Histori

di Riccardo Dal Ferro
illustrazione di Marco Pasin

historiTokë.

In Kosovo quando pronunci questa parola sai che stai dicendo “terra”. Essa rappresenta un qualche cosa che da tempo ha acquisito un significato completamente diverso da quello cui siamo abituati. Quindi, non stai dicendo veramente “terra”, stai dicendo qualcos’altro, solo che non te ne rendi conto.

Nel salotto della catapecchia di Niko percepiamo subito un aroma di carne essiccata e muffa, il divano è sormontato da cianfrusaglie disordinate, scorgo tra esse immagini sacre, santini, candelabri, lui si affretta a spostare tutto, come se non volesse farci avvicinare troppo a quel tempio della confusione, per evitare che lo contaminiamo con la nostra ‘occidentalità’. O forse, è solo cortesia.

Zot, la parola che un kosovaro utilizza per chiamare Dio racchiude la durezza di una creazione a lungo sofferta. È incredibile come in questa lingua, più che in ogni altra, sia custodito il mondo stesso che l’ha forgiata: guerra, carneficina, battaglia, eppure anche una nostalgia senza nome che proviene da qualche primordialità dimenticata. Siamo nel regno di nessuno, laddove soltanto asnjeri, nessuno appunto, può salvarti.

Ciò che ci ha portati qui è il sentore di un corto-circuito nella storia, uno di quegli eventi che spesso, nel puzzle degli accadimenti umani, rappresenta un pezzo mancante, perduto non a causa della negligenza, bensì sepolto sotto il chiacchiericcio dell’ufficialità, quello sproloquio manualistico, un pezzo appositamente dimenticato per convenienza politica. Una guerra alle porte di casa nostra, rimossa come un evento poco importante (o forse, talmente scandaloso da non poterne parlare). La parte più interessante della storia, quella che ricorda solo colui che non ha voce per parlarne (o che non ce l’ha abbastanza potente per soverchiare l’infinito brusio degli urlatori), è custodita quasi sempre da anime timide, negli anfratti di quei luoghi toccati per sbaglio dall’atlante geografico. È difficile recuperarle, quasi impossibile, ma quando ci si riesce davvero, allora bisogna mettersi in ascolto, avendo la delicatezza di non interrompere.

A nord di Mitrovica si trova una zona d’Europa completamente brulla, il cui habitat è composto da fratture nella roccia che appena permettono l’insediamento umano. Eppure qui, ci dice Niko, qui l’uomo, njeriu nella sua lingua, ci vive da sempre. Ad averci condotti tra queste lande, incastrate nei Balcani come un incidente tettonico, sono state le voci di vecchi ubriachi e contadini analfabeti, i quali ci hanno indicato il luogo dove potevamo ascoltare una storia, histori, un racconto confinato in un angolo dal quale non sarebbe mai dovuto uscire.

Il colonnello Grosky arrivò con gran fragore di camionette militari e fucili spianati. Era una sera quella, una di quelle sere in cui la pioggia aveva deciso di consumare la pietra, e il villaggio, racconta Niko, accolse l’evento con timore e sorpresa. Non si sapeva da dove venisse quel manipolo di soldati, nessuno riconobbe le divise. Saper distinguere con precisione le fazioni e gli avvenimenti di una guerra è un lusso che si può permettere chi la osserva dall’esterno. Per colui che la vive sulla propria pelle, una guerra altro non è se non confusione e anarchia.

