Günther Anders «I morti»
di Francesca De Simone (*)
Ripubblicare oggi due testi andersiani sull’epoca atomica, del 1964 e del 1982, può sembrare anacronistico. Tuttavia, il fatto che dal dopoguerra in poi Anders trasformi il suo metodo filosofico in Gelegenheitsphilosophie, filosofia che parte dall’occasione, dal presente, non significa che a distanza di anni le sue valutazioni siano antiquate, per usare un termine caro all’autore. Come scrive Anders stesso a proposito de I morti. Discorso sulle tre guerre mondiali (1964): «il titolo del discorso, così come del resto tutto il libro, nel corso di questi ultimi vent’anni è diventato più attuale di quanto sia stato (o sembrato) originariamente. La realtà lo ha raggiunto» (p.76). Forse allora le sue riflessioni erano sì anacronistiche, ma nel senso dell’essere più avanti del tempo in cui furono formulate; si sono man mano riempite di senso ed è forse solo oggi venuto alla luce – è il caso di dire – ciò che allora era nello «stato di gravidanza» (p.53). La situazione mondiale che Anders diagnostica all’ epoca non sembra molto diversa da quella odierna: ci troviamo in una condizione di minaccia di distruzione atomica costante che, non solo ha trasformato la nostra storia in un tempo a termine, ma ha anche profondamente mutato l’essenza umana.
Chi sono infatti i morti del titolo andersiano? Siamo tutti noi, ancora noi, che «saremo i morti assassinati di domani, a meno che non ci riesca di fermare in tempo la minaccia» (p.13). Condannati non solo a morte o all’oblio – che presupporrebbe qualcuno ancora in grado di ricordare e dimenticare – ma al nulla. Negli anni del dopoguerra, infatti, l’ontologia andersiana si trasforma e la differenza ontologica di Heidegger assume con Anders un significato del tutto nuovo: il non-essere dell’essente (assolutamente diverso dal non-essente) è diventato possibile. Per questo motivo il nostro Dasein oggi è quello del soltanto essere-ancora dell’essente (Nochsein o del Weitersein des Seienden). Per scongiurare il rischio della sparizione del genere umano, dobbiamo ricordare i morti futuri già oggi, «come se fossimo superstiti di noi stessi» (p.14).
Quell’Apocalisse di cui Anders afferma che noi siamo signori e vittime, e che ci minaccia nella nostra esistenza come umanità intera, sembra però essere invisibile e indicibile; ci manca la possibilità di coglierla senza fare uno sforzo di immaginazione e di ampliamento delle nostre facoltà percettive e ci manca il linguaggio per nominarla. Ciò di cui Anders rende conto è una cecità che rende incapaci di capire che la prossima guerra nucleare – perché un’altra soltanto sarà possibile – causerà il naufragio dell’essere umano e che quindi non esiste più alcun motivo che potrebbe essere giustificato come causa di guerra. Lo snodo che però è interessante qui è domandarsi che tipo di guerra è oggi possibile. Ne L’odio è antiquato1, Anders descrive la trasformazione, se non la definitiva scomparsa, del sentimento dell’odio verso il nemico nell’orizzonte della guerra. La guerra si è modificata: non più trincee ma aerei che colpiscono intere città, schiacciandole come semplici puntini su una carta geografica, ad una distanza tale da rendere impossibile mettere a fuoco chi quelle città le popola. E oggi ci si è spinti anche oltre, poiché non è più nemmeno necessario sorvolarli quegli obiettivi, è sufficiente schiacciare un pulsante da una sala comando, al sicuro nel proprio paese. E come aveva appunto raccontato Anders, chi preme i pulsanti non prova odio. Allora non solo è antiquato il sentimento che ha sempre accompagnato la guerra, ma la guerra in sé, come l’abbiamo sempre conosciuta. Nel 1945 Hiroshima era stata «un’azione di manovra. La bomba ha assunto il suo vero ruolo solo dopo la fine della guerra, solo quando è stata prodotta come strumento contro il mondo comunista» (p.17). Anche oggi però, ben lontani dalla guerra fredda (o forse no), ci troviamo in una condizione analoga: siamo in realtà ancora in guerra, una guerra costante che non si esprime sempre e soltanto in combattimenti effettivi tra potenze mondiali, come le prime due guerre del secolo scorso, ma consiste nell’ormai insuperabile pericolo che pende sulle nostre teste. Non da molto si è ricominciato a minacciare di cancellare interi paesi dalla geografia mondiale, armi chimiche e missili intelligenti sono al centro del nostro dibattito; la retorica della deterrenza però, che era valsa per la guerra fredda, deve oggi essere identificata come una mistificazione. Come scriveva Norberto Bobbio2, se la deterrenza funziona ciò significa anche che la minaccia di riutilizzare la bomba è ed è sempre stata reale e credibile.
