Hybris
di susanna sinigaglia
Hybris
Flavia Mastrella – Antonio Rezza
Un Antonio Rezza sempre più sfolgorante ha infiammato il pubblico dell’Elfo con questo spettacolo per certi versi strepitoso. Sembra che con gli anni l’attore abbia moltiplicato le sue energie diventando irrefrenabile, instancabile, e che potrebbe continuare a saltare e sparare le sue battute, i suoi scioglilingua apparentemente nonsense, all’infinito. Apparentemente nonsense. È proprio questa una delle chiavi per intendere il messaggio che si nasconde dietro il suo straparlare a raffica: una specie di risultato residuale che si deposita dopo le sue lunghe tirate accompagnate da gesti frenetici e concitati, e ci apre uno spiraglio, ci fa risuonare nell’animo qualche nota improvvisa. Come se l’artista fosse affetto da una strana forma di bulimia che lo spinge, durante il giorno, a ingozzarsi di parole rigurgitandole poi la sera per il pubblico che si trascina dietro come un pifferaio magico.
Lo spettacolo inizia con una bara piazzata sul margine esterno del palco: all’interno il protagonista con un buffo abito colorato a rombi, da giullare, compie gesti quasi impercettibili ma che appaiono a poco a poco intelligibili come uno scongiuro diretto agli astanti che stanno vegliando la sua presunta salma.
In seguito il lavoro è tutto costruito intorno a una porta che Rezza sposta da un lato all’altro dello spazio scenico per delimitare ogni volta un ipotetico-arbitrario dentro e un altrettanto ipotetico-arbitrario fuori, manovrando allo stesso tempo come girandole i suoi compagni di scena a cui, all’inizio dello spettacolo, ha attribuito indebitamente un ruolo trasformandolo però a suo piacimento: per esempio, a un certo punto sono i familiari della fidanzata che diventano i familiari di lui e viceversa. In questo turbinio di cambi di ruoli imposti in un frenetico crescendo, che a volte assomiglia alla cronaca accesa di una partita di calcio, vediamo gli attori muoversi senza sosta da un “dentro” a un “fuori” per stare dietro agli ordini scanditi dal loro “dominus”.
La scena mi evoca uno di quei quadri di Escher in cui le figure sembrano salire o scendere le scale, secondo dove si posa lo sguardo, senza soluzione di continuità.
Trovandoci in ambito familiare, emerge un tema forte: quello dell’incesto. Qui, il desiderio del maschio di possedere la madre. La madre appare sempre sdraiata su una sedia a rotelle vestita di rosso – indossa un abito scollato con le spalline –, cui regolarmente ritorna il protagonista simulando il rapporto sessuale stimolato da pensieri o associazioni incongrue.
Anche in questo caso, la mente corre a un artista famoso, Pasolini, e al personaggio perverso di Petrolio – Carlo – che si scopava la madre ma, non abbastanza soddisfatto, anche la nonna e, ancora non abbastanza soddisfatto, tutto lo scopabile in cui s’imbatteva nella Roma desolata attraverso cui vagava di notte.
Quasi a mo’ di citazione in due momenti diversi, un forsennato Rezza scende dal palco e, scegliendo un malcapitato o malcapitata fra il pubblico in prima fila, mima anche con loro il rapporto sessuale…
Un’altra immagine mi evoca allora questo spettacolo e la sua interpretazione: il dipinto di Magritte intitolato Lo strupro, un quadro emblematico dell’umorismo nero del pittore di fronte al quale il riso isterico che suscita finisce per strozzarsi in gola in un singhiozzo soffocato.
Antonio Rezza è, fra l’altro, anche un mago delle battute di spirito provocando l’effetto stupore che è loro proprio. Per esempio, lui dice a lei:
Cara, stasera ti porto fuori.
Poi passo a riprenderti fra un’ora e mezzo.
Oppure:
Mi ti dimentico appena ti vedo
in tempo reale
Capriole verbali dell’egocentrismo…
Anche nella scena seguente.
In uno dei tanti utilizzi, la porta diventa un varco aeroportuale il cui allarme suona al passaggio del nostro. Allora lui comincia un lento spogliarello che alla fine lo vede nudo con un unico calzino poiché finora l’allarme ha continuato ad avvertire qualche irregolarità. Ma quando Rezza si toglie anche il secondo calzino, passando sotto il varco, l’allarme suona ancora: perché? Spiega l’artista: “Ero io che facevo bzzz”.
La scena mi fornisce il destro per introdurre la questione cui accenna il titolo: l’hybris.
L’estrema ridondanza, i paradossi proposti dal duo Rezza-Mastrella puntano a indicarci l’irrazionalità delle realtà abnormi cui ci vorrebbe assuefare un sistema talmente costruito sul profitto, la disumanizzazione e la mercificazione, che rischia di non essere più riformabile.
Come ha sostenuto Antonio Guterres, il segretario generale dell’Onu, nel suo discorso inaugurale alla Cop 27: “Siamo su un’autostrada diretti verso l’inferno climatico con il piede sull’acceleratore”. Sospingendoci verso la catastrofe, questo sistema sbandiera improbabili slogan e penose facciate per camuffare quel che è sempre meno occultabile. Non a caso lo spettacolo termina con Rezza che, simulando spari in sequenza percuotendo la porta contro il telaio, a ogni colpo abbatte un compagno di scena fino a che anche l’ultimo interprete giace sull’impiantito del palco.
Particolare curioso: fra un’ovazione e l’altra, l’attore si è precipitato in sala risalendo i gradini dove sono collocate, come su due ali, le file di posti a sedere; ridiscendendo le scale, si è voltato indietro a fissare negli occhi il suo pubblico quasi in un interrogativo silente se quell’entusiasmo così vistosamente esternato fosse sincero: questo ho colto, nel suo sguardo…
Io invece l’ho trovato stanco e ripetitivo. Affidato il lavoro alle sue eccellenti e indiscusse capacità, e alle sempre belle ed essenziali soluzioni sceniche di Flavia Mastrella, questa volta ha un po’ “tirato a campare” come se dovesse farlo “per forza”. Niente di male: resta sempre un genio, un attore grandissimo. Ma per la prima volta è riuscito anche ad annoiarmi. E, dando un’occhiata intorno, anche altri del pubblico… Troppe forzature, troppe boutades. Un applauso al suo immenso estro, ma non a questo spettacolo.
Però, si sa, perfino i geni possono calare un attimo per poi risalire più forti di prima. Lo aspetto con fiducia e sono certo che tornerà presto.
Comunque la colpa è solo sua: Rezza ci aveva abituati ai capolavori.
caro alberto, credo che dipenda molto dal momento in cui si vede uno spettacolo. forse quando l’hai visto tu, rezza era davvero stanco e magari un po’ demotivato chissà per quali ragioni. a me invece è sembrato, come del resto scrivo, uno spettacolo decisamente diverso dagli altri che ho visto e pieno di riferimenti. mi dispiace che tu non l’abbia potuto apprezzare