Le parole che escono dalla bocca del nostro anfitrione sembrano gracili, tremano nell’aria e si riversano nelle nostre orecchie, sono però pregne di una quiete che non ti aspetti. In esse c’è il seme di una testimonianza straordinaria, che ha bisogno di preparazione per essere raccontata, ma anche per essere ascoltata. Vuajtje e vdekje, sono parole che spesso procedono assieme. Il mio interprete, che fatica a comprendere il ruvido accento di Niko, me le traduce con “sofferenza” e “morte”. Nonostante tutto, c’è una luce particolare nello sguardo di quell’uomo: le sue rughe sono solcate dalla durezza di quella vita, combattuta tra pascoli e miniere, la guerra appena finita gli ha scolpito addosso la stessa atarassia che si può percepire in quegli uomini che hanno ingoiato la tragedia tutta intera, senza venirne sopraffatti. Nessuna anagrafe ha mai raccolto i dati salienti di questo individuo, egli è uno degli invisibili, e solo la terra ne reclamerà la salma, in un giorno forse non troppo lontano. Nonostante tutto, la devozione che traspare in ogni suo gesto ne fa uno scheletro buono, un delicato oggetto del luogo che partecipa inconsapevole di quell’atmosfera con un incedere umile e sommesso.

Il colonnello e i suoi uomini parlavano una lingua mai sentita tra quelle contrade prima d’allora. Era bruta, ma l’accento tradiva una provenienza distante, la radice delle parole non era comune all’idioma locale. La loro carnagione era incrostata di una sabbia che si portavano da chissà dove, le loro tracce si erano perse al confine con la Serbia, ma era chiaro che quella terra violenta non poteva essere la loro patria. Il loro fiato usciva a fiotti nella cruda aria invernale, quasi come quello dei cani selvaggi durante la stagione in cui essi avevano fame.

In fretta e furia il villaggio fu trasformato in un campo di prigionia. La casa del popolo, nella quale si prendevano le decisioni che regolavano seppur debolmente la vita in comune degli abitanti, venne bruciata e i suoi occupanti sgozzati davanti a tutti. Non c’era stata alcuna dichiarazione di guerra, nessun avvertimento, neanche una parola di ultimatum. Quella regione non aveva risorse, viveva di pascolo e carbone, non c’era motivo per occupare un territorio simile, ma la crudeltà dei soldati colse di sorpresa tutti, rendendoli refrattari alla reazione. Pushtim, “invasione”, così la chiama Niko, e i suoi occhi accendono una memoria che brilla di terrore.

Irina aveva ventiquattro anni. I suoi tre figli, il cui nome Niko non pronuncia per rispetto e timore, avevano rispettivamente quattro, sei e sette anni quando furono uccisi nel fango dai soldati di Grosky. Niko dice di ricordare bene i loro visi, sporchi della terra fradicia di acqua e sangue che ormai non avrebbe più visto crescere né erba né vita, e già al settimo giorno di occupazione i morti erano più di quaranta. Tmerr, l’orrore serpeggiava ormai cinico tra i superstiti. Le donne venivano risparmiate dall’eccidio solo quando erano giovani e attraenti e, come superfluamente ci spiega Niko, in quei casi non sarebbe stata la sete di sangue dei carnefici a esser brutalmente soddisfatta.

Nessuno comprendeva come quel che stava accadendo in quel luogo sfortunato fosse legato alla guerra che incombeva da ogni dove, sapevano soltanto di non avere possibilità di scampo, tanto erano armati e senza scrupoli quei soldati. Il colonnello Grosny sgozzava tre persone al giorno di propria mano, farfugliando sentenze indecifrabili in quella lingua biforcuta, la sua risata raschiava il fondo dell’esofago e le parole pronunciate avevano il suono dell’aratro che gratta l’asfalto. Era una durezza diversa da quella del loro linguaggio, non proveniva dalla terra, ma dallo stomaco, perché aveva un che di artificiale e recitato. Non c’era verità in quel brontolare straniero.

Irina aveva ventiquattro anni, fu scelta durante la terza settimana di occupazione dal colonnello Grosny, il quale si era premurato del fatto che i soldati ne lasciassero intatte le fragili e sensuali fattezze, non facendole torcere nemmeno un capello. Da quando le avevano ucciso i tre bambini, lei non aveva più detto una parola, si era chiusa in se stessa recitando in maniera compulsiva le sue preghiere, lutjet, senza praticamente più mangiare o bere alcunché. Ciò che colpì Niko, compagno di prigionia, era la totale mancanza di rabbia negli occhi ormai svuotati della giovane madre.

