Guerra imperialista, conversioni e tradimenti
di Sandro Moiso (da CarmillaOnLine)
Mario Isnenghi, Convertirsi alla guerra. Liquidazioni, mobilitazioni e abiure nell’Italia tra il 1914 e il 1918, Donzelli Editore 2015, pp. 282, € 20,00
Nella pletora di pubblicazioni e ripubblicazioni immesse sul mercato in occasione delle funeste celebrazioni del centenario del “maggio radioso”, il testo di Mario Isnenghi si distingue per la chiarezza interpretativa oltre che per l’eleganza, l’erudizione e, talvolta, l’ironia con cui è trattato l’argomento della conversione alla scelta bellicista e al capovolgimento di schieramento militare che avvenne in Italia nel corso degli undici mesi che intercorsero tra lo scoppio del primo grande macello imperialista e l’intervento nello stesso.
Lo studio di Isnenghi, i cui ambiti di ricerca hanno sempre spaziato dalle implicazioni culturali e socio-politiche del Primo Conflitto Mondiale1 al fascismo e al discorso “pubblico” sulle guerre italiane dal Risorgimento al 1945, si rivela utilissimo in tempi oscuri come quelli attuali, in cui lo scivolamento verso conflitti sempre più allargati è accompagnato da discorsi spesso soltanto imbecilli, ma ancora più spesso da motivazioni etico-politiche che nascondono, ancora una volta, i reali interessi in gioco.
Se, come afferma l’autore, negli anni che precedono e accompagnano la prima guerra mondiale “si consuma in Italia un passaggio storico d’ordine generale: dalla società dei notabili alla società di massa”, è altresì vero che la necessità di convertire alle impossibili ragioni della guerra la mentalità collettiva non è mai venuta meno. Di qualsiasi guerra si tratti, poiché per le classi dirigenti ed imprenditoriali l’importante, al contrario di quanto vanno retoricamente affermando, non è importante il con chi e perché ma, appunto, che si faccia. Comunque.
Da questo punto di vista il testo è particolarmente attento all’autentico balletto che si svolse a livello governativo tra forze politiche favorevoli alla Triplice Alleanza (in cui l’Italia era formalmente inserita) e forze opportunisticamente già schierate con l’Intesa. Sarà proprio il generale Cadorna a rivelare nei suoi diari (pubblicati nel 1925) come il 27 luglio 1914, giorno della sua nomina a capo di Stato maggiore, fosse ancora in auge il progetto per l’invio di un’armata italiana in Alsazia: “Perciò, fino al 1° agosto, io avevo il dovere di considerare l’eventualità che l’Italia dovesse entrare in guerra contro la Francia a fianco delle potenze centrali” a causa di una “convenzione militare con la Germania, che ci obbligava in caso di guerra che impegnasse la triplice alleanza, ad inviare sul Reno un’Armata di 5 corpi d’armata e due divisioni di cavalleria” (pag. 6). Mentre la dichiarazione di neutralità dell’Italia diventava ufficiale il 2 agosto.
Il paradosso a livello politico consisteva nel fatto che la monarchia, per prima, e gran parte dell’esecutivo erano decisamente favorevoli al mantenimento dell’alleanza con la Triplice e degli impegni connessi mentre soltanto un pugno di repubblicani ed eredi degli ideali risorgimentali, tra cui l’antico comunardo Amilcare Cipriani e due nipoti di Garibaldi destinati a morire sul fronte francese, accorse ad arruolarsi volontariamente delle file dell’esercito francese. Cosa vista in ogni caso come di cattivo auspicio dalle alte sfere dell’esercito e del governo.
Saranno i mesi successivi a vedere in atto una straordinaria, non per numero ma per qualità e diversità dei personaggi coinvolti, mobilitazione di forze volta a trasbordare l’Italia da uno schieramento all’altro e, soprattutto, dalla neutralità all’intervento attivo. Come è facile immaginare lo scontro più evidente e meno sospetto avviene proprio sulle pagine dei giornali dell’epoca che, come rivelano le pagine del diario del ministro delle Colonie Martini (pubblicate soltanto nel 1966), sono però supportati da tutt’altro che la fede patriottica o ideologica.
