Guaritore Galattico di Philip K. Dick
Ovvero come sia facile anche per un grande cadere nel peccato mortale della pessima scrittura
di Mauro Antonio Miglieruolo
Quando, tanti e tanti anni fa, mi sembra di ricordare fossi giovane allora, lessi (faticosamente) per la prima volta “Guaritore Galattico” mi limitai a inserire il fascicolo nella collezione dei Romanzi di Urania e, senza altro fare e considerare, passai ad altro. Dick, allora, per me era solo uno dei tanti, un pessimo libro poteva senza eccessivi patemi d’animo essere annoverato tra le spiacevoli possibilità che riservava la vita. Oggi, decenni più tardi, dopo aver riconsiderato l’autore e averne apprezzato le tematiche di fondo, non mi è più possibile mantenere nella medesima pacata rassegnazione. Tanto più dopo essermi costretto a riportare più volte l’attenzione sulle pagine di questo libro scriteriato. Ogni volta mi ponevo le seguente due sbalordite domande: perché facevo tanto torto a me stesso e come aveva fatto Dick, l’agile e agevole Dick, a mettere insieme un simile insieme di insensatezze e di implausibilità.
È per tale motivo che rifiuto di presentare una vera sinossi del libro, dal quale mi ritiro inorridito. Passi che un qualsiasi mediocre ci affligga con il poco che è in grado di donarci, un grazie garbato gli spetta comunque; ma che Dick speri di farla franca con una storia come quella che unisce Joe Fernwright, guaritore di vasi; Heldscalla, cattedrale in fondo al mare; e il Glimmung, falso dio potentissimo e manipolatore; più un libro che sa e anticipa tutto di tutti, mi sembra davvero inverosimile. Una storia, questa di “Guaritore Galattico” priva di plot, priva di mordente e di un minimo di plausibilità. C’è solo da sperare che l’abbiano pagato bene, in misura adeguata all’oltraggio che ha inflitto a se stesso come scrittore pur di riempire le 200 scarse pagine di testo necessarie per ottenere la mercede.
Ora, per non sembrare che questa recensione sia frutto di un puro rigurgito di malumore, presento alcuni fastidiosi paragrafi, a mio parere significativi della “distrazione” con la quale Dick ha affrontato la stesura del romanzo:
pag. 124, quinto paragrafo: “Cominciamo dal desiderio sessuale” riprese il robot. “Come è ben noto, la forma di amore sessuale più piacevole è quella relativo all’incesto, giacché l’incesto è uno dei tabù fondamentali in tutto l’universo. Più è grande il tabù, più è grande l’eccitazione. Di conseguenza Amalita creò sua sorella, Borel. Il secondo aspetto più eccitante dell’amore sessuale è l’amore per una persona malvagia, per qualcuno che, qual’ora non l’amassimo, troveremmo abominevole. […] Il terzo stimolo più intenso per l’amore sessuale è l’essere innamorato di una persona più forte.”
(Nota: a parte il peccato originale della generalizzazione – può pure essere che per alcuni individui valgano certe norme, ma sicuramente non varranno per altri – c’è da considerare la costante confusione tra amore e attrazione sessuale. Nonché la falsa affermazione sul tabù dell’incesto, che NON è un valore universale. Non esiste tra gli animali ed ignorato da molte civiltà umane. La saccenza del robot gira nel vuoto di una abissale presunzione: cercando di sembrare intelligente e cosmopolita riesce solo a essere stupido e banale.)
Pag. 125, ottavo paragrafo: “Lei mi nomina Cristo” disse il robot. “Si tratta in effetti di una divinità interessante, giacché i suoi poteri erano limitati, la sua conoscenza era soltanto parziale, e addirittura poteva morire.”
(Nota: Addirittura!)
Pag. 126, primo paragrafo: “Esiste una divinità simile,” proseguì il robot “sul pianeta Beta Dodici. Questa divinità imparò a morire ogni volta che moriva un’altra creatura. Non poteva morire al posto delle altre creature, ma poteva morire insieme a loro. E poi, con la nascita di una nuova creatura, anche lei tornava a nuova vita. Così facendo, è passata per innumerevoli morti e innumerevoli rinascite. Diversamente da Cristo, che invece è morto una volta sola.”
Nota: ched’è? Dick ha forse scoperto a scoppio ritardato la dottrina della metempsicosi e ce la propina con insigne disinvoltura? O sono io che non capisco quello che è dato per non capire? Non capisco soprattutto quel che vuole significare. Perché infatti presume di poter diminuire Cristo dicendo che è morto una volta sola e valorizzare il dio parassita di Beta Dodici, che si serviva delle creature sue protette per assicurarsi una immortalità moltiplicata migliaia e milioni di volte? Queste sono bambinate di cui vergognerebbe un maggiore di cinque! Non è per caso che, subdolamente, Dick stia cercando di mandarci in manicomio?)
