Helene Paraskeva – Due storie noir

 

In occasione dell’otto marzo vorrei raccontare due storie “noir”.
La prima è il mito delle donne di Lemno riportato da Omero e da Apollonio Rodio, una storia d’orrore perché tratta dei crimini commessi dalle abitanti di Lemno, un’isola nel nord-est del Mar Egeo.

Erano donne lavoratrici, le lemnie, e sbrigavano ogni giorno le faccende domestiche, ma anche fuori casa svolgevano lavori pesanti, “da uomo”. Per questo si erano imbruttite e questo decadimento mosse l’ira della dea Afrodite che mandò loro una maledizione, un fetore impossibile da togliere.

In realtà, le abitanti di Lemno lavoravano all’estrazione della torba, un combustibile fossile, fonte di energia preziosa ma anche maleodorante. I mariti, però, erano disgustati, smisero di giacere con loro e si portarono delle concubine da fuori come sostitute. Le lemnie umiliate presero in segreto una decisione grave e irrevocabile. In una notte uccisero nel sonno tutti gli uomini. Senza pietà e senza distinzione fra mariti, padri, fratelli e persino figli, massacrarono tutti i maschi sull’isola. Solo una donna, la regina Ipsipile, ebbe pietà del padre anziano e malfermo e portandolo sulle spalle fino ad una barca lo lasciò andare al largo.

Da allora trascorse parecchio tempo e un giorno gli argonauti che passavano di là misero piede sull’isola per chiedere cibo e acqua. L’accoglienza delle lemnie era esemplare. Per due anni le donne dell’isola e gli argonauti vissero felicemente e prima della partenza le lemnie fornirono cibo abbondante che permise agli eroi di continuare il viaggio alla ricerca del Vello d’oro.

Le interpretazioni di questo mito sono tante, la più plausibile è quella collegabile ai riti del fuoco rinnovato celebrati all’inizio della primavera. Ma il mito ci rivela che commettendo quei delitti le donne in un momento di costernazione vollero “azzerare” i ruoli di moglie, madre, sorella, amante e figlia.

L’altra storia che vorrei accostare ai crimini di Lemno non è un mito, bensì il racconto “Eveline”, tratto da Gente di Dublino (1914) di James Joyce. Una narrazione che si legge perfino nel liceo ma solo dopo averla “spogliata” da ogni riferimento alla realtà del contesto sociale.

“Eveline” è il racconto di una ragazza dublinese che lavora dentro e fuori casa e per di più viene molestata sistematicamente dal padre alcolizzato. Finalmente, un giorno, incontra un giovane marinaio che le promette di sposarla se parte con lui per Buenos Aires. Ma Eveline non fuggirà mai con l’amato perché rimane fedele alla promessa che ha fatto alla madre morente di non abbandonare mai la famiglia.

In realtà, dalle note dell’edizione Penguin della raccolta si evince che Eveline già dall’età di diciannove anni pratica la prostituzione e il marinaio anziché salvarla la vuole solo portare a Buenos Aires per sfruttarla in esclusiva. Chi è, allora, la vera Eveline? La povera ragazza maltrattata o la prostituta svergognata?

Anche questi sono due ruoli femminili abbastanza consueti, due “dimensioni” della stessa donna che possono suscitare emozioni diametralmente opposte, pietà e simpatia per la prima, esecrazione e disprezzo per la seconda.

Eppure, la realtà di ogni donna è multidimensionale: figlia, moglie, madre, sorella, lavoratrice, Afrodite, concubina e domestica possono far parte delle dimensioni di una donna. L’azzeramento di questa o quell’altra dimensione porta a sacrificare una parte di noi stesse a seconda del contesto sociale in cui vogliamo essere accettate.

Senza dover uccidere nessuno bisogna imparare a riconoscere il valore della “seconda opportunità”. E riconoscere che gli argonauti della nostra esistenza siamo noi stesse.

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per informazioni e invio testi:
clelia pierangela pieri – xdonnaselva@yahoo.it
luigi di costanzo       – onig1@libero.it

 

Clelia

Un commento

  • sull’ultimo numero di “Internazionale” se andate a pagina 35 trovate un bell’articolo di Helene Paraskeva che spiega come “anche una conversazione con un’impiegata delle poste aiuta a capire i meccanismi della discriminazione” (db)

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