Guido Viale: «Dal lavoro alla cura»

Le riflessioni di Mario Agostinelli

Molto denso il sottotitolo del libro: «Risanare la Terra per guarire insieme» (Interno4 Edizioni). Sembrerebbe un’esortazione a impugnare un programma politico finalmente esaustivo per quanto riguarda questo presente così tormentato ma anche così pregno di responsabilità per le generazioni che lo hanno preso in carico e che lo consegnano con poche certezze a chi, prima che lavorare, dovrà essere sicuro che il suo mettersi all’opera serva a curare il Pianeta e quindi a garantire un futuro di civiltà.

Ho avuto l’occasione di discutere spesso con Guido Viale attorno ad alcuni dei contenuti esposti in quello che lui definisce con discrezione semplicemente un “pamphlet” e che, in parte, sono stati affrontati in un lavoro collettivo, seguito alla discussione sull’enciclica Laudato Sì, alle iniziative prese dall’Associazione di cui facciamo parte entrambi e alla stesura di un testo citato nell’introduzione («Niente di questo mondo ci risulta indifferente», a cura di Daniela Padoan).

Provo a recuperare di seguito alcuni aspetti – non tutti, data la vastità del campo affrontato – che condensano un approccio estremamente interessante al nodo del lavoro e allo spostamento del focus verso la cura, in continuità con una ricerca di senso dell’esistenza individuale e del funzionamento della struttura sociale non più improntata a un ostinato antropocentrismo e non ulteriormente complice della riduzione a scarti del vivente e della natura.

Innanzitutto Viale prova ad individuare un quadro coerente entro cui collocare con certezza e beneficio le cose dalle quali prendere le distanze quando il lockdown dovuto alla pandemia dovesse cessare. Si confronta quindi subito con un ordine di priorità che costituisce forse il nodo di fondo dell’intero testo: la possibilità di superare il concetto di occupazione fine a se stessa, a cui corrisponde quella realtà «corposa e ambivalente che è il lavoro». Cioè la pretesa di attribuire un valore al lavoro indipendentemente dalle condizioni in cui si svolge e dai risultati che produce su società e natura. Una società percorsa da ineguaglianza sociale, eppure condannata a un conflitto difensivo e alla fine svantaggioso pur di salvare posti di lavoro con una natura degradata e consumata da eccesso di capacità trasformativa messa all’opera per il profitto di pochi.

Il lavoro appare qui nella sua dimensione costrittiva ed è descritto nella sua evoluzione fino al sistema di fabbrica, fino a quando cioè in un settore dopo l’altro la riorganizzazione seriale del lavoro ha permesso di sostituire gran parte degli operai di mestiere con una manodopera dequalificata e fino a che la divisione del lavoro, assecondata dal carattere astratto incorporato nel macchinario, ha cercato di mettere in ombra «la vicenda umana di ogni lavoratore e di ogni lavoratrice in carne e ossa».

L’autore giudica con pessimismo gli sforzi con cui le lotte del mondo del lavoro hanno cercato di contrastare il mito dello sviluppo, con cui il capitalismo e la sua versione più aspra del neoliberismo hanno giustificato una crescita divenuta ormai letale per la stessa sopravvivenza. E si chiede – a fronte dell’estensione del carattere precario e povero del lavoro, relegato ad una sorta di condanna – se il suo valore emancipatorio, celebrato anche in Costituzione, non venga soffocato dal ricatto della sua arbitraria cancellazione da parte del padrone.

Io continuo a pensare che l’aspetto collettivo, di classe, dell’emancipazione nel lavoro sia propedeutico all’esercizio di un potere per la riconversione ecologica delle produzioni, ormai insostenibili e pregiudizievoli non solo della salute, ma della vita stessa e della riproduzione. Nella mia esperienza sindacale, liberarsi dalla oppressione del comando gerarchico e dall’idea di flessibilità come dalla precarizzazione e dalla discriminazione fra chi sa e chi è escluso da qualsiasi controllo, ha sempre costituito la premessa per progetti di cambiamento quando essi diventavano maturi e agibili, pur nella loro parzialità. La costruzione di un sistema formativo e informativo in grado di promuovere e accompagnare il mutamento del lavoro da dipendenza e oppressione a un grado più elevato di autodeterminazione e di modifica dell’organizzazione come del tempo di lavoro, dava a volte frutti insperabili anche sul versante di un riorientamento delle finalità del lavoro. E’ vero che l’aspetto ineliminabile del potenziale emancipatorio della resistenza allo sfruttamento non era allora in grado ancora di porre all’ordine del giorno la minima connessione fra il posto di lavoro in catena e gli effetti di quella produzione (e del consumo di quei prodotti) sulla salute del pianeta: eppure ho presente casi, come quelli soddisfacenti della Caffaro a Brescia o della Centrale nucleare di Caorso o quella perdente dell’Alfa Romeo di Arese, in cui il futuro del lavoro non sarebbe diventato “purchessia”.