“Le voci diffuse sui soldi che girano per comprare la stampa e indirizzare i lettori acquistano qui puntigliosamente nome e cognome, ma sono solo fondi straordinari che si aggiungono o si sostituiscono agli usuali fondi governativi: i tedeschi comprano i servizi della «Nazione» di Firenze e del «Mattino» di Napoli, che perciò si vede togliere «il consueto viatico governativo», e ci provano persino con testate al di fuori del campo conservatore, come il radical-progressista «Secolo»; il grintoso triplicismo del «Popolo Romano» viene oliato dall’Austria; la scrittrice-giornalista Matilde Serao i premura di mandare un telegramma di auguri al Kaiser per l suo compleanno […] Martini, parlando anche da membro della categoria, assicura che «questo è il giornalismo italiano». E non se la prende solo con le manovre di una parte, perché l’ambasciatore Barrère e la Francia aiutano la nascita del «Popolo d’Italia» di Mussolini e il direttore del «Resto del Carlino», il faccendiere Filippo Naldi, viene il 20 dicembre a dirgli che bisogna assolutamente dare un sussidio governativo di almeno 25.000 lire a quel nuovo quotidiano che ha il merito di «raccoglie(re) intorno a sé e dirige(re) a un intento patriottico tutta la teppa dell’Italia settentrionale» (pp. 99-100)
Si notino bene le parole del faccendiere: la guerra, per l’Italia, non è ancora dichiarata e ancor meno si sa su quale fronte le truppe si schiereranno, ma l’intento patriottico è quello di far schierare la teppa del Nord (operai, contadini, disoccupati, giovani). A prescindere.
Ma quello di Mussolini non sarà l’unico significativo voltafaccia nell’ambito della discussione sulla partecipazione o meno al conflitto. Sicuramente nell’ambito del movimento operaio e socialista sarà il più eclatante, ma non il solo.
Anche la Chiesa non verrà meno al suo compito di salvezza delle anime, ma non dei corpi. Due sono i religiosi presi in esame da Isnenghi per il loro fervore militarista: Giovanni Semeria e Agostino Gemelli. “Tutti e due i religiosi che vanno e vengono bene accolti al Comando supremo sono uomini d’azione e di potere – interpreti di un volontariato cattolico dai larghi orizzonti e imprenditori di lungo corso del sacro – e vanno per le spicce: con spiriti e direzioni di marcia non sovrapponibili, tuttavia, visto che il bonomelliano Semeria aspira a coniugare i cristiani con la modernità, mentre Gemelli – altrettanto moderno nei metodi – guarda culturalmente all’indietro e aspira a indirizzare la «riconquista cristiana» del mondo verso ciò che non teme di chiamare Medioevo” (pp. 40-41)
Il primo tutto teso a fiutare nella sua terra d’origine, la Romagna “il cambiamento in corso negli orientamenti dei giovani, che comincia ad allontanarli dall’egemonia socialista […]in particolare rispetto ai grandi temi della nazione, in pace e in guerra” (pag. 42)
Il secondo, di formazione laica e radical-socialista prima di un’autentica conversione che lo farà paragonare a Paolo di Tarso sulle pagine dell’«Osservatore Cattolico», sarà ancora fervente triplicista filotedesco sulle pagine della «Rassegna italiana di cultura» nell’aprile del 1915, ma “di quelle spoglie contingenti ci si può subito liberare, se la guerra viene sentita «provvidenziale» per un ritorno in se stessa dell’umanità, come «volontà di Dio», «flagello misericordioso e divino»” (pag. 48)
Cosa che lo avvicina a quel “Giovanni Papini, rotto a tutte le esperienze e a tutte le disperazioni, che la guerra trova intento a lanciare urla belluine sulla rivista «Lacerba» a favore della «rossa svinatura», del «caldo bagno di sangue malthusiano», e immediatamente dopo – interventista non intervenuto – […] testimonial della metanoia cristiana, grazie alla catastrofe ammonitrice” (pp. 48-49)
Ma, è chiaro, il lavoro sporco toccherà ai socialisti e agli anarchici convertiti che, in forme e con argomentazioni soltanto apparentemente diverse, dovranno cercare di tramutare il naturale anti-militarismo del proletariato agricolo ed industriale in neo-bellicismo nazionalista.
