Grotteria: poveri, padroni e «la marescialla»

un racconto di Mauro Antonio Miglieruolo

1

Giudici e questurini, se questa testimonianza dovesse risultarvi sgradita, o comunque bisognevole di chiarimenti, alias nomi e cognomi, non chiedete e non ve la prendete con me: io riporto parole e concetti altrui. Se proprio vi rode, come di solito accade, vi consiglio di recarvi, appesantiti dalle vostre carte bollate, atti giudiziari e condanne inscritte nell’imputazione, presso il cimitero di Grotteria, dove ancora troverete il teschio di questo altrui, nonostante tutto lo troverete allegro e ridanciano come sempre. Nonostante sia afflitto da un difetto di pronuncia, vi accoglierà come sempre un calabrese accoglie un ospite. Con generosità e cordialità. Con le buone parole (storpiate dalla pronuncia) e l’ossequio dovuto all’autorità.

La tomba, ulteriore informazione, è scomparsa, troppi i decenni trascorsi. In compenso all’interno di un grande ossario potrete, utilizzando la pazienza che non vi manca (ma la compassione l’avete? Avete studiato pietà e compassione, materie fondamentali che sono alla base del buon vivere? … No, vero?). Se non con la voce, con lo spirito e la deferenza che i poveri sono abituati a prestare, risponderanno alle domande, alle contestazioni, alle incriminazioni e alle condanne che vi pregerete di emettere. Quelle ossa lo hanno sempre fatto. Non sarà con voi e contro di voi che smetteranno di farlo.

2

Raccontava volentieri un mio zio, morto da alcuni decenni, di un manipolo di braccianti che incappò nella ventura (dico meglio: la sventura) di incocciare in un padroncino di quelli proprio per bene, come sono tutti i padroni, piccoli e grandi, di questo straordinariamente iniquo mondo. Per bene pure gli specialissimi padroncini di oggi, che non amano essere chiamati con il loro nome – padroni – e adottano pertanto il più tenero comprensivo ineffabile e ingannevole di Datori di Lavoro. Pur sapendo (lo sanno bene!) di non essere altro che Datori di Miseria. Pagano infatti una miseria, tanto poco che a volte il salario neppure basta a sfamare una famiglia. Patri, Figghiu e Spiritu Santu, levati lu mali da lu me cantu!

Queste squadre si formavano informalmente al tempo dei raccolti. Vendemmia, mietitura, raccolta delle olive, dei pomodori, dei carciofi e via raccogliendo.

Al termine di un’estate di particolare penuria alcuni di questi “miserabili straccioni” – come li chiamavano i parassiti che vivevano succhiando loro il sangue – seppero di un signore che cercava lavoranti; e tutti felici deliberarono che quel “signore” (si fa per dire) li aveva trovati.

Si presentarono al tizio, un baffuto, grasso cinquantenne che nonostante la pinguedine aveva nello sguardo un che di inquietante, come fosse a digiuno da secoli e non aspettasse che quei quattro ossuti straccioni per sfamarsi (poi spolpata la carne, da buon cagnaccio, pareva deciso a attaccarsi alle ossa). Non badarono a quello sguardo, lo avevano visto fin troppo volte nel profondo degli uomini con i quali avevano avuto a che fare. Dovevano darsi da fare e basta. Domani i loro figli avrebbero mangiato, quello solo importava.

U patruni fu largo di promesse ma anche di restrizioni. A pranzo pasta e ceci in quantità. “Pasta e ciciari mu vi faciti varri varri” nel linguaggio approssimativo e intraducibile di Zio.

A sira suriaca (fagioli) nu piattuni i suriaca, fazzu mu vi spanzati.”

Non altro però, fino allo scadere di mezzogiorno. Fino alle 12, lavorando sotto il sole, a testa bassa, sudando e qualcuno anche sacramentando, niente altro che acqua. Ma si poteva? L’acqua non aveva sostanza, non dava forza, anzi la toglieva, la forza del lavorante se la pigliavano tutta il sudore, il caldo, la desolazione. La famiglia lontana, dormire all’addiaccio, dove capitava, camminare molto e al dunque solo il bastante per comprare il pane di un paio di giorni. Pane senza companatico.

Ma quello era e quello accettarono di prendere. Alle sei del mattino già tutti sul campo, con il padrone che di tanto in tanto si affacciava per ricordare loro le delizie che li aspettavano.