Naturalmente non era la normalità, ma se questo percorso si estendesse, il traguardo dell’ecologia integrale guadagnerebbe nuovi indispensabili alleati. Naturalmente, la mia è un’esperienza datata, di una fase in cui la sconfitta non era ancora cocente. Tuttavia oggi la coscienza generale – e di questo papa Francesco, Greta e il pulsare di movimenti territoriali ovunque sono testimonianza – può saldare più immediatamente uno slancio emancipatorio del lavoro con obiettivi politici-sociali che purtroppo stentano a prender posto nei governi e in chi controlla l’opinione pubblica. Niente – come scrive Viale – è ormai più anonimo ed eterodiretto del cosiddetto lavoro «di piattaforma», programmato da un algoritmo: vera e propria barriera che impedisce di risalire alla fonte e al senso degli ordini che si ricevono. Ma nel contesto della pandemia, delle minacce climatiche e della povertà – che rafforzano la consapevolezza dell’interconnessione e della fragilità che regolano gli equilibri di tutto il vivente – la resistenza allo sfruttamento ha un significato che va oltre la tutela della persona o la rigenerazione dell’ambiente e della salute individuale per collocarsi immediatamente nel solco di una conversione profonda del proprio operare, nel nome prevalente della cura.

Che cosa il lavoro produca o contribuisca a produrre non passerebbe così più in secondo piano come vero e diretto potenziale emancipatorio. La possibilità e la paura di perdere il lavoro vanno sempre più in cerca di un’alternativa e a ragione il libro afferma che qui si colloca la nuova coscienza di classe. Il mondo del lavoro è oggi senza dubbio diviso ma la ricostruzione di un rapporto fra identità sociale e politica sempre meno passa per i grandi aggregati sociali e le grandi narrazioni ideologiche: passa invece attraverso le persone che troveranno la loro unità solo se saremo capaci di proiettare le loro ambizioni sul futuro, non sulla difesa dell’esistente: non è scelta fra passato e futuro ma fra diversi futuri. E’ per questo che la riconversione deve essere frutto di partecipazione; così come la conversione ha una componente e un percorso anche prettamente individuale, che dipende anche dall’ambiente in cui si sperimenta. Le alternative vanno concepite, progettate e costruite in conflitti articolati, a partire dai luoghi di lavoro, dagli ambienti, dal territorio, laddove si svolge la vita di tutti i giorni.

«La risposta alla crisi è la solidarietà: che – come sostiene l’enciclica Fratelli tutti di papa Francesco – non è solo un sentimento o un atteggiamento o un comportamento, ma può e deve essere un vero e proprio sistema sociale fondato sulla condivisione dei beni della Terra». Non è ancora l’orizzonte del sindacato ma questo soggetto riprenderà un ruolo decisivo se saprà aggiornare la propria analisi, creare un collegamento con gli studenti, conquistare una riduzione di orario retribuita anche per la cura e lo studio, oltre a creare alleanze oltre la sua rappresentanza più diretta. Non a caso infatti Guido Viale cita il nuovo «sindacalismo di comunità», molto più attento alla condizione complessiva e alle vicende personali dei suoi membri e Landini parla di «sindacato di strada».

Fra i molti argomenti di interesse contenuti nei diversi capitoli, mi soffermerei sulle modalità e sulle basi conoscitive che vengono ampiamente illustrate per il percorso determinante di fuoriuscita dai fossili.

