“Grigio” lavoro di cameriera? No grazie…

a me piacciono i colori forti

di Super User (*)

Questa è la piccola storia di una rivincita personale e di una piccola vittoria collettiva.

Sai quei baretti carini carini, nuovissimi e attraenti? Oppure quei locali luci soffuse e buona musica, oppure quei pub in stile esotico dove vai a mangiarti un panino, una bistecca, a bere un bicchiere? Sempre pienissimi di gente, ché a volte devi prenotare e dove spendi bei soldi perché l’economicità non è sempre loro caratteristica… Per non parlare di quei ristoranti sciccosi che ti puoi permettere solo nelle grandi occasioni…

Ecco, è in posti come questi che lavora la maggior parte delle ragazze e dei ragazzi che si rivolgono alla sportello legale della Camera Popolare del Lavoro dell’Ex OPG di Napoli.

Si tratta di lavoratori e lavoratrici per lo più a nero (senza contratto) ma non solo. Molti hanno situazioni ibride, cosiddette a grigio: cioè hanno un contratto di lavoro che funziona solo come pezza d’appoggio per la loro prestazione, un contratto che non viene rispettato o perché magari contempla un orario di lavoro differente da quello effettivo, o perché prevede una mansione inferiore a quella esercitata realmente dal lavoratore.

Lavorare senza contratto o sulla base di un contratto fasullo significa non avere orari prestabiliti, tirare fino a tardi la notte se i clienti non se ne vanno, rinunciare alla tredicesima, ai contributi pensionistici, sottostare alla decisioni improvvise del padrone sia quando decide di cambiarti di turno, sia quando decide di licenziarti e non versarti il trattamento di fine rapporto che ti spetta. Lavorare a nero o a grigio significa regalare ai padroni il nostro tempo, i nostri soldi e la nostra dignità… Perché se anche chi ha un contratto regolare oramai è ricattabile – e con il jobs act i padroni hanno affondato il loro ultimo colpo ai diritti dei lavoratori e alla sicurezza sociale – immaginiamoci gli altri, che diritti hanno?

La rassegnazione è il sentire comune, quello che ognuno di noi superficialmente prova quando si parla di lavoro irregolare e anche quando è il proprio lavoro a essere irregolare: aspettiamo la prossima occasione, magari sarà più conveniente, intanto meglio tenersi stretto questo… Ma fuori dal meccanismo del ricatto, che purtroppo è difficile invertire, qualche passo avanti va fatto, a partire dalla consapevolezza che, nonostante l’assenza di contratto o il contratto irregolare, i nostri diritti del lavoro (adeguamento salariale, ferie, contributi, ecc) ce li abbiamo, ci devono essere garantiti e possiamo legittimamente rivendicarli.

Non è cosa semplice, parliamo di un cambiamento nel modo di pensare il lavoro oggi, parliamo di digerire l’idea che esiste un limite allo sfruttamento, che tocca a noi e solo a noi mantenere quell’asticella il più possibile bassa. Non è cosa semplice ma è necessaria, e può funzionare solo se resa comune, attraverso il mutuo sostegno, la condivisione di problemi e istanze, la ricerca collettiva delle concrete prospettive di miglioramento. Un po’ quello che si fa alla Camera del lavoro di Napoli, e tra le tante storie che qui si avvicendano, ce n’è una particolarmente significativa che ci piace anche stavolta condividere.

Aida, laureata in architettura ma cameriera da otto anni, contrattualizzata per poche ore in un locale molto in voga della provincia napoletana, era stanca di essere sfruttata, stanca di avere orari imprevedibili, di non vedersi riconosciuti gli straordinari, le ferie, la tredicesima… stanca di non essere trattata con rispetto. Si è rivolta allo sportello legale per un giro di conoscenze comuni, innanzitutto per un consiglio: voleva interrompere il suo rapporto di lavoro perché esasperata dalle sue condizioni, ma non poteva andarsene così, senza nemmeno provare a ottenere anche quello che le spettava.

La prima cosa suggerita è stata di non rassegnare le dimissioni perché esasperata dalla situazione: questo è esattamente quello che vuole il padrone e non è certo nell’interesse del lavoratore. Aida ha dovuto tenere duro per qualche mese ancora, perché il padrone, nonostante i pessimi rapporti tra i due, non aveva intenzione di licenziarla, forse perché lei era brava, ci sapeva fare con i clienti, o forse per puro dispetto. Intanto, fatti i conteggi di quanto le spettasse economicamente, con il supporto dello sportello legale Aida ha avviato la trattativa, che dopo numerosi incontri, telefonate, incazzature con il signor padrone e i suoi tentativi di prendere tempo, si è conclusa in sede sindacale con un accordo che prevede l’interruzione, con il licenziamento, di quel rapporto di lavoro abbrutente – quindi naspi assicurata – e un assegno per lei. La somma ottenuta è pari alla metà circa che avrebbe potuto raggiungere se fosse andata davanti a un giudice, ma la sentenza sarebbe arrivata con molto ritardo e probabilmente il padrone-debitore sarebbe stato incapiente – come spesso accade per quei ricchi furbetti ufficialmente nullatenenti. Alle lungaggini e alla incertezza del recupero del credito Aida ha preferito questa soluzione più rapida.

Aida ha condotto un percorso insieme alla Camera Popolare del Lavoro e con lei abbiamo condiviso molto tempo durante il quale abbiamo avuto modo di parlare moltissime volte e di diverse cose: del referendum costituzionale, del concerto dei 99 Posse al quale con molto rammarico Aida non poté venire perché era di turno al lavoro, del suo curriculum spedito in tutta Italia per cercare di essere presa in uno studio di architettura, per fare il lavoro per cui ha studiato. Aida è una ragazza vitale, un po’ punk, tutta istinto, con una profonda conoscenza della storia dell’arte e l’abitudine di recuperare capi d’abbigliamento vintage che rivende nei mercatini.

Quando si presentò allo sportello di supporto ai lavoratori la prima volta era arrabbiata ma scoraggiata, incredula sulle sue possibilità di averla vinta, di ottenere quello che voleva. Il giorno della conclusione della trattativa Aida appariva diversa, più consapevole, più serena, diceva che se fosse rimasta sola, se non avesse chiesto e trovato il supporto della Camera del lavoro, avrebbe abbandonato l’idea di presentare il conto al padrone, si sarebbe dimessa e via, con amarezza e rassegnazione avrebbe finito con una sconfitta la sua “grigia” carriera di cameriera. La storia, almeno questa volta, è andata diversamente, perché Aida ha recuperato i denari che il padrone le doveva e anche tanta fiducia nelle possibilità di riuscita di una lotta condivisa; per dirla con parole sue: «oggi posso affermare non solo di essere stata informata ma di essere stata accompagnata in un vero e proprio iter attraverso il quale ho acquisito piena consapevolezza dei miei diritti di lavoratrice dipendente. Diritti che il lavoratore dipendente ha ma che spesso crede effimeri o utopici ma che invece dovrebbe far valere sempre. Io dopo una lunga trattativa ho finalmente ottenuto ciò che di diritto mi spettava e ho avuto una presa di coscienza, sperando che la mia testimonianza dia forza ad altre persone che si trovano in situazioni lavorative come la mia».

(*) Pubblicato su clashcityworkers.org che spesso riprendiamo qui in “bottega” perché molto lo amiamo. [db]

Redazione
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