Bravi, bravi figghioli mè. Lavurati, lavurati che a menzuiuornu vi fazzi i pasta e cicari u vi faciti varri varri…”

Ma da bere qualcosa, non si potrebbe?”

Bonu, bonu, ca non dindaiu. ‘Ndaviti pacienza, ca vi fazzu u vi linchiti a panza i pasta e ciciari!”

Il sole picchiava, la fatica aumentava, le forze declinanti. L’obiettivo della pasta e ceci che quasi diventava salvifico, il mito di una sazietà che raramente sperimentavano e che, per fortuna, stanchezza o non stanchezza, pareva prossima.

Pasta e ciciari varri varri… e il caldo che incalzava, il sole picchiando, le cicale impazzite dal bisogno di cantare…

Come Dio volle la mattinata passò e i poveretti stremati furono accolti in una specie di ampio ripostiglio degli attrezzi utilizzato anche come camera da pranzo per i braccianti di passaggio. I quali lavoranti sedendosi poterono finalmente respirare. Sul tavolo una caraffa con dell’acqua, alcuni bicchieri e null’altro. Neanche un pezzo di pane con il quale placare i morsi della fame.

I braccianti si guardarono l’un l’altro straniti. Un dubbio orrendo cominciando a farsi strada. La porta infatti era stata accostata, da nessuna parte pareva previsto l’accesso alle derrate alimentari.

Cumpari, vu chi diciti?” interrogò uno, rivolto ai cumpari tutti.

Che ca’ i pasta e ciciari non si parra…”

A juornata, almenu?”

Patri, figghiu e spiritu santu…” recitò uno.

Bonu cu a vidi…” (Bravo chi vede)

Sapevano come andavano le cose del mondo costoro. Non abbastanza per prevenirle. O per poterci far qualcosa.

Mentre in questo modo si sconfortavano a vicenda notarono una larga scala di legno dalla quale provenivano i passi pesanti di una persona che la scendevano. Apparve prima la gonna, poi lentamente tutto il resto. Una donna un po’ corpulenta, i capelli sciolti, generosa di petto e, sperabilmente, anche nelle intenzioni. Non particolarmente appetibile, specialmente nella loro condizione di sfiancati dalla fatica, dalla fame e dal sudore.

Sta di fatto che giunta ai piedi della scala slacciò la camicetta e la lasciò cadere sulla vita. Esibendo il suo gran seno.

Lo zio, tutte le volte in cui si lasciò tentare dalla tentazione di narrare, giunto a quel punto chiosò – probabilmente a beneficio della mogliera lì presente – che neppure ebbero tempo di vedere quel che fosse, come la serva, come il seno, o tempo d’afferrare il senso della storia. Chiamati a recitarla, più che stupirsi non potevano.

Chi mlinni i fora,” nella dizione sua approssimativa e sinceramente non golosa.

Più che stupire non potettero.

La porta del magazzino a quel punto si spalancò e nel vano della luce apparve il padrone, una sagoma nera infuriata, un nerbo in mano, gridando a più non posso, come un maiale scannato:

Chisti cosi in casa mia! Ca’ sarva mia! Porcarusi! Mo vi fazzu vidiri e’!”

E si mise a menare nerbate, dove e come capitava. Sul tavolo e sulle schiene dei poveri lavoranti, fingendo anche di darle alla povera serva che si mise a starnazzare fingendosi spaventata.

Chisti porcarì in casa mia. Ah, fetusi, curnuti, v’ammazzu i botti!”

Il manipolo si ritrovò fuori dalla proprietà stranito. Tutti stanchi, affamati e pure doloranti per le nerbate. Incapaci di rendersi effettivamente conto di quello che fosse successo. Si raccolsero intorno a una fontana e piansero silenziosamente sé stessi, come erano abituati a fare.

In quello stato li trovò un bracciante del luogo il quale, rendendosi subito conto dell’accaduto – ne aveva visti tanti intorno a quella fontana – li confortò offrendo loro un sorso di vino e spiegando.

Sempre accussì faci, sempri ca’ stessa cummedia.”