«Diffondere una cultura energetica corrisponde al compito più urgente che tutta l’umanità si trova di fronte. Oggi l’accesso alle nuove opportunità è limitato solo a chi viene a conoscenza della loro esistenza, ne sa valutare la convenienza, ha le risorse per sostenerne il costo iniziale o per trasferirlo alle banche, riesce a svicolare tra le molte pratiche burocratiche. Per questo occorre che siano messe a disposizione le risorse per finanziare una grande campagna di check-up energetici in tutti i territori, reclutando, formando e impegnando team misti per competenze (elettriche, elettroniche, idrauliche, edili, economiche e sociali)». Insomma – afferma l’autore – le rivendicazioni hanno bisogno di sostegno istituzionale, di democrazia funzionale agli obbiettivi, di finanziamento pubblico, fiscalità appropriata, formazione e informazione diffusa, anche per potere reggere un confronto oggi impari fra i destinatari di progetti territoriali di autoproduzione e consumo e i grandi enti energetici che tendono a centralizzare anche il nuovo modello energetico nelle loro mani.

L’energia è una proprietà che consente a un corpo o a un sistema che la possiede di fare lavoro o di dar luogo a trasformazioni energetiche a spese delle sue caratteristiche di partenza. Quando si dispone di maggiori potenze, il lavoro o la trasformazione avvengono a maggiori rapidità. È questa una delle ragioni per cui si è concentrata sulla potenza l’applicazione prevalente e sempre più devastante dell’energia del sistema fossile alla trasformazione della natura inerte. Ed è perché è stata al servizio dello spreco e dello sfruttamento di lavoro e natura, che solo da poco più di un secolo la scienza più responsabile tratta con sempre maggior preoccupazione del rapporto tra energia e vita, tenendo conto che i cicli naturali si riproducono raggiungendo condizioni di stabilità ed equilibrio con la minore dispersione di energia.

Oggi a livello globale tra le fonti di energia prevale ancora nettamente la quota di fossile, ma il futuro è sicuramente un azzeramento delle quote di carbone, petrolio e gas, anche se questa prospettiva sarà frutto di aspri conflitti e di resistenza alle pressioni lobbistiche delle multinazionali, attivissime in tutte le sedi internazionali (come lo sono Eni e Snam a Bruxelles e all’interno del governo italiano: un fatto ben documentato dalle denunce di Re:Common).

Dal punto di vista delle politiche energetiche, questo spostamento verso le fonti rinnovabili è il colpo più duro che potesse subire la geopolitica mondiale, almeno per come l’abbiamo ereditata dalle due guerre mondiali. Mentre le fonti fossili sono ad alta densità e concentrate anche localmente, le energie rinnovabili esistono dappertutto, sono distribuite, sebbene in misure e proporzioni tra loro diverse: in un deserto c’è molto sole ma non l’acqua; in un fondovalle c’è molto vento e poco sole; in cima a un ghiacciaio c’è sole, vento e acqua condensata. Insomma le fonti rinnovabili sono largamente disponibili nella loro composizione variabile in quasi tutte le parti del Pianeta. In questo senso, come rilevato negli ultimi capitoli, il passaggio dai fossili alle rinnovabili, dalla centralizzazione alla territorializzazione autogovernata, costituisce un sicuro contributo a un mondo di pace.

Trovo infine molto stimolante e originale l’intero capitolo dedicato all’immigrazione e l’adesione al concetto di «cittadini di due nazioni». Concludo quindi con una citazione diretta: «Le migrazioni di oggi sono diverse da quelle dei due secoli scorsi: non sono “per sempre”; spesso non coinvolgono più intere famiglie; consentono, anche, grazie a internet, rapporti stretti con le comunità di origine, che ogni migrante potrebbe raggiungere facilmente in aereo se gli fosse permesso; e avvicinano chi trova un lavoro a tecnologie e metodi che potrebbero essere utilizzati per risanare e rivitalizzare i territori di origine. Se accolti in spirito di fratellanza e sorellanza, tanti migranti presenti in Europa potrebbero rafforzare i rapporti diretti, sociali, culturali ed economici, tra le comunità ospitanti e quelle native. I territori non sono di chi li possiede né le comunità di chi vuole controllarle, ma di chi li abita e di chi le frequenta e cerca di valorizzarne le risorse palesi e di suscitarne quelle latenti.

Solo così è possibile costruire, per e con i migranti, una prospettiva che sfugga all’alternativa tra il respingimento a qualsiasi costo e una “accoglienza” troppo fragile, perché non fa i conti con “il dopo”. I migranti che desiderano fare volontariamente ritorno alle loro terre, se messi in condizione di poterlo fare da un allentamento della pressione politica e predatoria sui loro Paesi di origine, possono essere gli agenti di questa rigenerazione in processi di cooperazione decentrata tra comunità sorelle».

 

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