I giorni e le notti

Una rivista che chiude è sempre (o quasi) una brutta notizia, soprattutto quando si tratta di riviste che raccolgono ed esprimono opinioni non conformi. A prescindere da quanto si possano condividere.

Riprendiamo, con ritardo, l’editoriale dell’ultimo numero della rivista anarchica “I giorni e le notti” 

 

È uscito l’ultimo (in tutti i sensi) numero della rivista anarchica “i giorni e le notti”.

 

 

È uscito il numero 15 (Giugno 2024) della rivista anarchica “i giorni e le notti”, di cui riportiamo l’editoriale e l’indice degli articoli.  Con  questo  numero  si  conclude  l’esperienza  della rivista.  Il  progetto  editoriale  continuerà  in  altre  forme.  Il numero, di 114 pagine, costa 5 euro.

È gratutito per detenuti e detenute. Per i distributori dalle 3 copie in su, il prezzo è di 4 euro a copia.

Per richieste scrivere a: Circolo “Nave dei folli” via Santa Maria 35 38068 Rovereto (TN)     oppure a: navedeifolli@gmail.com

Editoriale

Con  questo  numero,  il  quindicesimo,  chiudiamo  l’esperienza della rivista. Non è certo venuta meno l’esigenza di chiarirci le idee,  di  approfondire  le  analisi,  di  orientarci  teoricamente, eticamente e praticamente in un presente di sciagure, di grandi sconvolgimenti,  ma  anche  di  inedite  possibilità.  Anzi,  mai come negli ultimi anni – dall’Emergenza Covid alla guerra in Ucraina, dal genocidio in corso a Gaza agli scenari di conflitti globali – le idee – non le opinioni – hanno rivelato tutto il loro peso, nella misura in cui scelte quotidiane e visione del mondo sono state costrette a riavvicinarsi fino quasi a coincidere. E se, da quando la rivista è nata, otto anni fa, abbiamo concentrato la nostra critica teorica e pratica soprattutto sull’incarcerazione tecnologica  della  società  e  sulla  guerra,  non  si  può  certo  dire che gli angoli di visuale e di attacco siano stati scelti male. Al punto che oggi, se non si è affini su tali questioni storico-sociali decisive,  si  rischia  di  perdere  in  consistenza  quello  che  si guadagna  nei  singoli  “raggruppamenti  di  scopo”.  Valga  per tutti l’esempio del posizionamento a proposito della guerra che si  combatte  tra  la  Nato  e  la  Federazione  russa  in  Ucraina.  Di fronte al fatto che alcuni rivoluzionari si sono schierati con il proprio  Stato  in  occasione  dell’invasione  militare  russa, abbiamo  registrato  la  reticenza,  se  non  peggio,  nell’affrontare la questione in una parte significativa del movimento a livello internazionale.

Il  parallelo  sembrerà  forse  tirato  per  i  capelli,  ma  quando  si ritiene che, in casi straordinari, lo Stato possa essere il garante della  salute  collettiva,  perché  non  ritenere  che,  in  casi  ancora più  drammatici,  esso  possa  diventare  un  alleato  nella  difesa territoriale?  Per  quanto  possa  sembrare  “massimalista”,  è soprattutto nei periodi più disorientanti che c’è bisogno della bussola  dei  princìpi.  Intesi  non  come  un  insieme  astratto  di prescrizioni,  ma  come  distillato  dell’esperienza  storica  di classe.  È  proprio  l’esperienza  storica,  infatti,  a  insegnare  che non  ci  si  deve  far  fuorviare  dai  fini  e  dai  valori  che  la  classe dominante  proclama  di  perseguire,  ma  giudicare materialisticamente la concatenazione dei mezzi ch’essa mette in  campo.  I  mezzi  della  costrizione   poliziesca  e  tecnologica) producono  costrizione.  I  mezzi  della  guerra  –  quel  comando gerarchico che è una forma ben precisa di organizzazione della violenza  –  producono  guerra.  Una  guerra  che  si  combatte sempre  su  due  fronti:  quello  dello  Stato  contro  l’esercito nemico  e  quello  dello  Stato  contro  la  propria  popolazione, trasformata in carne da cannone.

Oggi  la  guerra  è  ibrida  e  globale.  Dalla  digitalizzazione all’ingegneria  genetica,  dalla  quantistica  all’automazione  dei processi  tecno-industriali,  dall’architettura  del  controllo  alla propaganda  contro  i  cervelli,  dall’attacco  classista  alla sostituzione  algoritmica  degli  umani  –,  la  logica  della potenza  avanza  nella  misura  in  cui  si  approfondisce  la  crisi della  valorizzazione  capitalistica.  Dai  territori  al  sottosuolo, dallo spazio ai corpi, le nuove enclosures si allargano a tutto – ela  competizione  attorno  a  questi  «monopoli  radicali»  ha sempre  più  i  caratteri  della  guerra  totale.  Di  tutto  questo  ci parla  il  primo  genocidio  automatizzato  della  storia:  quello  in corso contro la popolazione di Gaza. Il programma algoritmico dei  bombardamenti,  in  un  intreccio  di  militarismo  e  di teocrazia,  si  chiama  Vangelo.  Ed  è  di  una  tale  infamia macchinizzata che siamo contemporanei.