Curnutu futtutu…”

Ziatantu futtì a nu.” (Intanto ha fottuto noi)

“’Ndavimu mu cià facimu pagari.” (Dobbiamo fargliela pagare)

Non potiti fari nenti. U Jennaru è carabbineri! U frati ‘ntò comuni! Megghiu mu va teniti.” (Non potete fare niente. Il Genero è carabiniere! Il fratello nel Comune! Meglio che ve la tenete)

Cojjhi cosa ‘ndavimu a fari. Sinnò schiattu i raggia!” (Qualcosa dobbiamo fare. Altrimenti schiatto di rabbia)

Sentiti a mia, megghiu u vi tornati a casa…” (Sentite a me: meglio che torniate a casa)

Ennò! Comu mi prisentu a mugghierima?” (E no! Come mi presento a mia moglie?)

“’Ncì diciti comu fu e viditi che capisci.” (Gli raccontate quello che è successo e vedete che capisce)

Non canosciti a mugghierima! Na marescialla! Capaci che veni cà e u curtejija…” (Non conoscete mia moglie! È una marescialla. Capacissima di venire qui e accoltellarlo)

I poveretti – continuava a raccontare lo Zio – si guardarono l’un l’altro, d’improvviso rianimati. Conoscevano la terribile moglie del loro sodale. Buona e cara, ma meglio non averci a che fare. Na fimmana che paria omu. Per davvero, capace di farsi tutta quella strada per la sola soddisfazione di rifilare una coltellata all’infame cornuto e profittatore. E puru figghiu di puttana.

Non ve la faccio lunga, non occorre. Anche perché non la so. Neanche mio zio seppe, se non dopo, dopo che i fimmani, messe a conoscenza del caso, decisero di metterci a loro volta mano.

Manu ‘nci misaru. Mani e unghie.

Sembra si presentassero già il giorno dopo, mendicando lavoro. Con loro qualche giovinotto di figlio per rendere più credibile la commedia. Accettando di lavorare alle solite condizioni. A mezzogiorno pasta e ciciari mu si fannu varri varri, a sira suriaca (fagioli) e du liri i paga (due lire di paga).

Trascorsa la mattinata, non appena furono come previsto nel magazzino, l’atteggiamento mutò. Se la presero (sembra) con chi capitò sotto le unghie, i ragazzi che facevano da spettatori, pronti a intervenire solo nel caso che il profittatore avesse fatto ricorso alla forza. A fimmina, serva complice se la cavò (sembra) con poco. ‘Ncì scipparu tutti i pili du pitaci. E a chiamaru cu nomi so’. La prima parte non la traduco, tirate a indovinare. La seconda è facile: la chiamarono con il nome che le spettava.

Al padrone (sembra) riservarono un trattamento tutto particolare. Graffiatogli le guance a sangue, gridando che volevano farlo cappone, che solo quello meritava essere, le Erinni gli tirarono giù i pantaloni ed esibirono pure un paio di forbici. La marescialla già pronta all’operazione. Facendo scattare le lame. Clac! Clac! Clac!

Coma a conzamu?” dicendo. “A ‘ndaviti pronta a pasta e cicari?”

Pe’ l’anima du signuri! Vi dugni tutto chiju chi boliti. Tuttu. Tuttu.”

E vogghiu sulu a pasta e ciceri che nun ci nasti a mariti nostri.”

Va dugnu, va dugnu…”

La cosa finisci ca’, veru? Nun boliti mica chi tornamu…”

Naturalmente finì lì. Prepotente e anche prudente il tipo. Nessuno seppe. Nessun carabiniere coinvolto. Si può sapere oggi che tutto è prescritto, i protagonisti morti. Vivo invece, purtroppo, colui che tutto quel subbuglio ed esercitarsi di unghie aveva provocato. Non propriamente lui, quelli uguali a lui. I quali con metodi nuovi, ripetono le imprese del loro avo (non certo mio).

Ma esistono ancora le marescialle in grado di correggerli?

 

Miglieruolo
Mauro Antonio Miglieruolo (o anche Migliaruolo), nato a Grotteria (Reggio Calabria) il 10 aprile 1942 (in verità il 6), in un paese morente del tutto simile a un reperto abitativo extraterrestre abbandonato dai suoi abitanti. Scrivo fantascienza anche per ritornarvi. Nostalgia di un mondo che non è più? Forse. Forse tutta la fantascienza nasce dalla sofferenza per tale nostalgia. A meno che non si tratti di timore. Timore di perdere aderenza con un mondo che sembra svanire e che a breve potrebbe non essere più.

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