La notte in cui Irina fu convocata presso l’edificio dove il colonnello Grosny aveva preso sede, la trovarono come sempre inginocchiata nel fienile adibito a prigione con il rosario stretto tra le mani. «Shpirti i femijeve nuk vdes kurre», continuava a sussurrare all’aria, come non avesse pace. Niko dice di essere stato l’ultimo a vedere Irina prima che uscisse da quel luogo, le vesti strappate lasciavano scoperta parte della candida carnagione della ragazza, e i suoi occhi continuavano a sbirciare in modo compusivo il pavimento accanto ai suoi piedi nudi, come a cercare qualche cosa, come a cercare un appiglio cui aggrapparsi forte. Quando i soldati la portarono fuori dal fienile, per un momento i prigionieri persero ogni speranza. Irina era l’ultima tra essi a pregare ancora, e la sua litania teneva accesa la fragile vita che ancora pulsava nei loro cuori svuotati.

Per un momento mi illudo che il racconto sia finito, gli occhi di Niko si spengono d’un tratto, il mio traduttore smette di parlare e la stanza viene pervasa da un silenzio irriconoscibile.

Hakmarrje, questa parola la riconosco persino io, sentita molte volte nella mia ricerca attraverso i Balcani, una parola che troppo spesso riempie la bocca degli indigeni: “vendetta”.

Niko mi parla attraverso gli occhi, d’un tratto vivi e tornati a una giovinezza che non ritenevo possibili, la loro apatica presenza si tramuta in un rovente sguardo colmo di onestà. La vendetta prese una forma strana, quella notte, assunse le sembianze di una donna così gracile da potersi rompere al soffio di un vento modesto, Irina attraversò quieta la strada che la separava dall’assassino dei suoi bambini, gettati tristemente nella fossa comune scavata a est del villaggio. Non aveva più nulla, né speranze né paure, ma la sua litania continuò incessante fino al varcare di quella soglia, oltre la quale la aspettava ulteriore sofferenza.

«Shpirti i femijeve nuk vdes kurre», cioè “L’anima dei figli non muore mai”, una vecchia preghiera slava che recitavano i contadini quando i loro figli perivano in guerra, un anatema a lungo conservato da un popolo dimenticato, che a causa di chissà quale destino ritornava alla luce attraverso una donna devastata. Quella litania, nelle sue semplici parole, custodisce tutto il senso della sofferenza per un genitore che si scopre a dover seppellire i propri figli, gesto che rappresenta il sovvertimento brutale delle leggi del tempo. In una simile tragedia, l’unica vendetta non può che esser gridata al mondo stesso, un urlo strozzato rivolto contro l’ordine prestabilito dell’universo. Così dice Niko nella rabbia che ora pervade i suoi occhi rugosi, la sua bocca muovendosi mi racconta del lacerante grido proveniente dalla baracca del colonnello Grosky, degli spari di rivoltella come impazziti, dell’accorrere dei soldati all’interno dell’edificio. Uno schianto poi, una luce abbagliante che accieca i testimoni. E poi, quel vuoto imponderabile che si immagina segua la fine del mondo.

Tutto ciò che i pochi testimoni poterono capire, dopo quel disastro, fu che la porta del fienile era aperta, e i soldati scomparsi nel nulla assieme al loro colonnello Grosky e a Irina, la madre sacrificata. Niko afferma di aver visto distintamente uscire dalla baracca, dopo lo schianto, quattro ombre lontane, tre delle quali erano senza alcun dubbio bambini. Si tenevano per mano e, lontani da occhi indiscreti, imboccarono il sentiero che porta fuori dal villaggio, verso le spoglie colline rocciose del Kosovo. I pochi superstiti rimasero per quasi tutta la nottata a cercare i loro carnefici, mossi più da pietà che non da rabbia, privi della forza necessaria per combattere, ma pieni di voglia di ricominciare. Non trovarono alcun corpo.