Detto ciò non rimane che raccomandare l’acquisto del volume. Per offrirsi l’opportunità di una meravigliosa sciacquata di testa. Vi farà bene, credetemi. Soprattutto per mettersi in grado di capire i pregiudizi che a tutt’oggi soffocano la fantascienza.
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Philip K. Dick: Guaritore Galattico – Fanucci Editore – Euro 17
Dick era un tizio che una mattina, mentre annaffiava il giardino ascoltando il “Messiah” di Haendel, ha visto in cielo un’enorme volto di ferro. Che un giorno sì e uno no affermava che la visione gli era stata indotta dalla memoria inconscia della maschera antigas del padre rinvenuta da bambino in soffitta, quindi allucinazione perfettamente plausibile; anzi che era stato DAVVERO illuminato; anzi che era solo un’impressione; anzi che lo aveva percepito… Era un tizio che per sua stessa ammissione, quando aveva bisogno di quattrini, scriveva e consegnava un romanzo nello spazio di UNA SETTIMANA. Per non dire dei tanti vizi chimici e alcolici… Eccetera.
Che però ce ne fossero, cazzo.
Ma voi, non ne avete amici così, un pò fatti, un pò distrutti, che quando grattano il fondo del barile davvero non potete, non riuscite a sopportarli ma insomma volete loro un gran bene, e quando sono in forma ci si bisboccia da dio?
Ecco: Dick è un pò così.
“Il totale aritmetico” degli scritti di fantascienza di Philip Dick “eiaculò in un flusso di perdita”. Chiedo scusa ma qual è il romanzo di questo sconclusionato scrittore che non sia pieno di pecche, bambinate, cialtronesche e farraginose pseudofilosofie? Anche il “capolavoro” “Ma gli androidi non sognano pecore elettriche?” è stato demolito da calibri del livello di Stanislav Lem e Darko Suvin. E allora? Anche la sua lingua è per molti discutibile, come lo è stato e lo è ancora per alcuni, il tedesco di Kafka. E poi lo sappiamo che Dick non aveva una grande opinione della fantascienza. La sua aspirazione era emergere come scrittore, come scrittore vero, di letteratura vera. Essere amato e ammirato e aver il suo nome in cima ai titoli di testa. La stessa aspirazione di un altro jago, di un altro nato povero, nella ricca America, come Frank Capra; altro creatore di illusioni dall’equilibrio precario e a cui il nostro deve molte ispirazioni. Per sua sfortuna e nostra fortuna ha dovuto scrivere fantascienza per poter mangiare e l’ha scritta in modo strabico, guardando da una parte alla convenienza, alle marchette e dall’altra a una palestra per sperimentare in tutta libertà, quella libertà che solo questa sottoletteratura di genere poteva offrire, le sue idee, quelle più spericolate e astruse. Un escamotage a cui sono ricorsi altri grandi, come ad esempio il regista C. T. Dreyer, che dopo gli enormi problemi legali che gli causò, nonostante il successo, “La passione di Giovanna d’Arco”, cercò di riprendersi finanziariamente con un film di cassetta, una storia di vampiri, “Vampyr”. Dopo aver messo nel film tutti, nessuno escluso, gli elementi tipici del genere gotico, si è permesso però di aggiungere la sua personale visione poetica, creando così oltre a un sonoro fiasco (che lo terrà lontano dalla regia per oltre 12 anni) uno dei massimi capolavori della cinematografia mondiale. L’opera di Philip K. Dick non può essere vista con il metro con cui si analizzano le opere degli altri scrittori, ne tantomeno degli scrittori di fantascienza. Paradossalmente (?) possiamo dire che Dick non ha mai scritto una riga di fantascienza, ma si è servito di questa, parassitariamente ingoiandola e rivomitandola riconvertita in materia filosofica o, se vogliamo dirla alla Gunther Anders, di filosofia grossolana. Quella che serviva a lui, e volendo anche a noi, per vivere. E non era vero scrittore di fantascienza anche perché, trasgredendo la regola più importante del genere, non ha mai restituito nulla di quello che prendeva. Il mondo e l’immaginario fantascientifico non si è mai avvantaggiato delle sue invenzioni e per di più non ha lasciato emuli. Non esistono scrittori dickiani come, alla fine si è capito, non ne esistono di kafkiani; che anzi forse, contraddicendomi, proprio Dick si potrebbe definire l’unico Kafka possibile dopo Aushwitz e Hiroshima. Oggi che il futuro è morto, Dick ci può aiutare ad aprire momenti di futuro: “Sii creativo. Lavora contro il fato. Prova.”
Giuliano Spagnul
Leggerezze come quelle indicate nella “presentazione” non mi era mai capitato di leggere. Probabilmente non sono un lettore abbastanza attento.
La tua critica comunque, insieme a quella di Alessandro Forlani, fornisce materia per una rilettura meglio articolata delle opere di Dick. Il quale, insisto, a volte scrive in modo insopportabile.
Ringrazio ambedue per il contributo.