La proposta che avanza Anders nel 1964 per combattere chi ci minaccia è quella di uno sciopero di tipo nuovo: «scioperare non è doveroso solo se si tratta di lottare contro condizioni di salario intollerabili, ma anche se i prodotti che ci si chiede di realizzare hanno per conseguenza effetti di cui non riusciamo più ad assumerci la responsabilità» (p.35). Sottoscrivere un “giuramento di Ippocrate” dei lavoratori affinché ci si impegni a «non collaborare mai, se dovesse verificarsi il caso, alla produzione o al trasporto o all’installazione di tali prodotti» (p. 37).
Nel secondo saggio che compone il volume, Hiroshima è dappertutto (1982), Anders, che racconta dell’evoluzione della sua coscienza antinucleare e della storia del movimento antiatomico, commenta la sua scelta di formulare quell’imperativo: «fin dalla prima volta che scrissi dello sciopero dei prodotti […] sono stato consapevole del fatto ch’esso non era una cosa realistica. Ma non la consideravo (né ancora oggi la considero) una ragione sufficiente per ritirarlo» (p. 59).
Alla stessa maniera potremmo sostenere che il fatto che la terza guerra mondiale – quantomeno nella forma delle prime due del Novecento – non si sia verificata, non sia un argomento che valga davvero a svilire le tesi andersiane.
Nella condizione in cui «il Presidente di uno Stato potrebbe nella sua qualità di “più alto Signore della guerra” […] dare il segno decisivo del go ahead, che provocherebbe immediatamente il giudizio universale» (p. 84), non possiamo far valere la categoria di effettività su quella di possibilità. Il fatto che rimanga ineliminabile la possibilità della distruzione totale del genere umano, deve bastare a rendere il pericolo effettivo. Come aveva scritto in un saggio del 1960, Die Frist: «oggi è necessario impedire che il non essersi verificato finora della catastrofe venga frainteso come testimonianza contro la sua reale possibilità; che il “non-ancora” venga frainteso come segno del mai»3.
Il volume che ripubblica i due contributi andersiani propone anche una piccola appendice, che non compariva nell’edizione precedente, Quattro riflessioni su armi e armamenti. I convocati alla riflessione sono Jaspers, Blanchot, Glucksmann e Rawls in modo, come si dice nella nota, «da riprendere in mano i materiali filosofici di una riflessione svoltasi lungo la seconda parte del Novecento e ritornata più che mai d’attualità» (p.90). L’impressione è però che nessuno dei quattro brani – pur nella consapevolezza che si tratta di stralci decontestualizzati di opere più complesse – tenga il passo con la lucidità analitica andersiana e con la sua capacità di parlarci.
Il pericolo ancora oggi, dopo più di 50 anni dalle considerazioni andersiane, è peggiore, perché talmente esibito da essere nascosto, talmente entrato nel linguaggio comune da aver perso il suo significato. Bobbio notava, già nel 19914, che, invece della coscienza atomica, si andava formando una sorta di incoscienza, cioè rassegnazione e assuefazione di fronte alla possibile catastrofe. Forse allora oggi la soluzione non può ancora essere spingere all’ azione, come lo sciopero ippocratico, ma deve essere, innanzitutto, spingere al pensiero. Ripubblicare e rileggere le pagine andersiane non può che accelerare tale processo.
(La recensione del libro appartiene anche allo spazio dedicato a G. Anders da Azioni Parallele)
Note
1 G. Anders, Die Antiquiertheit des Hassens in Haß. Die Macht eines unerwünschten Gefühls, 1985; trad.it. Sergio Fabian, L’odio è antiquato, Bollati Boringhieri, Torino, 2006.
2 N. Bobbio, Il problema della guerra e le vie della pace, Il mulino, Bologna, 1979 (Quarta ed. 1997)
3 G. Anders, Endzeit und Zeitenende, Gedanken über die atomare Situation, C.H. Beck Verlag, München, 1972, p. 218.
4 Prefazione alla terza edizione del volume sopra citato, Il problema della guerra e le vie della pace.
(*) tratto da Sinistra in Rete
Terribilmente vero tutto.. così terribile che , tutti o quasi, lo rimuoviamo dalla coscienza.