Come si è detto prima, non sarà solo l’ex-direttore dell’«Avanti!» in questa operazione. Lo affiancheranno l’anarchica Maria Rygier che paragonerà le stragi delle popolazioni libiche all’ingresso delle truppe tedesche nella città belga di Lovanio.
“Macché coerenza, macché fedeltà ai principi, la realtà incalza ed è la realtà che detta i comportamenti dei vivi” (pag. 20), sulle orme di Alceste De Ambris che ha pubblicato, il 22 agosto 1914, sull’«Internazionale» un discorso pro-Belgio e Francia la Rygier si associa alla canea guerrafondaia. Mentre al socialista Cesare Battisti, “tragica figura di irredento territoriale e redento politico” toccherà il ruolo di martire della patria dopo aver percorso in lungo e in largo la penisola per spronare il proletariato a lottare per il completamento dell’opera iniziata con il Risorgimento, anche arruolandosi nel Regio Esercito, ed essere finito sul patibolo per mano austriaca nel 1916. Cosa di cui la borghesia italiana lo ripagherà pubblicamente con grandi encomi e alti lai, ma con ironia e crudele cinismo nel privato, come testimonia ancora il diario del ministro Martini.2
Per altro Leonida Bissolati cinquantottenne,già espulso dal Partito Socialista nel 1912 per la sua mancata opposizione alla guerra italo-turca, correrà ad arruolarsi negli alpini e dopo Caporetto giungerà, dai banchi del governo, a minacciare di fucilazione gli ex-compagni di partito e i proletari che avessero agito in senso contrario a quello della salvezza della Patria e dell’interesse nazionale.
Sollevando soltanto qualche perplessità in Filippo Turati, Anna Kuliscioff e Claudio Treves, che forti, per tutto il periodo del conflitto, del loro vile «né aderire, né sabotare», torneranno ad abbracciarlo amichevolmente verso la fine del conflitto.
Solo, a difendere, tra i riformisti, la linea della «guerra alla guerra» rimarrà Giacomo Matteotti, che per questo sarà arruolato a forza e spedito in Sicilia, tra gli «imboscati» e che forse, anche per questa sua intransigente posizione anti-militarista pagherà poi con la morte il suo antifascismo.
A regnare saranno alla fine soltanto gli interessi nazionali ed imperiali del capitalismo italiano, il cui vero obiettivo è Trieste (e non Trento), per giungere a dominare per intero l’Adriatico e i suoi traffici. Come ben capiranno Salandra e Sonnino, rispettivamente capo del governo e ministro degli esteri, unici veri artefici finali dell’entrata in guerra, loro triplicisti d’antica data, a fianco delle forze dell’Intesa: Francia e Gran Bretagna.
Un libro che tutti, soprattutto a sinistra, dovrebbero leggere per meditare sulle vie infinite e contraddittorie che conducono alla guerra e alla catastrofe. La strada per l’inferno, infatti, è sempre lastricata di buone intenzioni. Anche quando si è convinti di sventolare il tricolore francese in chiave anti-Isis. Magari su una piazza di Parigi, con i compagni di un tempo. Perché tutti coloro che non sanno prendere e mantenere le distanze dal militarismo e dal nazionalismo saranno immancabilmente destinati ad essere usati oppure semplicemente stritolati e triturati dall’implacabile ingranaggio imperialista.
- Fondamentale in questo ambito il suo Il mito della Grande Guerra, Il Mulino 1989 ↩
- Con lo stravolgimento delle parole di una lapide dedicata alla memoria dell’irredentista trentino: “A temporaneo ricordo di / CESARE BATTISTI / con dimenticabile opportunità / dannato alle forche / dalla ciò nondimeno veneranda canizie / di Francesco Giuseppe / temporaneamente nemico / Roma / superba del serbarsi fedele / alla sapienza popolare / che ammaestra / Il morto giace e il vivo si dà pace / presso la strada che dal nome del ribelle / temporaneamente s’intitola / questa nobile pietra / P.” (pag. 101) ↩