public Power Corporation (PPC), mentre un altro gruppo è riuscito a raggiungere la città e ha occupato la strada centrale che porta al porto, installando tende davanti al teatro municipale di Mytilini.La marcia, iniziata intorno alle 10:30 di lunedì, è stata organizzata per protestare contro le spaventose condizioni di vita nel campo gestito dallo stato, che dovrebbe ospitare ed è stato costruito per accogliere”.
A settembre 2019 – 59.726 i richiedenti asilo giunti via mare sulle coste greche – si leggeva: ” Tragedia nel campo profughi di Lesbo dove la situazione era già insostenibile da mesi con oltre 13.000 persone in una struttura che ne può ospitare 3500. Una donna e un bambino sono morti nell’incendio (sembra accidentale) di un container dove abitano diverse famiglie ma le vittime potrebbero essere di più. Una quindicina i feriti che sono stati curati nella clinica pediatrica che Medici senza frontiere ha fuori dal campo e che è stata aperta eccezionalmente.”
Il ministro Mitarakis, ha detto in un’intervista a Radio Thema 104.6: “Le regole del gioco sono cambiate,la Grecia non è un posto dove può arrivare chiunque a proprio piacimento. Stiamo difendendo i nostri confini“.
Non a caso migliaia di persone hanno protestato il 23 gennaio contro i campi di immigrazione sull’isola greca di Lesbo, chiedendo l’immediata rimozione dei richiedenti asilo. Il più grande campo dell’isola di Moria ospita oltre 19.000 richiedenti asilo in un campo con una capacità di 2.840 persone.La maggior parte dei negozi sono stati chiusi e i servizi pubblici sono stati fermati sulle isole di Lesbo, Chios e Samos, dove alcuni campi profughi hanno un numero di persone 10 volte superiore a quello per cui sono stati costruiti. Zlatica Hoke di VOA riferisce che i manifestanti greci vogliono una chiusura dei porti di ingresso e una più equa distribuzione dei migranti in tutto il paese.
A novembre 2019 in un video tutto girato nel campo di Moria a Lesbo, Alessio Boni, quello che noi conosciamo come attore, si rese disponibile per Medici Senza Frontiere e vide con i suoi occhi e noi così sappiamo,che “oltre 15.000 uomini, donne e bambini vivono in condizioni disumane: un inferno alle porte d’Europa. Nessuno dovrebbe vivere in questo inferno. L’Unione Europea e le autorità greche devono evacuare urgentemente le persone più vulnerabili dal campo di Moria. Msf.it/grecia Msf ringrazia per la sua testimonianza Alessio Boni che ha visitato i nostri progetti di assistenza medica e psicologica sull’isola e ha portato la sua testimonianza a tutti voi.“
E’ passato Natale, siamo presi dal coronavirus, sono sempre più soli e abbandonati, è stato già tanto avere sentito la notizia iniziale al Tg3.
Siamo in Grecia a Moria, Lesbo, Europa e il futuro? Posso solo immaginare e poco, come sarà la loro vita in quell’isola,i l tempo, quando se ne andranno le temperature miti di questo strano inverno e arriverà il gelo pungente, tra pochi giorni…
Torna alla mia mente la musica che ascoltavo nelle vacanze in Grecia 50 anni fa, il rebetiko
(*) ripreso da www.agoravox.it dove trovate anche tre link
sconvolta, indignata, impotente…