Dentro delle ben precise specificità storiche – quello israeliano è  l’unico  colonialismo   ’insediamento  non  ancora  concluso,  nonché  un  anello  fondamentale  dell’imperialismo  occidentale–,  il  sistema-Israele  è  il  paradigma  di  una  tendenza  globale.

Non  solo  perché  è  sulle  vite  e  sui  territori  palestinesi  che  si sperimentano tutte quelle armi, quelle tecnologie, quelle forme di architettura della sorveglianza, quelle tecniche di ingegneria sociale  che  poi  vengono  vendute  agli  Stati,  agli  eserciti,  ai tecnocrati  del  mondo  intero.  Ma  anche   perché,  dal  momento che il capitalismo produce sempre più masse eccedenti che non vuole  né  può  integrare,  la  macchina  tecno-militare  israeliana offre  un  banco  di  prova  su  come  praticare quell’«accumulazione  senza  riproduzione»  che  caratterizza oggi  l’organizzazione  capitalistica.  Lo  scriveva  già  Hannah Arendt  negli  anni  Cinquanta:  «Il  pericolo  delle  invenzioni totalitarie è che oggi, con la popolazione e lo sradicamento in rapido aumento quasi dovunque, intere masse di uomini sono di  continuo  rese  superflue  nel  senso  della  terminologia utilitaristica.  È  come  se  le  tendenze  politiche,  sociali  ed economiche  dell’epoca  congiurassero  segretamente  con  gli strumenti  escogitati  per  maneggiare  gli  uomini  come  cose superflue».  Ecco  allora  che  per  passare  dallo  «spazio  del respiro»  (espressione  militare  con  cui  si  indica  il  calcolo scientifico  delle  calorie  necessarie  per  assicurare  la  mera sopravvivenza alla gente di Gaza, «il tempo rimanente prima che  le  persone  inizino  a  morire  di  fame»)  allo  spazio  del terrore, basta una mossa nel quadrante dei comandi. Ma  la  stessa  Arendt  annotava  qualche  anno  dopo: «L’affermazione  fatta  per  inciso  da  Proudhon:  “La  fecondità dell’imprevisto supera di gran lunga la prudenza dell’uomo di Stato” è per fortuna ancora vera. Essa supera in modo ancora più  ovvio  i  calcoli  degli  esperti».  E  nulla  lo  dimostra  meglio della  variante  umana  palestinese,  capace  di  bucare  il  Muro elettronico e di infondere un sentimento di rivolta e di riscatto tra  milioni  di  proletari  che  si  sentono  già  «maneggiati  come cose superflue». Corrispondere nel pensiero e nell’azione a tale «fecondità  dell’imprevisto»,  per  trasformare  la  guerra  dei padroni in guerra contro i padroni: ecco il compito a cui siamo chiamati.

Perché chiudere allora uno strumento di analisi – per quanto modesto  –  come  «i  giorni  e  le  notti»?  Le  ragioni  sono  sia oggettive  che  soggettive.  Tra  redattori  in  carcere  o  ai domiciliari ed altri che rischiano di finirci a breve, le forze per continuare  questo  progetto  editoriale  sono  davvero  esigue.  A questo si potrebbe ovviare allargando la redazione a compagne e  compagni  con  cui  in  questi  anni  abbiamo  scoperto  o riscoperto  una  buona  intesa,  come  in  parte  è  avvenuto  anche per  il  numero  che  avete  fra  le  mani.  Ma  non  sarebbe  più  la stessa rivista – che è nata e si è sviluppata come espressione di un raggruppamento locale, in un intreccio di discussioni e di interventi  maturati  in  un  contesto  specifico.  Il  progetto  «i giorni  e  le  notti»  continuerà,  ma  non  più  nella  forma  della rivista. Nasceranno semmai altri progetti editoriali cartacei. Le riviste  vanno  e  vengono.  A  rimanere  sono  i  giorni  e  le  notti nutriti  di  libertà,  nella  tensione  anarchica,  sui  sentieri  della rivolta  (e  dell’utopia).  Sentieri  che,  di  fronte  a  scenari  di controllo  asfissiante,  repressione  e  mobilitazione  bellica, saranno sempre meno agevoli e segnati.

Non volevamo chiudere l’esperienza della rivista raccogliendo solo testi troppo appiattiti sugli orrori del presente, ma anche rinnovare  sguardi  su  di  una  storia  millenaria  rimossa, raccontare  esperienze  di  saperi  sospesi  tra  la  materia  e  lo spirito,  ritornare  sulla  questione  del  comunismo  anarchico, abbozzare  note  sul  progetto  rivoluzionario,  dare  spazio  a parole  più  emotive  su  cosa  può  voler  dire  essere  compagni.

Non  rinunceremo  mai  alla  nostra  «incredulità  verso l’onnipotenza del visibile», alla testardaggine di piantare radici nel  vento.  La  vita  è  troppo  breve  per  non  riempirla  di  sogni ardenti.

Come ha fatto fino alla fine Alfredo Bonanno, che vogliamo qui ricordare con gratitudine.

INDICE

Editoriale

Una nuova aurora

Radici al vento

Un porto, una città, una lotta, il movimento

Note a Il progetto del rivoluzionario di Alfredo Bonanno

Individualismo anarchico contro comunismo anarchico?

Oppure comunismo anarchico con individualismo anarchico?

Contabili dell’esistenza e musica della rivolta

Una lettera antiquata

I giorni cattivi finiranno

da qui: rivoluzioneanarchica

 

 

Redazione
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