Ciò che stentavano a comprendere era come tutto fosse finito.

Niko ci accompagna per qualche centinaio di metri oltre la sua catapecchia, nel luogo in cui sorgeva l’umile casa di Irina. Al posto della costruzione c’è ora un cumulo di macerie dissestate, e avvicinandoci scorgiamo in maniera netta quella scritta così significativa, dipinta sui sassi sconnessi con quello che di primo acchito direi possa essere sangue: Shpirti i femijeve nuk vdes kurre. Niko dice che la leggenda vuole che quello sia il sangue di Grosky e dei suoi soldati, versato nel nome della vendetta da una forza misteriosa.

Quando ci voltiamo, ritornati alla realtà dopo questa testimonianza così incredibile, Niko conclude la vicenda dicendo di non avere prove a sostegno di ciò che ci ha raccontato, se non quella dipinta sulle macerie, la quale potrebbe però essere stata scritta da chiunque con l’uso di qualche vernice particolare. Dice che non gli interessa essere creduto, dice che sa quanto la voce di un vecchio minatore ubriaco del Kosovo possa essere una fonte poco attendibile per dei cronisti, ma aggiunge: qielli, il cielo, è quello il testimone che può confermare le sue parole. E in effetti, spendente il Sole su quel territorio scarno, sembra quasi voler annuire alle parole del vecchio.

Detto questo, se ne va mestamente.

Ritornato in Italia, dopo mesi di ricerche approfondite su tutte le informazioni che ho raccolto, scopro che non v’è traccia alcuna di un certo colonnello Grosky, durante la guerra tra Serbia e Kosovo. Non vi sono conteggi anagrafici né censimenti attendibili a riguardo di quel piccolo villaggio a nord di Mitrovica, né si trova traccia di occupazioni avvenute recentemente in quei luoghi. Trovo solo un paio di foto di una ragazza molto giovane, in mezzo alla documentazione disordinata che mi trovo a collezionare, una ragazza che avrà avuto vent’anni ai tempi dello scatto, una ragazza censita di nome Irina, ma di lei non so più niente. È sorprendentemente facile però immaginare quel volto sereno a pascolare tranquillo il gregge di pecore smagrite, mentre i bambini corrono sotto quel cielo che, come ha detto Niko, è stato testimone di tutta quella vicenda.

Ora, io non so se questo racconto narrato in una lingua così dura e onesta possa essere frutto di fantasia, e probabilmente sarà proprio così. So soltanto che Niko non avrebbe avuto interesse a mentirmi, perché non ha chiesto nulla in cambio, se non il mio interesse e il mio ascolto.

E se voi mi chiedete, ma allora, perché ce l’hai raccontata? Non vi so dare una risposta, se non quella che trovate all’inizio di questa narrazione. A volte la storia vera, quella che non scorgiamo sulle pagine dei manuali di scuola, la si trova nei luoghi più impensabili, narrata da personaggi improbabili incontrati chissà in quali fortuiti accidenti. Si tratta, a volte, di mettersi in ascolto e basta, avendo la delicatezza di non interrompere.

E, qualche rara volta, ci potremo accorgere di non aver sprecato il nostro tempo nel contemplare quello che, superando di poco l’immaginazione, potrebbe essere forse un pezzo perduto di quel puzzle che siamo soliti chiamare “storia”.

Perché, al di sopra di tutto, persino della verità o della fantasia dei fatti narrati, c’è il fatto testimoniato da quelle parole così oneste: Shpirti i femijeve nuk vdes kurre.

E il cielo m’è testimone.

Riccardo DAL FERRO

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